Biculturali e cosmopoliti di Alberto Casadei Luigi Fontanella LA PAROLA TRANSFUGA Scrittori italiani in America pp. 267, €20, Cadmo, Fiesole (Fi) 2003 La questione della letteratura degli italiani emigrati è stata negli ultimi anni affrontata in una prospettiva interculturale, che consente finalmente di operare le dovute distinzioni fra le varie generazioni di scrittori, in rapporto al loro diverso grado di interazione con la cultura acquisita. Il libro di Fontanella è un ottimo frutto di questa fase degli studi, in particolare sulla produzione degli italoamericani: ma già questa etichetta risulta, a un'attenta analisi, ben poco precisa. Nel saggio introduttivo l'autore, che insegna alla State University of New York di Stony Brook (ed è anche poeta e narratore), sottolinea infatti che la letteratura ita-loamericana è soggetta a una profonda modificazione storica, dovuta alla progressiva attenuazione dei legami degli emigrati con l'Italia, e precisa che, invece di ricercare una sua inesistente sostanza "etnica", occorre indagare le sue diverse sfumature, in rapporto continuo e dialettico con la produzione letteraria americana nel suo complesso. Ecco allora che, a seconda dei periodi e degli autori, si potrebbe parlare di "americo-italiani", " italo-americani ", " italo-italiani" (questi ultimi scrittori "ubiquitari", ormai intrinsecamente biculturali e cosmopoliti, come Paolo Valesio o Franco Ferrucci, dei quali peraltro il saggio non si occupa). Oltre a offrire un rapido ma preciso panorama della letteratura dell'emigrazione sin da fine Ottocento (con una ricca bibliografia), Fontanella propone quattro capitoli dedicati ad alcuni fra gli autori più rilevanti, in diversi periodi storici. Il primo è l'abruzzese Pascal (Pasquale) D'Angelo, espatriato negli Stati Uniti nel 1910 e autore, oltre che di numerose poesie (in parte qui proposte), di un'autobiografia (Son of Italy) in cui rievoca la sua terra d'origine in termini quasi, mitici e descrive senza edulcorazioni le difficoltà della vita in America. Segue un saggio dedicato al pugliese Joseph Tu-siani, emigrato nel 1947, il quale manifesta nei suoi versi un uso plurilinguistico, frutto di una solida cultura classico-umanistica, che consente a questo scrittore di impiegare l'inglese o l'italiano, a forte base latineggiante, con uguale abilità (e interessante è il deciso ritorno all'italiano nella produzione più recente). N.3 Saggistica letteraria Di notevole efficacia i testi di Alfredo De Palchi, nato in provincia di Verona nel 1926 ed emigrato negli Stati Uniti nel '56, dopo una detenzione per accuse poi rivelatesi infondate. I versi di De Palchi, apprezzati da Vittorio Sereni, deformano l'italiano, non senza implicazioni psicoanalitiche e surreali, e riescono a esprimere bene l'insensatezza della vita nella Grande mela, attraverso una contro-epopea della quotidianità. Ma il saggio più lungo è dedicato al molisano Giose Ri-manelli, ben noto al pubblico italiano per il diario della sua giova-nilissima adesione alla Repubblica di Salò (Tiro al piccione, 1953, riedito con introduzione di Sebastiano Martelli per Einaudi, 1991). È proprio Rimanelli a darci con Familia (2000) un'intensa "memoria dell'emigrazione", che ripercorre sia le motivazioni personali (non solo economiche) per gli espatri tra Otto e Novecento, sia la situazione di chi è arrivato negli Stati Uniti dopo, senza più miti e grandi illusioni. Emigrazione come ricordo, come destino, come arte: con queste formule Rimanelli identifica condizioni diverse, che portano in conclusione a considerare la patria un "luogo ubiquitario dove si è sempre a casa, perché casa e scrittura combaciano". ■ Alberto.Casadei.Sitai.unipi.it Critica a ritroso A. Casadei insegna letteratura italiana all'Università di Pisa Da troppa ideologia a troppa forma di Giuseppe Traina Gianni Turchetta CRITICA, LETTERATURA E SOCIETÀ Percorsi antologici pp. 330, €22,30, Carocci, Roma 2003 Non si può dire che l'editoria italiana di area umanistica si sia fatta cogliere impreparata dalla riforma universitaria che, col varo delle lauree triennali, ha dato il suo contributo alla trionfante volatilizzazione del sapere e del pensiero critico: gli editori più attrezzati - Bruno Mondadori, Carocci, Laterza, il Mulino (gli stessi cioè che continuano fortunatamente a pubblicare saggi di più ragguardevole impegno scientifico) - hanno varato apposite collane di manualetti assai compendiosi, a volte anche di accettabile qualità ma concepiti per adattarsi all'esilarante, micidiale computo delle pagine da studiare in rapporto ai crediti formativi previsti dall'esame, computo con cui ogni docente deve oggi - è il caso di dirlo - fare i conti. Di conseguenza si rinuncia a prescrivere agli studenti la lettura diretta dei testi: ecco perché, per provare a contrastare la bignamizzazione degli esami, è da salutare con grande favore almeno il ritorno alla struttura del reading ben fatto, come certi volumetti zanichelliani di una ventina di anni fa. Un esempio eccellente di reading è offerto da questo nuovo volume di Turchetta, adattissimo a figurare come testo base (o testo unico: dipende dal numero dei crediti...) di un corso di sociologia della letteratura: l'autore ha scelto appunto la struttura dell'antologia, raccogliendo dove possibile saggi interi o, comunque, passi sostanziosi di opere "canoniche", preceduti da accurate presentazioni e corredati da un'introduzione nella quale l'intento teorico è congiunto al sale della polemica. Egli si dice infatti consapevole di quanto sia tendenzioso e quasi inattuale riproporre oggi la validità statutaria degli studi di sociologia della letteratura, da almeno una ventina d'anni oscurati per il "complessivo declino della critica dell'ideologia, a sua volta legata al crollo di un certo tipo di spinta al cambiamento politico"; d'altronde, l'obiettivo di Turchetta è dimostrare che agli eccessi dell'ideologismo anni settanta hanno corrisposto altrettali eccessi di certo formalismo (e ce n'è anche per la narratologia genet-tiana!), talché troppo spésso a "un massiccio dispiegamento di forze analitiche" è seguita "una sintesi interpretativa debole, quando non francamente insoddisfacente". Mirando a evitare, sulla scorta di certe osservazioni di Mukarovsky, la contrapposizione netta tra indagine formale e indagine sociologica, si capisce come Turchetta dia adeguato risalto a Bachtin, Auerbach, Jauss, Benjamin (davvero notevole per chiarezza e capacità di sintesi l'introduzione a quest'ultimo, del quale sono privilegiate le pagine su Baudelaire); lo statuto elastico della disciplina gli consente, tuttavia, di dare adeguato rilievo alle vere e proprie pagine di critica dell'ideologia e sociologia della cultura: Gramsci, Sartre, Escarpit, Watt, Bourdieu -proposta, quest'ultima, decisamente innovativa e coraggiosa, mentre gli altri autori antologizzati erano quasi tutti già presenti in un volume analogo curato diversi anni fa da Graziella Pagliano per il Mulino - oltre ai prototipi Marx ed Engels (l'utilità e attualità dei quali sono riassunte con appassionato equilibrio); per poi concludere con una sezione dedicata a chi (Spinazzola e il compianto Schulz-Buschhaus; ma perché, allora, non anche Petronio?) ha particolarmente studiato i rapporti tra sistema letterario, generi letterari e mondo editoriale. di Nicola Merola Mario Lavagetto LAVORARE CON PICCOLI INDIZI pp. 346, €28, Bollati Boringhieri, Torino 2003 C'è almeno un saggio, tra quelli raccolti, ordinati e minutamente ribattuti da Mario Lavagetto in questo volume, che avrebbe potuto firmare il suo maestro Giacomo Debenedetti. Il saggio, Proust e Freud nel 1923, che non teme di far incontrare fin dal titolo i numi tutelari del nostro saggista principe, racconta un caso straordinario, tale sia nel senso del genere letterario ai casi straordinari addetto e più volte evocato nel corso del libro, sia perché un punto fermo della teoria che Lavagetto, mentre la delinea, evita elegantemente di professare, è proprio la negazione di "ogni possibile predittività" da parte della critica. Ed è una predizione critica in piena regola quella di Jacques Rivière, che, dieci anni prima del '23, ha quasi divinato l'apparizione della Recherche, salvo poi procrastinare romanzescamente la rivendicazione della sua scoperta a quando la psicoanalisi non gli ha consentito di esorcizzare il fantasma corrispondente. Il nostro Giacomino si sarebbe deliziato a restituire rilievo e prestigio al direttore della "Nouvelle Revue Frangaise", intrecciando e giocando al tavolo delle coincidenze lacerti epistolari e passaggi penetranti di un'argomentazione tanto datata da cogliere in flagrante la rivoluzione artistica novecentesca e da arrivare in anticipo all'appuntamento con Proust: una montagna ancora invisibile, e anzi "un mucchio di frantumi (...) che sono i materiali di un'ampia e magnifica costruzione", oltre l'orizzonte simbolista. Ci voleva talento per intuire quale scenario stesse per spalancare il soffio potente che, in quello stesso 1913 di Du coté de chez Swann, spingeva al largo Les Demoiselles d'Avignon di Picasso e Le Sacre du printemps di Stravinskij. E ce ne voluto altrettanto per capire come solo nel '23, potendo finalmente adoperare Freud e Proust quasi l'uno contro l'altro, Rivière escogitasse lo stratagemma per convivere con la rivelazione schiacciante della propria inferiorità, che non commisurava forse sul terreno delle ambizioni creative, ma sperimentava come un limite costituzionale della critica, incapace di prescindere dall'orizzonte della finzione e dal linguaggio del romanzo e, a pena di perdere un'autorità ermeneutica fondata su finzioni e romanzi, negata a una conoscenza non meramente postuma e giustificativa, cioè proprio alla predizione. Ci piacerebbe accettare la sfida di Lavagetto e sfoderare la botta segreta del moraviano Uomo che guarda, per ipotizzare che forse, in quegli stessi anni, sulle monumentali rovine proustiane, gettava la propria ombra un altro immane disastro che occupava tutto il campo visivo di Rivière. Lavagetto non è però Debenedetti e, persino in una raccolta di saggi, è ispirato da un'ansia di organicità e coerenza irriducibile alle singole occasioni. Perciò i nuclei tematici di Lavorare con piccoli indizi rivisitano senza indulgenze autocelebrative i grandi libri del critico e riconducono quasi a un'unità superiore i suoi studi su Freud, sul melodramma, su Svevo, su Balzac, sulla menzogna letteraria e appunto su Debenedetti. L'unità è ovviamente quella annunciata dal titolo. Si farebbe torto alla pienezza del controllo esercitato da Lavagetto sulle moderne teorie della letteratura, se la predizione interdetta fosse intesa come una scolastica applicazione del paradigma popperiano o dei suoi antefatti ottocenteschi e riguardasse la critica in quanto discorso non falsificabile. Il "metodo regressivo", o ragionamento "a ritroso", che per l'autore, sulla scorta di Kant e Freud, oltre che secondo il modello di Sherlock Holmes, sarebbe specifico della critica, corrisponde a una "profezia retrospettiva", ma non si oppone specularmente, come verrebbe da dire, alla previsione. Negandola, la indirizza invece diversamente, trovando più conveniente dare ascolto in questo caso a Poe e adottare il punto di vista integralmente razionale della congettura, anziché quello fattuale della spiegazione. All'incrocio tra i due si colloca l'esperimento compiuto dallo stesso Poe, quando tentò di fornire in anticipo la conclusione di un romanzo a enigma che Charles Dickens stava pubblicando a puntate. Se dunque l'interdizione non riguarda le previsioni, basta dare ascolto a Lavagetto e constatare, anche senza scomodare Saint-Simon, che essa non vige nell'"universo della fiction", per comprendere che il problema agitato non è la falsificabilità delle ipotesi critiche, ma una pretesa di valere fuori della finzione che non fa altro che estendere la paradossale sproporzione tra gli indizi e la loro efficacia o, più radicalmente, la sproporzione e l'incongruenza delle parole rispetto a ciò che designano. Prima di essere l'ideale prolungamento dell'attività congetturale di quell'" instancabile risolutore di enigmi" che è il lettore di romanzi, i "piccoli indizi" fondano addirittura la comunicazione linguistica. Lo straordinario caso della predizione letteraria non è isolato dentro al libro, di cui diviene anzi un obiettivo costante, assegnando alla critica una missione nel momento stesso in cui le impone un limite. È in questo spirito che Lavagetto si domanda tra l'altro perché Verdi non abbia scritto il Lear annunciato e Debenedetti preferisse pubblicare solo parzialmente la monografia che mancava al suo curriculum accademico, allo stesso modo in cui ha indagato sulla profezia reticente di Rivière, come lui sapendo e tuttavia non rifiutandosi di "convertire il discorso sulla letteratura nel più generico e improbabile dei discorsi sul mondo". ■ M. Merola insegna letteratura italiana moderna e contemporanea all'Università della Calabria