Stati fondati sulla ragione di Giuliana Turroni Abdou Filali-Ansary ISLAM E LAICITÀ Il punto di vista dei musulmani progressisti ed. orig. 1996, 1999, a cura di Lorenzo Declich, trad. dal francese di Alessandra Puglisi, pp. 127, € 12, Cooper & Castelvecchi, Roma 2003 Da circa due secoli i musulmani si confrontano sulla questione del rapporto tra l'islam e la modernità; sul tema gli studiosi hanno fornito un'ampia gamma di soluzioni, le quali dipendono essenzialmente dal modo in cui ciascuno di essi concepisce la religione. Uno dei problemi sollevati dalla discussione sulla, modernità è quello relativo alla laicità, che può essere formulato con la domanda - corrispondente al titolo originale del volume -"l'islam è ostile alla laicità?". Pubblicato per la prima volta in Marocco dalla prestigiosa casa editrice di Casablanca Le Fennec, L'islam est-il hostile à la laicité? ha il merito di dare rilevanza a un tema che nel pensiero islamico è poco trattato, almeno in maniera esplicita. La scarsa fortuna del concetto di laicità - lascia intendere Filali-Ansary - dipende in parte da una certa diffidenza degli studiosi musulmani, causata dal fraintendimento del suo significato. È indicativo che nel XIX secolo l'aggettivo "laico", nel senso di "secolare", venisse tradotto in arabo ladini, composto dalla negazione là e da din, che significa "religione". La laicità veniva dunque vista come un sistema che si contrapponeva alla religione per negarla; oggi invece il termine arabo impiegato può essere accostato a quello di "secolarismo": 'almànìyya o 'ilmdniyya, in riferimento al "mondo sensibile" Càlam). Tuttavia anche oggi alcuni autori pronunciano un giudizio negativo sulla laicità proprio perché, secondo Filali-Ansary, la intendono in senso restrittivo. L'idea di Filali-Ansary è che, a partire dagli anni venti del Novecento, si stia sviluppando una "nuova coscienza islamica" fondata sullo studio della dottrina e della storia religiosa attraverso gli strumenti delle moderne discipline scientifiche. Indipendentemente dai contenuti specifici, le singole teorie che si avvalgono di questo metodo portano all'affermazione del "carattere individuale e libero della fede (...) fondata sulla coscienza della trascendenza di Dio e della responsabilità dell'uomo". Tale coscienza si esprimerebbe nella figura del musulmano "culturale", che viene contrapposto al musulmano "integralista"; mentre il secondo aspira alla realizzazione di un sistema giusto e virtuoso fondato su una "ideologizzazio-ne della religione", il primo "mantiene un attaccamento ai valori spirituali (...) senza aderire ai dogmi né orientare la propria vita individuale in funzione degli ideali e delle prescrizioni dell'islam". Entrambe le figure vengono contrapposte all'islam "tradizionale", rappresentato dalla élite di esperti in scienze religiose ('ulama' e fu-qahd'), la quale, strettamente legata al potere politico, rappresenta il volto conservatore dell'islam e si oppone in generale alle istanze riformatrici provenienti dalla società. L'interrogativo che si pone il libro è se l'islam possa "essere vissuto e praticato come una religione del foro interno, che fornisce ideali agli individui e ai gruppi senza costringerli ad applicare regole precise". La risposta è affermativa se si distingue il contenuto del messaggio religioso dall'evoluzione storica dell'islam, diventato, attraverso un'attività esegetica durata secoli, un sistema complesso che ha investito la politica e il diritto positivo. Per Filali-Ansary vi è un'opera del pensiero islamico che ha determinato la svolta teorica in favore della separazione della religione dalla politica: L'islam e i fondamenti del potere, scritta dai teologo egiziano 'Ali 'Abd al-Ràziq nel 1925, un anno dopo l'abolizione del califfato da parte di Atatiirk. 'Abd al-Ràziq sostiene che i testi sacri non forniscono indicazioni circa alcun sistema politico, né esprimono l'auspicio per l'instaurazione di un sistema politico "islamico"; l'ordine politico viene dato solo dopo la morte del profeta Muhammad, quindi al di fuori della Rivelazione. Attraverso una rilettura storica dei primi tempi dell'islam, lo studioso egiziano dimostra così che l'istituzione islamica per eccellenza, il califfato, non ha alcun fondamento teologico e che la missione del Profeta non fu politica ma soltanto religiosa: Muhammad insomma non era un re, ma soltanto un profeta. La conclusione di 'Abd al-Ràziq è che "nessun principio religioso vieta ai musulmani di edificare uno Stato moderno fondato sulla ragione". Ppssiamo considerare l'opera di 'Abd al-Ràziq come il filo rosso che percorre l'attività intellettuale di Filali-Ansary: dalla sua traduzione in francese de L'islam et les fondements du pouvoir (La Découverte - Cedej, Paris-Le Caire 1994) al presente volume, fino al recente Réfor-mer l'islam? Une introduction aux débats contemporains (La Découverte, 2003), opera quest'ultima che, colmando un vuoto, tratta in maniera analitica il tema della riforma dell'islam in senso laico fornendo un quadro completo e dettagliato della riflessione contemporanea sull'argomento. g g-turroni@libero.it G. Turroni è dottore in storia del pensiero politico all'Università di Torino Essi sono un popolo Rashid Khalidi IDENTITÀ PALESTINESE La costruzione di una moderna coscienza nazionale ed orig. 1997, trad. dall'inglese di Aldo Serafini, pp. 355, €32, Bollati Boringhieri, Torino 2003 t1 15 giugno 1969 il primo ^ministro israeliano Golda Meir dichiarava al "Sunday Times": "Non c'è un popolo palestinese (...) Non è come se noi fossimo venuti a metterli alla porta e prendere il loro paese. Essi non esistono". Khalidi si propone di studiare l'identità palestinese non come un oggetto da definire una volta per tutte, ma nel suo aspetto dinamico e relazionale. Dal confronto con L'altro" - rappresentato non solo dal sionismo, ma ancor prima dall'impero ottomano e dall'Europa - e dall'individuazione di elementi storici salienti, emerge la complessità e la mutevolezza dell'identità palestinese, che si caratterizza per almeno tre aspetti: l'estrema frammentazione interna dovuta alle diverse appartenenze religiose, familiari, tribali e sociali, sovente in concorrenza tra loro; l'assenza di uno stato, che avreb- be potuto promuovere l'affermazione di criteri identitari uniformi attraverso la pubblica istruzione, i musei, l'archeologia, i mezzi di comunicazione; infine, la compresenza di diverse identità profondamente radicate, che mirano ad appropriarsi degli stessi luoghi, ignorandosi reciprocamente. Su quest'ultimo punto, un esempio estremo è il mito che nega l'esistenza del popolo palestinese, espresso con il famoso slogan sionista: "Una terra senza popolo per un popolo senza terra". Un altro esempio è dato dalla toponomastica: la scelta del nome per un- luogo non è neutra, in quanto implica l'intenzione di appropriarsene, come nel caso della Cisgiordania, designata nei documenti ufficiali israeliani - in lingua ebraica, inglese e araba -Giudea e Samaria. Allo stesso modo, per la storiografia molto dipende dal punto di vista di chi narra i fatti. Secondo Khalidi sono poche le opere di valore scientifico scritte dai palestinesi sulla loro storia, mentre prevalgono quelle prodotte da studiosi occidentali e israeliani. Di qui emerge il problema relativo alle fonti: nella maggior parte dei casi sono state trascurate quelle scritte, arabe e turco-ottomane, ma soprattutto quelle orali. Invece la difficoltà per gli studiosi palestinesi è che negli ultimi cin-quant'anni molte fonti sono state distrutte o sono andate perdute o ancora sono state rese inaccessibili da parte delle autorità israeliane, mentre la diaspora palestinese, le espropriazioni e le deportazioni hanno limitato di molto la possibilità di ricostruire la storia orale, fondamentale per la conoscenza della civiltà contadina. In questo modo si è affermata una storiografia incentrata sul ruolo svolto dalle élites colte urbane. A essa è dedicato un capitolo del volume, che fa emergere il ruolo fondamentale svolto dai contadini nella resistenza alla colonizzazione ebraica tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento. Le insurrezioni contadine avrebbero contribuito in maniera decisiva alla formazione del processo di identità nazionale e alla presa di coscienza da parte delle élites arabe e turche del problema della colonizzazione ebraica delle terre fertili della Palestina. ~|i possesso di un valido docu-Jmento d'identità, per noi scontato, è per i palestinesi fonte di grandi difficoltà. Il "trattamento speciale" a cui sono sottoposti tutti i palestinesi in corrispondenza di una linea di confine o di un posto di blocco - afferma l'autore nell'introduzione -, "la condizione postmoderna di ansietà generale, quasi unica nel suo genere, dimostra che essi sono un popolo, anche se nient'altro lo dimostrasse". Il libro potrebbe concludersi così ancora prima di iniziare; invece, unendo alla passione di chi è parte in causa l'acribia dello storico, Khalidi ci regala un potente affresco di una realtà tanto difficile quanto controversa. g (G.T.) Contro la retorica della guerra giusta di Maria Nadotti Svetlana Aleksievic RAGAZZI DI ZINCO ed. orig. 1989, trad. dal russo di Sergio Rapetti, pp. 316, € 16, e!o, Roma 2003 Continuo a ripetermelo: non scriverò più ina riga sulla guerra. Dopo il mio libro La guerra non ha un volto di donna per molto tempo non ho più potuto sopportare la vista di un bambino infortunato che perdeva sangue dal naso, in campagna mi tenevo "alla larga dai pescatori che gettavano allegramente sulla sabbia della riva i pesci strappati al loro elemento: quegli occhi sbarrati e gonfi mi facevano star male. Di fronte alla sofferenza ognuno di noi ha una certa riserva di difese fisiche e morali che lo proteggono. La mia era esaurita. (...) Ma all'improvviso... All'improvviso per modo di dire, visto che si era al settimo anno di guerra...". È il 1986, settimo anno della guerra "internazionalista" e "di liberazione" combattuta dall'Unione Sovietica in Afghanistan. Siamo a soli tre anni dalla caduta del muro di Berlino e a meno di sei dal dissolversi dell'impero sovietico, eppure l'armata rossa è ancora "impantanata" - sì, il pantano non cessa di esercitare la sua seduzione sugli eserciti imperiali - tra le montagne e i deserti di quel fortino naturale e culturale, che gli inglesi non erano riusciti a domare e che oggi resiste strenuamente al modello della democrazia da esportazione. In Unione Sovietica, in quegli anni, di quella guerra si preferisce non parlare. E una guerra geograficamente lontana, che Breznev e 0 comi- tato centrale del Pcus hanno presentato come necessaria. Per "difendere i confini meridionali dell'Urss," hanno detto, "contro la barbarie anticomunista, ma anche contro le mire espansionistiche degli Usa, pronti a invadere-l'Afghani-stan se i soldati sovietici non li avessero preceduti di qualche ora". L'opinione pubblica sovietica avrà bisogno di tempo per mettere a fuoco le dimensioni e l'insensatezza di questa guerra apparentemente vinta in partenza, a calcolarne i costi in vite umane e disincanto. Perché il paese prenda coscienza di ciò che è accaduto e continua a accadere laggiù, ai confini dell'Unione, ci vorranno appunto i "ragazzi di zinco", che danno titolo all'opera di Svetlana Aleksievic, le decine di migliaia di casse che riportano a casa i poveri e spesso anonimi resti di un esercito di adolescenti mal addestrati, mal equipaggiati, e intontiti di ideologia. Aleksievic, che a causa della sua opera precedente, La guerra non ha un volto di donna, è stata accusata "di pacifismo" e "di aver dipinto a tinte non sufficientemente eroiche la donna sovietica", registra il ripetersi delle dinamiche che sempre si accompagnano alle cosiddette guerre giuste: dinieghi, omissioni, alterazione della morale, compattamento omertoso attorno a un'unica narrazione vincente, sfasatura assoluta tra discorso pubblico e vissuto personale, tra ragione politica e esperienza individuale. Ciò che la spingerà - in qualche modo, nonostante lei - a scrivere ancora una volta di guerra sarà proprio la consapevolezza che L'impegno" militare sovietico in Afghanistan altro 4)1 01 «SÌ3S1