Politica Un libro disonesto di Pier Paolo Portinaro Cari Schmitt GLOSSARIO ed. orig. 1991, a cura di Petra Dal Santo, pp. 479, €41,32, Giuffrè, Milano 2001 Nell'introduzione alle le- zioni su Paolo, che pos- sono essere considerate il suo testamento spirituale, Jacob Taubes ha evocato gli "scon- volgenti" colloqui avuti con Cari Schmitt a Plettenberg nel 1979. Dei contenuti con- fidenziali di quelle conversazio- ni, considerati come "coperti dal segreto confessionale" (La teologia politica di San Paolo, Adelphi, 1997), Taubes però nulla ci ha rivelato. Il Glossa- rium, un diario redatto tra il 1947 e il 1951, pubblicato in Germania nel 1991 e ora propo- sto in traduzione italiana, lascia filtrare qualche spiraglio di luce su quegli arcana e al tempo stes- so finisce per rendere ancora pili enigmatica la figura del più grande giurista tedesco del XX secolo. Fin dalla prima annotazione del testo, datata 28 agosto 1947, Schmitt porta allo scoperto quello che possiamo considerare se non proprio il tema condutto- re quanto meno il rovello delle private meditazioni di un giuri- sta che per tre volte è stato alla mercé del Leviatano (dapprima come Benito Cereno in balia di una ciurma criminale, poi pri- gioniero dei russi e poi ancora degli americani) e che ora è con- dannato a tacere: rovello, la trahison des clercs, che è anche un motivo centrale dell'autoco- scienza del Novecento. Rispetto alla tesi proposta da Julien Ben- da nel suo libro famoso, Schmitt ci propone però un sostanziale capovolgimento. Non sono i chierici ad aver tradito, sono sta- ti i capi e le masse a tradirli, o meglio a tradire coloro che han- no cercato invano di collocarsi al di sopra delle parti della guer- ra civile ideologica. E il tradi- mento trova ora il suo compi- mento nel crimine massimo di Norimberga, nel processo ai vinti condotto con l'arroganza di chi si considera vincitore di una guerra giusta, "la cosa più terribile che la prepotenza uma- na abbia saputo creare". Per lui peggiori dei criminali sono i cri- minalizzatori. La politica, nella sua visione del mondo, pare es- sere un ambito sottratto a ogni moralizzazione e a ogni proce- dura giudiziaria. Se il riferimento a problema- tiche, autori e interlocutori sembra conferire al diario un'oggettività insolita per un siffatto genere letterario, il tema è in realtà, piuttosto ossessiva- mente, la vicenda dell'autore, una vicenda trasfigurata entro un contesto di storia universale che impedisce di accertare e perseguire responsabilità indi- viduali. A proprio discarico è invocata la grandezza e l'inelut- tabilità del destino, a carico al- trui la malvagità, il risentimento e la volontà persecutoria (di cui gli emigrati per effetto delle leg- gi razziali sono in queste pagine un'incarnazione quasi demonia- ca). Il tono è difensivo e apolo- getico, ma il contenu- to è innegabilmente filonazista e antise- mita. L'introduzione di Joseph Kaiser, nel maldestro tentativo di accostare questo diario a quel "libro onesto" che sono i Saggi di Montaigne, accresce nel lettore l'irritazione nei con- fronti di una strategia difensiva totalmente sorda alle ragioni della parteci- pazione morale alle sofferenze altrui (chi leggesse questo libro ignorando la storia tedesca non potrebbe nemmeno sospettare l'esistenza della Shoah). Non credo proprio si possa definire Glossarium un "li- bro onesto". L'autore, a un cer- to punto, si chiede se sia lecito a un cristiano tenere un diario e menziona le Confessioni, in cui Agostino "espone solo circo- stanze a suo carico". Schmitt però fa l'esatto contrario, e in queste pagine è animato soltan- to dalla volontà di scagionare se stesso. In Ex captivitate salus, l'operetta coeva a questo diario pubblicata nel 1950, dichiara la sua riluttanza a parlare di sé: "Un giurista che ha educato se stesso, e molti altri, all'oggetti- vità, evita gli egotismi psicologi- ci (... ) Chi vuol confessarsi, esca e vada dal parroco". Confessio- ni, in effetti, non se ne trovano nemmeno in queste pagine. Ma l'egotismo psicologico straripa ovunque, lasciando l'impressione che la tragedia del totalitari- smo coincida esclusi- vamente con la sua personale sventura. Il vero crimine compiu- to dal nazionalsociali- smo non è stato lo sterminio degli ebrei ma "lo sterminio del- la burocrazia prussia- no-tedesca nel 1945", non il genocidio ma Yideocidium perpetrato nei suoi confronti. Eppure il suo unico errore è stato di sottovalutare la stupidità e volgarità degli uomi- ni, la sua compromissione mino- re di quella cui Platone s'era esposto con i tiranni di Siracusa. E poi, in definitiva: "Che cosa fu più indegno: appoggiare Hi- tler nel 1933 o sputare su di lui nel 1945?". Al dittatore, a sua volta, viene imputato soltanto un errore strategico, delle cui disastrose conseguenze è moral- mente corresponsabile, anzi pri- mario responsabile (Versailles), l'Occidente: "Un tedesco pazzo che, appoggiato dall'Occidente, era convinto di poter condurre non solo una guerra su due fronti, ma addirittura due diver- si tipi di guerra, una non discri- minante a Occidente e una di- scriminante a Oriente". E difficile immaginare un li- bro così poco cristiano e al tempo stesso così profonda- mente rappresentativo dell'an- tisemitismo cattolico (è ancora Taubes nel libro sopra citato a definire Schmitt un "autentico antisemita cattolico"). Ciò che nelle pubblicazioni del dopo- guerra non si poteva dire, filtra qui con naturale spudoratezza. Gli ebrei sono i veri vincitori della seconda guerra mondiale e i protagonisti di quel proces- so di discriminazioni e crimi- nalizzazioni in cui viene travol- to l'ordinamento giuridico del- lo spazio europeo. Gli ebrei "restano sempre Ebrei, mentre il comunista può migliorare e trasformarsi". E ancora: "Pro- prio l'Ebreo assimilato è il vero nemico". Il tenore emotivo del diario oscilla tra l'autocommi- serazione più spudorata di chi si descrive come perseguitato dagli "assassini di Cristo" e la iattanza intellettuale di chi sen- tenzia: "Non offrire mai ai tuoi nemici la possibilità di com- prenderti. Finché commettono ingiustizie nei tuoi confronti non ti hanno compreso. Di questa grande soddisfazione colui che è ingiustamente per- seguitato può nutrirsi abbon- dantemente". La tendenziosità cattolica emerge anche nei confronti del protestantesimo, a cui sono imputate in blocco le degenerazioni politiche della modernità. La logica del prote- stantesimo è infatti condensata nella formula "carisma contro istituzione", e questo, nella sbrigativa filosofia della storia di chi abusa delle genealogie intellettuali pur deprecandone l'uso presso i suoi avversari, "porta al capo assoluto". Di fatto il libro è un magaz- zino di munizioni per una storiografia revisionistica (ed è noto che il suo capofila, Ernst Nolte, ha largamente attinto al repertorio ideologico schmit- tiano, arricchendolo qua e là, in modo capzioso, di qualche insi- stito tocco arendtiano). Schmit- tiana, intanto, è l'idea della guerra civile, europea prima, mondiale poi. Il genocidio, mai esplicitamente tematizzato, ap- pare nella ricostruzione storica del Glossarium soltanto un anello, e nemmeno il più im- portante, in una catena di in- giustizie che culmina nell'umi- liazione del popolo tedesco e nella messa al bando dell'ulti- mo autentico erede della scien- za giuridica europea. "La serie ininterrotta delle ingiustizie: l'in- giustizia di Versailles cresce fino all'ingiustizia di Hider, e questa fino a quella di Jalta, Mosca e Norimberga". Norimberga è dunque per lui il vero crimine inespiabile della storia del Nove- cento, perché attraverso la sua giustizia politica si attua la per- versione del diritto in "mero bottino del vincitore". A sorreg- gere l'intera ricostruzione sta poi 3 rifiuto della modernità e della sua "triste menzogna", la pretesa di discriminare moralmente de- stra e sinistra. Ciò detto, come spesso accade per i grandi libri, la disonestà non esclude l'intelligenza. E questo è un libro assai penetran- te. E lo è non solo per la virtuo- sistica bravura con cui l'autore spazia da Goethe a Konrad Weiss, dal Biedermeier all'ope- retta, da Hegel a Donoso Cortés, proponendo le più audaci ge- nealogie intellettuali ed esiben- dosi in un dialogo diretto con gli autori a lui esistenzialmente più vicini, sebbene in fondo non amati, Heidegger e Jùnger, ma per la capacità di cogliere, nono- stante la sua tendenziosità di giudizio, i tratti inquietanti del proprio tempo. Schmitt va al cuore di problemi che sono an- cora i nostri: il venir meno di una chiara linea divisoria tra guerra e pace, il carattere discri- minatorio della costruzione giu- ridica della guerra giusta, che non riesce a liberarsi dal ricor- rente sospetto dell'ideologia, il deficit di legittimità e di efficacia della giurisdizione internaziona- le, che finisce invariabilmente per apparire giustizia dei vinci- tori e dunque fonte di nuovi conflitti. "Se il nemico diventa giudice, il giudice diventa nemi- co". Con la messa al bando della guerra, ammonisce Schmitt, l'o- stilità in realtà non scompare dal mondo, semplicemente la guerra tra stati sovrani torna a essere guerra coloniale e guerra civile. Che è, in buona sostanza, quan- to sta in incubazione dietro le tante tensioni che oggi, discu- tendo Huntington, rubrichiamo sotto l'etichetta di "scontro di civiltà". ■ pipaportdcisi.unito.it Babele. Osservatorio sulla proliferazione semantica Cisi, s.f. Uno degli usi più antichi del gre- o Kpicnq (derivato dal verbo Kpivetv, "distinguere", "giudicare") è attestato nel Prognosticon di Ippocrate e in altri trattati medici. Indica il "punto di svolta", la tra- sformazione decisiva di una malattia, che ne orienta il corso alla guarigione o alla morte. Anche 0 termine moderno conserva numero- se applicazioni in ambito medico, indicando la caduta rapida della temperatura nelle ma- lattie febbrili acute, in contrapposizione a quella lenta e graduale ("lisi"), e, più in ge- nerale, denotando fenomeni di esacerbazio- ne o insorgenza improvvisa (crisi ipertensiva, anafilattica, cardiaca). Nel linguaggio cor- rente, invece, viene utilizzato per descrive- re uno stato di grave perturbazione transito- ria o di definitivo declino (crisi di un'epoca, di un modello sociale o culturale), ma anche un periodo di entusiasmo e di slancio, bru- sco e passeggero (crisi di fanatismo, di scio- vinismo, di misticismo). Le crisi, poi, posso- no essere morali (crisi spirituale o di co- scienza), politiche (crisi di potere, di gover- no, di gabinetto, dinastica), economiche (nel senso di depressione o stagnazione), sportive (crisi di risultati) e persino astrologiche (par- ticolari congiunzioni dei pianeti che determi- nerebbero un punto "critico" nel corso degli eventi). La grande diffusione del termine risale so- prattutto al Settecento. Thomas Paine, nella sua American Crisis del 1776, scrisse: "Que- sti sono i tempi che mettono alla prova le ani- me degli uomini". Si riferiva, naturalmente, ai tempi delle "rivoluzioni", percepite come cambiamenti sconvolgenti, e dunque come "crisi". Era "critica", invece, secondo Claude Henry de Saint Simon, l'intera epoca moder- na, nel senso che aveva superato l'epoca or- ganica del medioevo, ma non aveva ancora raggiunto una nuova organizzazione, affidata alla scienza. Dopo l'età delle grandi rivolu- zioni, inoltre, la nozione di "crisi" era entra- ta anche nell'arsenale concettuale dell'analisi economica, e in particolare nello studio del business cycle, indicando una fase transitoria in seguito alla quale si ristabilisce lo "stato di salute". Un'eccezione, in questo contesto, fu introdotta dal socialismo marxista, secondo il quale le crisi capitalistiche sarebbero irre- versibilmente diventate sempre più disastro- se, fino al collasso conclusivo. Chi tentò, da storico, di elaborare una "teoria delle crisi", fu Jakob Burckhardt, il quale dedicò al tema un capitolo delle sue Weltgeschichtliche Betracbtungen, pubblicate postume nel 1905. Le crisi, a suo parere, era- no accelerazioni del processo storico. L'irru- zione di tribù germaniche nell'impero roma- no, l'ascesa dell'islam, la conquista ottomana dell'impero bizantino: movimenti come que- sti, secondo Burckhardt, erano stati capaci di suscitare passioni, di destare energie inso- spettabili nei singoli e nelle masse, e di pro- vocare scontri tra forze vecchie e nuove, da cui scaturivano "rinnovamento" o "barba- rie". Le crisi, in ultima analisi, potevano es- sere foriere di grandezza, oppure rappresen- tare 0 "vigore euforico della morte". José Or- tega y Gasset, invece, nel 1933, osservò come il concetto di crisi denotasse la perdita di una precedente "uniformità", e di un sistema di convinzioni, nell'attesa di un mondo nuovo. Ma proprio l'organicità scevra di incertezza e lotta, l'ideale a cui la nozione di "crisi" allu- de in antitesi, rappresenta, secondo il Dizio- nario di filosofia di Nicola Abbagnano, sol- tanto "un mito consolatorio, in cui amano evadere generazioni che hanno smarrito il senso della sicurezza". Giovanni Borgognone s5?' 11IS1RÉ1 Cari .SU»«> Glossario