Un romanzo solido e trascinante "Sarà stata la salsedine" di Giuseppe Traina Andrea Carrara NON C'È PIÙ TEMPO pp. 225, €13, Rizzoli, Milano 2002 abbastanza normale che su uno scrittore noto, anche se non si è mai letto un suo libro, si abbia un giudizio preventivo, cioè - alla lettera -un pregiudizio: fondato o infondato, spesso però insormontabile. Il mio pregiudizio su Andrea Carrara, fondato o infondato che fosse, era sufficiente a tenermi lontano dai suoi libri: uno scrittore teso soprattutto a riprodurre la realtà attuale del sottoproletariato romano, senza particolari preoccupazioni stilistiche (se non quelle della resa gergale); un epigono un po' scolastico di Pasolini, insomma, capace di riciclarsi, tutt'al più, in epigono di Moravia se il suo punto di osservazione si spostava sulla piccola o media borghesia. Quasi per caso e molto svogliatamente ho cominciato a leggere il suo ultimo romanzo, Non c'è più tempo. Ma, letteralmente soggiogato dal fluire della narrazione, non l'ho lasciato più fino alla conclu- sione. Quando poi ho provato a riconsiderare con distacco ciò che avevo appena finito di leggere, mi sono reso conto che in buona parte i pregiudizi erano fondati. Ma ciò non bastava. E vero, Carrara adopera una comodissima narrazione in prima persona per raccontarci la parabola discendente di uno scrittore quarantenne che passa dallo strazio per la morte del padre alla mancata elaborazione del lutto - nonostante la psicoterapia intrapresa (e poi abbandonata) —, alla depressione, alla scoperta che la moglie lo tradisce, alla separazione dalla moglie (e dal figlioletto), al licenziamento, a un'esistenza abbrutita da single e poi, addirittura, alla vita da clochard. Nulla di innovativo da segnalare, né nella struttura né nella scrittura: quest'ultima, anzi, raramente si solleva al di sopra di una fedele riproduzione del parlato quotidiano contemporaneo, fra l'appiattimento di origine televisiva e il propellente del turpiloquio. Sul piano sintattico è raro che si vada oltre la paratassi (ad apertura di libro: "Mi Amimi Curram N. 1 Narratori italiani sveglio alle sette e dieci come al solito. Bevo il caffè, mi lavo, mi vesto. Prendo il motorino e mi apposto al di là della strada della mia vecchia casa, dietro il chioschetto dell'edicola. Aspetto mezz'ora e li vedo uscire con la macchina. Faccio tutto come sempre, ma oggi lo faccio macchinalmente, quasi per abitudine") e spesso la resa mimetica del parlato risolve alla svelta ogni problema. L'introspezione psicologica dell'intellettuale medioborghese (uno scrittore di qualche successo che non ha il coraggio di abbandonare il lavoro in banca: solo la depressione lo porterà a farsi licenziare...) dovrebbe dominare il romanzo, ma invece, come accadeva nel Moravia più stereotipato, finisce per essere tutta risolta nella fissazione monomaniaca (la gelosia), nei gesti, nello scontro con situazioni esterne a sé e schematicamente emblematiche dello Zeit-geist, naturalmente aggiornate rispetto al modello ma ben poco dissimili nella sostanza: periferie alienanti, zingari, emarginati di vario tipo. Eppure, ho letto il romanzo tutto d'un fiato. Mi sforzo di essere obiettivo, ed ecco due spiegazioni. La prima, intrinseca, è la solida capacità di tenuta narrativa del romanzo: Carrara sa raccontare, non c'è dubbio; non lo fa in punta di La borsa della professoressa di Francesco Roat Elisabetta Rasy TRA NOI DUE pp. 194, € 15, Rizzoli, Milano 2002 Un frammento mnemonico a tutta prima privo di rilevanza può innescare la reazione a catena dei ricordi, forzando la memoria a compiere collegamenti eccentrici; come accade alla protagonista di Tra noi due, che, ricordando la morte della nonna, collega il triste evento con l'acquisto di una borsa simile a quella di un'insegnante di francese: la professoressa Starita, l'incontro con la quale segnerà per la narratrice il distacco dall'età infantile e l'ingresso in una nuova e magmatica fase esistenziale alla scoperta di sé e della realtà circostante. Ossia del piccolo mondo che spazia fra la propria casa e il ginnasio, all'interno di una Roma anch'essa in crescita febbrile nell'arco tra gli anni sessanta e settanta. Ed è una narrazione tutta visiva quella che ci propone Elisabetta Rasy, attraverso una lettura dello spazio basata sulla percezione delle sfumature cromatiche, attraverso la straordinaria sensibilità di un occhio attento a cogliere luci e ombre di una Roma "cupa e affollata". Una città per le cui vie e piazze, costrette a una metamorfosi imposta dal proliferare caotico di sempre nuove costruzioni, vaga la protagonista. Chiave di lettura del romanzo è dunque la vista: il punto prospettico che dà corpo o rende piatte situazioni e persone, colte con uno sguardo attento e nitidissimo, da anatomista dell'ani- ma, ma pietoso. Così, per speculare simmetria, solo al buio trova luogo la riflessione meditativa su se stessa e sul rapporto confidenziale (ma fatto appena di sguardi empatici) con Emilia Starita. Tutto si gioca su un perenne alternarsi di vicinanza/lontananza affettiva, riservatezza estrema e voglia d'aprirsi, desiderio di essere fatti oggetto di amore e paura di esporsi all'altro. Non a caso la relazione fra la adolescente e il compagno di studi Marco, nipote di Emilia, oscilla ambiguamente fra amicizia ed erotismo; come il legame intellettuale ma pure affettivo che la ragazza stabilisce col paterno professor Camerini, le cui lezioni di filosofia non riescono a dar conto del "dolore" di vivere. Difficile è dunque da parte della narratrice comprendere cosa davvero intercorra "tra noi due" in ogni ambito relazionale. La questione cruciale all'interno di ogni dialogo del romanzo è quindi sempre un problema di distanza, di iato e di come attraversarlo. Distanza che la protagonista non già esorcizza ma cerca di abolire tramite la memoria. Ma non si pensi a un romanzo luttuoso o a una prosa melanconica. La morte è ben presente nel crepuscolo adolescenziale che lei sta per lasciarsi affé spalle, ma non raggela i ricordi né impietrisce gli affetti, in quanto, sostiene la protagonista, "la nostalgia è inutile, tutto resta". Non è dunque l'ottica del rimpianto che domina questo romanzo di formazione, piuttosto si tratta di una riflessione nel segno del più pacato disincanto sull'ombra che ogni congedo fatalmente proietta sul futuro di ogni incontro. penna, certo, spesso sceglie le soluzioni strutturali più facili, ma conosce a menadito le regole del gioco e gioca assai bene le sue carte. a seconda spiegazione è 1.-.estrinseca: riguarda solo me e non metterebbe conto parlarne se la cosa non finisse per ricadere, positivamente, fra gli atouts dell'autore. Nella lettura del prologo del romanzo mi ha rapito il modo, crudo e veritiero ma anche commosso e commovente, con cui Carrara ha saputo rappresentare un'esperienza (la malattia e la morte del padre) da me vissuta secondo modalità abbastanza simili. Ma non si tratta di una banale identificazione contenutistica: e la riprova l'ho avuta leggendo, poco dopo, un racconto lungo di Sebastiano Mondadori (Sarai così bellissima, pp. 83, € 9, Marsilio, Venezia 2002) che narra un'altra esperienza da me recentemente condivisa con l'autore, cioè la felicità derivante dalla nascita di una figlia. Però il giovane Mondadori non riesce mai a rendere la complessità di tale esperienza, risolvendo tutto in una sequela di gridolini di gioia e filosofeggiamenti a futura memoria, esprimendosi in stile pretenzioso ma banale, qua e là anche linguisticamente scorretto. Carrara, invece, in nemmeno venti pagine di prologo, ha detto tutto quel che c'era da dire sullo strazio di una malattia e di una morte, sulla dignità offesa di chi soffre e muore, sulla rabbia impotente di chi sopravvive, sull'altruismo di chi assiste. Con un senso della misura che è appannaggio solo dello scrittore maturo e con una pietas autentica che in buona parte si può ritrovare nel resto del romanzo (e mi piacerebbe sapere che tipo di proiezioni e identificazioni può aver suscitato in un lettore che abbia sofferto di depressione) anche se forse con una punta di studiato compiacimento in più, senza ritrovare la mirabile sobrietà del prologo se non, guarda caso, nelle tre paginette scarse dell'epilogo, che segna per il protagonista un ritorno problematico ma possibile alla normalità: "Credo di non aver mai pianto facendo il bagno in tutta la mia vita. Piango perché ho l'età di mio padre. Perché lui non c'è più e sfido il mare da solo. Perché mio figlio un giorno mi vedrà morire. Però basta immergere la testa e le lacrime spariscono. Fra poco uscirò e nessuno si accorgerà di niente. Sarà stata la salsedine ad arrossarmi gli occhi. Il mare non tradisce, lava via tutto". Come nel bellissimo finale aperto della Stanza del figlio di Moretti, sia pure a ruoli invertiti, a questo punto forse il lutto è stato finalmente elaborato, e con esso i risvolti più inquietanti di un rapporto col padre che era stato difficile fin dall'infanzia: ci dovrebbero, insomma, essere le condizioni per essere finalmente adulti e diversamente padri. gtraina@unict.it Il pudore spudorato di Silvio Perrella Perché capita che apri un libro e non lo lasci più finché non l'hai finito, e solo quando alzi gli occhi dalle pagine ti accorgi che l'intera notte è passata e la prima luce del giorno filtra tra una stecca e l'altra dell'avvolgibile mal chiuso? Non lo sai di preciso. Giacomo Debenedetti avrebbe detto: perché ti riguarda. Anche tu hai perso il padre come è successo al protagonista di Non c'è più tempo-, se n'è andato via con la stessa straziante malattia. Eppure, ti cominci ad appassionare davvero a questo libro quando Andrea Carrara, il suo autore, si mette a inventare. C'è un punto preciso in cui il libro ti è sembrato prendere il volo e tu non hai potuto che corrergli dietro. Quando? Quando Paolo, protagonista e voce narrante, decide di non andare più dallo psicoanalista. E cosa fa per far fronte alla sua terribile malinconia che lo costringe all'inedia? Ci si abbandona con tutto il corpo, e soprattutto si tira via dalla vita, la osserva da fuori, riesce perfino a fotografare la moglie e l'amante che scopano in macchina. Lo fa con tale rigore e consequenzialità che finisci per seguire lui mentre a sua volta segue qualcun altro. Paolo, dopo essere diventato un barbone e aver chiesto l'elemosina, a casa ci torna, ma non per riconciliarsi con la moglie (nei libri di Carrara non c'è redenzione), piuttosto perché ha un figlio. Ecco, sono proprio i dialoghi con il figlio le cose più belle e commoventi di questo libro così forte. Non ci sono sbavature sentimentali - eppure sono in gioco i sentimenti primari -, mai una parola di troppo, semmai una di meno. La disadorna magrezza della scrittura, il ritmo da cronaca antica, il pudore spudorato di non celare nulla del proprio dolore agli occhi altrui, fanno del libro di Andrea Carrara un'opera importante, la più riuscita tra quelle da lui scritte. E fanno venire in mente un libro che si è conquistato i favori di un vasto pubblico con le sole forze della sua inequivocabile qualità letteraria e umana: I giorni dell'abbandono di Elena Ferrante (e/o, 2002; cfr. "L'Indice", 2002, n. 3). Lì era una donna a essere abbandonata, qui, invece, è un uomo, anche se in questo caso è difficile trovare il confine tra l'essere abbandonati e l'abbandonarsi da soli. Sia il libro di Carraro sia il libro della Ferrante dicono qualcosa che è, sì, nelle loro parole, ma che va anche molto oltre. Ecco perché, quando spegni la luce e ti rigiri nel letto, non sai dire perché ti siano piaciuti e ti abbiano avvinto. Sai solo che domani dirai ad altri che la scorsa notte hai letto Non c'è più tempo, sicuro che chi lo leggerà non rimarrà indifferente. Sarà una lettera, sarà una telefonata o una e-mail, ma presto potrai parlarne con altri. E questo ti piace.