Narratori italiani L'inquilino del vento di Massimo Arcangeli Marco Lodoli PROFESSORI E ALTRI PROFESSORI pp. 130, € 14, Einaudi, Torino 2003 Parole scomposte, malate, strozzate in questi nove e un po' deludenti racconti di Marco Lodoli. Qua e là disposte, faticosamente, a risillabare le certezze perdute eppure sempre pronte a riammalarsi, a scomporsi di nuovo. Per collassare in molti casi in quel concentrato di sottrazioni, sul piano dei contenuti come su quello dello stile, che colpisce statutariamente la poesia. Il professore di storia dell'arte. Claudio, trentasettenne. Le parole gli sono sempre servite per stare al riparo dal mondo. Paro-le leggere. Claudio vive infatti la leggerezza di una vita in equilibrio a cui non chiede niente per impedirsi, e impedire agli altri, di soffrire. Su di lui, complice un'allieva, Michela, si abbatte violenta la pesantezza dell'agitato mare notturno che rischia di farlo annegare ma che, in realtà, lo inizia a una vita nuova, nella J^ Hi «Tanna e logge nel Trecento inglese t imi • t (>*.»! t i tìu;!t-ih! EMILIA DI ROCCO LETTERATURA E LEGGE NEL TRECENTO INGLESE Chaucer, Gower e Langland Collana: Dipartimento di Anglistica / 68 Pagine 318 €25,00 ISBN 88-8319-892-8 BULZONI EDITORE Il legame tra legge e letteratura risale alla cultura greca ed è continuato fino ai nostri giorni grazie alle somiglianze che esistono tra due discipline in apparenza così diverse. Le forme narrative applicate nei documenti giudiziari e nelle opere letterarie sono simili. L'attrazione che la letteratura dimostra per la legge è basata in primo luogo sul riconoscimento da parte dell'artista del fatto che uomo di legge e letterato, entrambi abili comunicatori, utilizzano mezzi comuni come la struttura narrativa e linguistica. L'evoluzione delle due discipline in epoca medievale corre parallela: legge e letteratura sono unite innanzitutto dall'oralità e da un forte legame con la tradizione latina. Tra di esse esistono punti di contatto a livello stilistico e tematico: nelle opere letterarie frequente è la presenza di scene di processi così come di giuramenti, reati e duelli, come rivela l'analisi delle opere di Geoffrey Chaucer, John Gower e William Langland. Il presente studio è rivolto ad esaminare il modo in cui la legge, soprattutto il diritto canonico, compare nella letteratura del Trecento inglese, prestando particolare attenzione alla presenza delle leggi e motivi legali nelle opere dei maggiori autori del Medioevo inglese. quale poter finalmente "cominciare ad amare". "Seguimi. Non avere sempre paura", gli aveva detto Michela, parlando però anche a se stessa, anima di adolescente insicura in maschera da seduttrice. E Claudio l'aveva seguita. I due, ora, "non hanno più paura". Possono separarsi, ora. Mentre "un vento di mare li spinge e li accarezza, umido come un fiato". Un vento che porta con sé l'eco delle parole pesanti dal mare pronunciate. Catarifrangente. Un istruttore di scuola guida, Sisto, e la sua istruenda trentacinquenne, Milena, "bella come una principessa indiana" ma ormai a corto di amanti. Lui ha sentito tante storie infelici, come "un prete in un confessionale a quattro ruote", senza però essere mai riuscito a pronunciare una sola parola di rassicurazione o di conforto. Lei, che vuole "imparare a correre da sola", di parole ne ha pronunciate invece in eccesso perché le era sempre sembrato terribile tacere. Anche per loro, alla fine, c'è un mare e un vento. Il mare di Ostia, che appare "rosso e azzurro al sole del tramonto"; il vento che entra nell'auto quando vengono aperti i finestrini: "Un'aria che sapeva d'estate e d'amore". Il mister. Un giovane e suo padre, volgare e autoritario, che vorrebbe per il figlio un destino da calciatore. Parole gridate: quelle del genitore all'indirizzo del ragazzo, perché mandi la palla in rete. Parole che non servono, che non sono mai servite: quelle del figlio, che per farlo tacere si limita ogni volta a segnare in quello spc.rt che ha sempre odiato. Finché all'ultimo minuto della finale dei mondiali decide di tirare il rigore decisivo "sopra la traversa, nel vento largo dell'idiozia". Un maestro. Insegnante di italiano e storia. Un giovane allievo infatuato di lui e come lui trasportato dal vento della passione per la cultura, per la poesia. "Sii te stesso e vai fino in fondo" gli aveva detto: parole preziose ma pesanti, "d'oro e di piombo". E tocca ora all'allievo di un tempo, in un'amarissima lettera, rinfacciargli con disprezzo la sua vita perduta nella disgrazia, trascorsa a inseguire romanzi che non gli è mai riuscito di scrivere. I professori. Sette. Avvinazzati, maleodoranti, balordi per caso (o pour cause?). Ispirati dalla luna che governa le loro notti insonni si interrogano in un giardinetto sui destini del mondo. Parlano parole sdrucciolose che suonano difficili per Zeffirino, ex portiere di condominio ammesso in quel surreale concilio nel ruolo di "muto rappresentante del mondo". Ascolta paziente, Zeffirino, quei "sette poveri disgraziati che parlano strano", che parlano anche di lui, eletto ad agnello sacrificale per salvare 0 mondo. Non fugge, Zeffirino, non ha paura di morire per salvarlo quel mondo, che pure è pieno zeppo di cose che non comprende. Margherita. Forse, con il successivo, il racconto migliore. Brevissimo. Voleva soltanto l'amore, Margherita. Ma ora che ha trentatré anni i sogni sono svaniti. Le resta soltanto da sposare un uomo, "di quarant'anni almeno", che non le piace: un insegnante di scienze. Le sue sono le parole del silenzio di chi non ha più nulla da chiedere alla vita: "vorrebbe dire tante cose", Margherita, "ma sta zitta, perché lo sa, lo sa benissimo che quell'uomo sarà suo marito, e nel petto prova dolore e gioia, ma più dolore". Il rinoceronte. Roberta, cinquantenne. Brutta, grossa e sola. Materna e comprensiva, prima. Accecata dall'odio, dopo; verso l'allieva preferita, Caterina, che l'ha paragonata all'animale. La vendetta è affidata alle parole che esigono quella precisa risposta che non verrà mai: parole che si trasformano in altrettanti voti e nell'inappellabile condanna a ripetere. Caterina, a distanza di anni, la rincontra e le perdona; di più, le è grata. E a Roberta, ora raggiante, non importa di capire. Vorrebbe che fosse subito mattino, per tornare a scuola. Per cominciare a parlare parole nuove. Ghigo Alberighi. Federigo degli Alberighi. Giovanna è Giovanna e il falcone è un merlo indiano. "Giò ti ama, Giò ti ama", continua a ripetere il merlo istruito da Ghigo, che Giovanna un tempo ha abbandonato. La donna, un bel giorno, torna da Ghigo e questi, temendo che quella cantilena possa offenderla, libera l'uccello. Ma quel merlo lo pretendeva la figlia di lei, "capricciosa come la madre"... L'appuntamento. Il cerchio si chiude. Tra Leopardi e Beckett. Ma forse non è mai stato trac- ciato nessun cerchio. Forse l'autore ha costretto anche il lettore, come il protagonista di questo racconto, al movimento apparente. Basterebbe, forse, chiudere gli occhi per riassaporare, intatta, l'illusione del movimento che ci guida agli appuntamenti, continuamente disdetti, della nostra vita; che ci fa trovare sempre le parole giuste, quelle che gli altri si aspettano, quelle che non ci arrecano disagio e tantomeno ci tradiscono. Ma questa "è un'altra storia, un anno nuovo, un vento tutto nuovo". Il vento nuovo inseguito almeno a partire dal romanzo breve intitolato proprio II vento (Einaudi, 1996). Un vento che turbina, che consente ogni tanto di ripararsi dietro un muretto a secco per "riprendere fiato e illudersi che si possa abitare raggrumati là dietro, pensare solido". Un'illusione, però, che dura soltanto lo spazio di un attimo: Marco Lodoli, alla fine di quel romanzo, tornava "inquilino del vento che spinge nervoso le parole, gira le pagine e se ne infischia delle frasi perfette". Perché il vento sa perfettamente che le parole si ammalano: "le più deboli soccombono in un baleno, le più forti durano il tempo dell'orgoglio e della mortificazione"; perché il vento sa perfettamente che leggendo rigo dopo rigo, sequenza dopo sequenza, si tenta invano, nella finzione logica della lettura continua, di restituire il senso di una vita di cui non è possibile cambiare nulla-, perché il vento sa perfettamente che più delle regole grammaticali conta la loro violazione. E a sua volta l'autore sa perfettamente che sacrificando la scrittura alla finzione logica della stesura continua si impedisce alle cose, "che ne sanno tanto di più", di rotolare, di sporcarsi, di urtarsi tra loro, di accadere casualmente eppure precisamente. Anche all'autore, se è vero che scrive, semplicemente, "per non pensare al peggio", per dare una risposta alla morte a-scoltando il mondo, non importa di capire, non importa di sapere dove puntare la freccia che gli indica il futuro migliore. Anche l'autore "sente che tutto nel mondo accade senza un motivo, eppure precisamente, seguendo un ordine che muove le cose e le persone e le ignora". Seguendo un vento che non s'arresta mai, che non parla le parole dell'uomo ma che pure tenta in qualche modo di restituirle alla originaria solidarietà con il mondo. Perché le parole dell'uomo occultano la nostalgia che il mondo e il pensiero nutrono l'uno nei confronti dell'altro, la nostalgia del tempo mitico in cui "erano fusi in un solo calore". ■ maxarcangeli@tin.it M. Arcangeli insegna linguistica italiana all'Università di Cagliari "A me il passato non passa" di Giuseppe Traina Bruno Pischedda CARÙGA BLUES pp. 249, €16, Casagrande, Bellinzona 2003 Chissà come riesce Adriano a tenere tra quattro assi ben chiuse adolescenza e giovinezza, a smarrire il senso di chi una volta gli è stato vicino, lo ha visto uscire dall'uovo. E chissà se il suo comportamento è frutto di calcolo o se si tratta di una tara più grave, di una lesione per cui entra in campo la natura. Quel che posso dire è che a me il passato non passa, non transita. Tante puttanate e tante figuracce ho collezionato nel corso degli anni da rendere superfluo il conteggio; e nonostante questo, se anche non mi dà vera fama o pace interiore, quando penso a lui lo ritrovo seduto a ginocchia unite su un tronco della legnaia, nella vecchia corte di via Romano, mentre alimenta il fuoco per abbrustolire i marroni freschi di bo- » SCO . In questa lunga citazione il corsivo, come si suol dire, è del recensore, e vale a segna- lare quello che forse è il cardine della poetica che ha ispirato il secondo romanzo di Bruno Pischedda: o, meglio, il primo romanzo d'invenzione poiché il suo esordio narrativo - Com'è grande la città (Tropea, 1996; cfr. "L'Indice", 1996, n. 8) - s'era fatto apprezzare per l'originalità e la forza polemica con cui l'autore miscelava narrazione e saggismo, rievocazione memoriale e intervento libellistico, nulla concedendo alle ragioni degli "apocalittici" e degli "integrati" e anzi tentando un'originale difesa non acritica della modernizzazione italiana. Dell'impianto di quel notevole libro rimane in Carùga blues la cura della rievocazione memoriale e la polemica, più sotterranea ma non meno forte, contro gli antimodernisti: si legga a questo proposito la reazione dell'io narrante, Angelo Carugati detto appunto Carùga, e del suo amico Giuba all'annuncio della morte di Pasolini. Tutto il resto è novità, vale a dire un'altalena tra passato e presente che porta Carùga a rievocare l'intera giovinezza mentre aspetta in un ristorante Clara, la donna che più ha amato in vita sua e