J N. 10 Idei libri del mese| 40 o e o Mirella Saulini, IL teatro di un gesuita siciliano. Stefano Tuccio s.j., pp. 219, €18, Bulzoni, Roma 2002 Il teatro dei gesuiti costituisce un capitolo importante e ancora troppo poco acquisito nella storia dello spettacolo europeo di ancien régime. Nei collegi cattolici per le classi dirigenti gestiti dalla Compagnia intere generazioni di allievi e di loro familiari furono educati alla pratica della recitazione e della fruizione teatrale da rappresentazioni regolarmente inserite nella programmazione didattica annuale secondo le indicazioni della Ratio studiorum, mirate a obiettivi sia pedagogici che di propaganda religiosa. Il fenomeno ha prodotto, fra il Cinquecento e il primo Ottocento, un'imponente serie di testi drammaturgici, composti ad hoc e una cospicua esperienza di grandiose e complesse messe in scena entrate in profondità nel patrimonio genetico del teatro europeo e della pedagogia moderna, oltre ad aver contribuito alia formazione di un pubblico teatrale qualificato, primo bacino e referente.di quanto oggi pensiamo come "opinione pubblica". A questa storia il saggio di Mirella Saulini aggiunge oggi un importante capitolo, ricostruendo la vita, l'attività e la produzione di Stefano Tuccio (1540-1597), drammaturgo, educatore, oratore e teologo schierato in prima fila nelle battaglie culturali della Controriforma fra la Sicilia, Roma e il Veneto. A lui si devonb tre tragedie latine di argomento veterotestamentario dedicate a Nabuccodonosor, Golia e Giuditta e una trilogia su Gesù Cristo: tutti testi "di servizio" rimasti manoscritti, come era in uso in queste circostanze, di cui l'autrice ricostruisce la genesi e il consumo, e molti aspetti materiali degli allestimenti. L'analisi offre interessanti frammenti di una sociologia del teatro in gran parte, per l'Italia, ancora da scrivere. Marzia Pieri Anna Barsotti. Eduardo, pp. 172, € 15,50, con Eduardo Racconta Eduardo, video a cura di Maurizio Giammusso, regia di Nello Pepe, Einaudi - Rai Educational, Torino 2003 Anna Barsotti, già curatrice delle due fondamentali edizioni di Eduardo per l'Einaudi, Cantata dei giorni disparì e Cantata dei giorni pari, nonché autrice di due volumi sul grande attore, drammaturgo e capocomico napoletano (Eduardo drammaturgo fra mondo del teatro e teatro del mondo e Introduzione a Eduardo), si consacra qui a una ricostruzione del percorso esistenziale-artistico dell'artista, per il quale lo "spazio del teatro" è stato da sempre "il campo d'azione quotidiano e famigliare", al punto da essere più reale di quello della vita. Tale ricostruzione, accurata, analitica e ricca di citazioni, è confortata da un video dove il sapiente montaggio di interviste, racconto autobiografico e letture di testi lascia direttamente la parola a Eduardo e alla sua personalissima mìmica. Emerge la figura di un artista in costante evoluzione, per cui crescere in una famiglia come quella di Eduardo Scarpetta sarà fondamentale, così come il rapporto coi fratelli Peppino e Titina, anche se il legame fortissimo con la tradizione sarà accompagnato dal desiderio di innovazione. Eduardo, infatti, intraprende via via un percorso sempre più personale. Fondamentale l'incontro con Pirandello, che gli offrirà lezioni di scrittura scenica. Ma anche l'esperienza della guerra e del dopoguerra influenzeranno l'autore, che con Napoli milionaria (1945) creerà un'opera di frontiera, in cui il conflitto individuo-società è particolarmente evidente. Negli anni a seguire, in cui svilupperà la sua "drammaturgia della comunicazione", l'artista porrà in evidenza anche il precario limite tra finzione reale e vita artificiale. Maria Riccarda Bignamini de, incrinare la nostra percezione del mondo attuale e ricreare una "comunità teatrale". Questo è, dopo sei libri di Paoli-ni, il primo su di lui: Marchiori, cosciente della complessità dei campo di indagine che sfugge ai consueti parametri delia critica, adotta in un certo senso il suo stile, accompagnando alla visione panoramica e d'insieme un'accurata ricostruzione del percorso dell'attore-autore-regista dalle primissime esperienze teatrali fino alla versione nel febbraio 2003 a Venezia di Storie di plastica, con uno stile sempre essenziale che rivela la capacità di non chiudere o classificare l'esperienza dell'artista, ma piuttosto di cogliere passaggi o suggerire collegamenti. (M.R.B.) di cinquant'anni, con interventi sulla cronaca teatrale dei quotidiani, la produzione di numerosi saggi, la direzione di una rivista di teatro e un'intensa attività organizzativa, che non mancherà di approfittare della volontà del governo fascista di predisporre organismi statali per gestire e controllare anche l'attività teatrale. Giuliana Olivero Fernando Marchiori, Mappa mondo. Il teatro di Marco Paolini, pp. 176, €19, con Questo radichio non si toca. Diario di un'estate, video di Giuseppe Baresi e Marco Paolini, Einaudi, Torino 2003 Il teatro come mappa e come mondo: è questa bipolarità che Paolini cerca di far vivere nei suoi spettacoli, col rischio di spingersi al limite del teatro fino al punto di non sapere se vi è ancora dentro. Ma il mondo, la realtà, urgono troppo per restare fuori, e così l'attore "esce" a un certo punto lui stesso dai teatro, rinunciando alle potenzialità spettacolari, accettando il senso dell'incompiutezza: scava nella memoria personale e collettiva (il Racconto del Vajont, teletrasmesso, non è che uno degli esempi più noti) e cerca di condividerla o risvegliarla presso gli spettatori, ricostruendo una nuova cartografia della memoria e dell'oblio. L'orto, uno dei quattro "bestiari veneti" (raccolte di materiali e spunti da cui nascono gli spettacoli) di cui attraverso il video assistiamo alla preparazione, è un po' metafora del suo teatro e del suo modo di lavorare. Che è un lavoro che parte dall'osservazione, che compie perennemente salti di scala, dal piccolo al grande, dal generale al particolare, dall'astratto al concreto, dove il ruolo dell'attore, vero e proprio "archivio vivente", è soprattutto quello di testimone. Attraverso una narrazione che, come per i "ruzanti" della storia, è in un certo senso senza una morale, perché più che dare risposte all'attore interessa porre doman- Donatella Orecchia, Il critico e l'attore. Silvio D'Amico e la scena italiana di inizio novecento, pp. 399, €21, Università di Torino, Torino 2003 Nei primi decenni del Novecento la modernizzazione costringe a profondi cambiamenti anche la scena teatrale, sia sotto l'aspetto delle strutture produttive sia sotto quello dei linguaggi. La più significativa trasformazione, dettata dalle nuove leggi di mercato, consisterà nella scomparsa delle figure mattatoriali a vantaggio di strutture spettacolari più articolate, nelle quali, il testo ricoprirà progressivamente un ruolo egemone e all'attore sarà richiesta sempre maggiore fedeltà all'autore, tanto da renderli "nemici naturali e inconciliabili", come nel 1904 scrive sul "Corriere della Sera" Giovanni Pozza, uno dei primi, fra i critici, a riflettere sui cambiamenti che, di riflesso, anche la scrittura critica stava subendo. Ed è proprio attraverso la chiave di lettura offerta dalla figura di Silvio d'Amico, critico e "militante" a tutto campo del teatro italiano novecentesco, che Donatella Orecchia unisce in un percorso appassionante l'evoluzione storica dei linguaggi scenici e drammaturgici -passando per Eleonora Duse e Marta Ab-ba, Pirandello e la cosiddetta "crisi" di un teatro che deve confrontarsi con le imposizioni del fascismo - e i problemi relativi all'interpretazione, a cui si connette il senso e la funzione della scrittura critica in quanto essa stessa "genere". A chi "spetta" il nome di critico? Al "frettoloso chroni-quer del giorno" o allo "studioso che costruisce (...) opere organiche"? L'organicità della riflessione sta nell'unitarietà dell'opera o nello "spirito" del critico, malgrado la frammentarietà con cui è costretto a esprimersi? Stretto fra posizioni anche contraddittorie in merito a queste e molte altre questioni attinenti, d'Amico avvia un impegno teorico e pratico che durerà più Patalogo 25. Annuario del teatro 2002. Quale teatro per il 2003?, pp. 327, € 49, Ubulibri, Milano 2003 Dopo il repertorio di un anno (la stagione teatrale italiana 2001-2002), il resoconto dei premi Ubu, dei festival italiani e dei principali festival stranieri e la vetrina di una stagione (convegni, libri, mostre, premi...), l'ultimo terzo del Patalogo 25, che si apre con una premessa di Franco Quadri dall'emblematico titolo Quale teatro per il 20037, riunendo interventi di critici, autori, attori, registi che hanno "fatto" la stagione passata e che per vie diverse offrono contributi per rispondere a tale domanda, sintetizza e dà un senso alle altre due parti, per necessità più tecnico-informative. Conclude questa parte la proposta di alcuni casi-esempio di "violenze e censure" ai danni del teatro verificatesi nell'ultimo anno in Italia e una riflessione a più voci sulla "necessità" del teatro in tempi di repressione... Un annuario ricco di informazioni e stimolante nelle riflessioni soprattutto perché prende atto di quello che il teatro non è più, e cerca di cogliere, seguendo mille percorsi, il suo divenire, nella consapevolezza che sia necessario tenere lo sguardo a 360 gradi per tentare di cogliere una complessità che tende a sfuggirci. Dai vari interventi, che funzionano talora anche da approfondimento alle schede sintetiche fomite dal repertorio emerge un panorama variegato, ricco di segni vitali, anche se occorre "rendere visibile il nuovo teatro", che non lo è abbastanza, come ci ricorda Oliviero Ponte di Pino e, a proposito della drammaturgia, la cui "rinascita" è innegabile, superare la marginalità degli autori insita nel nostro sistema teatrale, lasciando spazio a "testi senza rete", come suggerisce Renata Mo-linari. Altri esempi, stranieri, rivelano l'importanza e la possibilità del teatro di essere cor"emporaneo e di parlare della realtà, come nel caso dello spagnolo Rodrigo Garcìa o dì Sarah Kane o, ancora, di spettacoli come Rwanda 94. È quindi possibile andare oltre l'immagine del Du-brovka, assurto nel volume a simbolo della morte a teatro, ed è legittimo intravedere nel teatro la pratica di una dissidenza, come sogna Eugenio Barba? (M.R.B.) Silvana Sinfisi e Isabella Innamorati, storia del teatro. Lo spazio scenico dai greci alle avanguardie, pp. 248, € 17,50, Bruno Mondadori, Milano 2003 Franco Perrelli, storia della scenografia. Dall'antichità al Novecento, pp. 207, € 8, Carocci, Roma 2002 Stefano Mazzoni, Atlante iconografico. Spazi e forme dello spettacolo in occidente dal mondo antico a Wagner, pp. 326, € 18, Titivillus, Comazano (Pi) 2003 Questi tre manuali (ma la definizione è inadeguata) colmano una vistosa lacuna bibliografica che pesava negativamente sui corsi universitari, sempre più affollati e accelerati, di storia dello spettacolo. Si trattava di fondare quasi ex novo una sintesi storiografica, attingendo a un mate riale vastissimo e specialistico, disperso e inaccessibile. E interessante rilevare la varietà delle soluzioni adottate. Il volume di Sinfisi e Innamorati si propone come una storia del teatro sub specie spatii ed è, in certo senso, il più tradizionale dei tre. Le autrici assumono lo spazio scenico come filo conduttore per descrivere lo sviluppo del teatro occidentale, ricostruendo una visione organica e rettilinea (e tal- volta per questo un po' artificiosa), dove particolare e originate spazio è dedicato alle sperimentazioni spaziali e scenotecniche postnaturaliste e novecentesche. Il testo è molto descrittivo, con un apparato di immagini "di servizio" in bianco e nero e di modesta risoluzione grafica. Un vero e proprio manuale di canoniche duecento pagine, esaustivo e ricco di dati, senza note e con una sintetica bibliografia conclusiva. Il saggio di Perrelli, invece, fa uno sforzo in più, circoscrivendo il proprio ambito alla storia della scenografia e del luogo teatrale svolta per ampi snodi tematici che ritagliano un percorso critico nuovo e di chiara leggibilità, fornendo una preziosa serie di documenti testuali dì prima mano. Il volume è ricco di note ed è corredato da un utilissimo indice analitico. È veramente un peccato che l'indispensabile apparato iconografico sia così modesto per quantità e qualità delle immagini. Chi ha risolto il problema in modo quasi rivoluzionario e certo fecondo è stato Stefano Mazzoni, che ha inventato un libro tutto da guardare, in cui mette a frutto la grande lezione di Ludovico Zorzi relativa alle connessioni profonde fra spazio pittorico e spazio teatrale. Si offre così a docenti e studenti uno strumento fondamentale, capace di mutare finalmente in modo concreto e irreversibile il modo di studiare questi temi e questi argomenti. L'atlante propone 291 immagini a tutta pagina, di ottima qualità e spesso a colori, costruendo un inedito percorso storiografico dentro la visività del teatro. L'elenco delle tavole rende conto, con esemplare acribia filologica, delle fonti utilizzate; un indice dei nomi e una bibliografia offrono ulteriori percorsi di consultazione. La breve introduzione rende conto di questa coraggiosa scelta metodologica, che mira a fornire "elementi di riflessione a partire da situazioni specifiche" e, in presenza di una materia così vasta e per larga parte ancora oggetto di analisi assai indiziarie, offrire contestualizzazioni ma non banalizzazioni storiografiche, confidando neU'"autonoma eloquenza" degli oggetti proposti. La periodizzazione adottata - criticamente ineccepibile -concede ampio spazio ai teatri greci ed ellenistici e romani, quindi al medioevo, unificando, giustamente, lo spettacolo di ancien régime, dall'Umanesimo a Wagner, come una fase di lunga durata geneticamente unitaria, che trova nella forma del "teatro all'italiana" di derivazione classico-romanza il suo filo conduttore. (M.P.)