Letterature Milena oltre Kafka di Simonetta Sanna MILENA DI PRAGA Lettere di Milena Jesenska 1912-1940 a cura di Alena Wagnerovà e Claudio Canal, pp. 310, € 18, Città Aperta, Troina (En) 2002 Strano destino quello di Milena Jesenska (1896-1944). Una delle più originali protagoniste della vita culturale della Praga tra le due guerre è sempre stata recepita solo attraverso lo specchio deformante delle famose lettere che le ha inviato Franz Kafka. Al punto da essere spesso ridotta a una figurina muta, di cui attraverso quelle lettere completamente autoreferenziali penetra all'esterno appena qualche pallido riflesso. La dimensione cioè in cui è nota ancora og- iMjiia«it|i gi: "Milena di Kafka". Eppure l'intensa storia d'amore con Kafka è stata solo una parentesi, anche piuttosto breve, nella vita di Milena, che di vite ne ha vissute molte di più ("ho già vinto molte battaglie difficili nella vita, sarebbe materia per cinque pessimi film"), sempre cercando convivere con quella frattura linguistica che tanto angosciava anche Kafka ("in tedesco sono una persona sobria, caustica e di buon umore, in ceco sono sentimentale e terribilmente sincera)" . Bruciate le sue lettere a Kafka ("quasi in ogni riga sono la cosa più bella che mi sia toccata nella vita"), Milena è sempre stata recepita solo in funzione di quello che doveva diventare uno degli scrittori di culto del Novecento, anche perché nelle pur belle biografie di Margarete Buber Neumann e Jana Cerna, Milena parla più attraverso le voci dell'amica di prigionia e della sconclusionata figlia che attraverso la propria. Dopo l'insuccesso editoriale di un'antologia di suoi articoli incredibilmente tradotta dal tedesco (Tutto è vita, Guanda, 1986), sono state ora tradotte in italiano, accompagnate da un'appassionata presentazione di Claudio Canal, tutte le lettere di Milena che la curatrice è riuscita a reperire. E improvvisamente Milena ha come ritrovato la sua vera voce, la sua statura di donna passionale e poco convenzionale, in contatto con i protagonisti dell'avanguardia ceca e tedesca (il poeta Jaroslav Seifert, il caricaturista Adolf Hoffmeister, il poeta Otokar Be-zina, ma anche Willy Haas, Max Brod). Improvvisamente l'immagine statica a cui l'aveva ridotta il monologo di Kafka svanisce e mai come nelle lettere si ha l'impressione che nella storia di Milena siano condensate tutte le fasi di un'epoca per Praga prima fortunata, ma poi estremamente tragica: la stagione dell'a- vanguardia, l'adesione entusiasta al comunismo, l'allontanamento dal movimento ("la gente dell'apparato comunista è il peggio che io abbia mai conosciuto"), l'ascesa del nazismo e il soggiorno e la morte nel campo di concentramento di Ravens-bruck. E in tutte queste peripezie Milena è rimasta sempre se stessa, a partire dalle prime lettere che scrive a diciotto anni alla sua professoressa ("se uno sopporta la sporcizia sul corpo, la sopporta pure nell'anima"). Negli anni venti Milena prende parte alla tempestosa fase dei caffè letterari praghesi, si sposa, ha una violenta ma tutto sommato breve relazione con Kafka, si trasforma in giornalista di grido sempre alla ricerca di una propria collocazione in un mondo troppo piccolo per lei ("tanto per la direzione è indifferente che io viva a Vienna o a Parigi. Ma io non so dove vivrò. So solo che non vivrò a Praga né a Vienna né a Berlino, sarò a Parigi, a Londra, a Roma o a Mosca"). Poi il nuovo amore per uno squattrinato architetto costruttivista, la nascita della figlia, la malattia che la porta quasi all'amputazione di una gamba ("Io sono terribilmente sola, voi siete tutti sani") e un lavoro di' cronista che non la soddisfa più ("sono articoli mediamente buoni come se ne trovano tanti nei giornali. Se non posso esserne fiera, non me ne vergogno neanche, tutto qui. Se avessi soldi, non scriverei neanche una parola"). Poi l'atmosfera pesante degli anni trenta, la lotta per la sopravvivenza e il nuovo amore impossibile per l'intellettuale ebraico William Schlamm ("non so precisamente come, so solo che ti amo tanto. Ma la premessa di questo amore era la sicurezza che tu non mi amassi. Ed è questo che tu non sai. Se io avessi pensato che tu avresti potuto amarmi sarei fuggita da te fino alla fine del mondo"). Poi è di nuovo lei ad animare con articoli pungenti una delle riviste più battagliere nel momento più difficile della Cecoslovacchia ("è una nazione squisita che non è politicamente adeguata"), e subito dopo la troviamo di nuovo in prima fila nella diffusione di periodici clandestini e nell'aiutare a fuggire all'estero le persone a rischio (parte fra gli altri anche il suo ultimo compagno, Eugen Klin-ger). Alla fine sarà lei a pagare in prima persona, quando, incautamente, manderà la figlia a ritirate le copie di una rivista clandestina in un appartamento già occupato dalla polizia. E proprio alla figlia dodicenne, al "mio migliore amico", è destinata l'ultima lettera, una lettera piena di speranza e fiducia: "e se non avremo quella nostra vecchia stanza, non piangere ne avremo un'altra. Ci troveremo sempre qualche altra stanza e alla sera andremo a letto insieme e ce la conteremo e io ti racconterò tanto e tu mi racconterai tutto su te stessa, vero?". Simonetta.sanna@tiscalinet.it S. Sanna insegna letteratura tedesca all'Università di Sassari Un diario del tempo di guerra In paesaggi precari di Alberto Cavaglion Elio Salmon DIARIO DI UN EBREO FIORENTINO (1943-1944) a cura di Alessandro Vivanti, prefaz. di Michele Sarfatti, pp. 385, € 13, Giuntina, Firenze 2003 Non sono molti i diari scritti in clandestinità, che spesso sono confusi con una ricca memorialistica uscita in Italia in tempi diversi e con sempre maggiore intensità negli ultimi anni. I due generi sono fra loro diversi, sebbene spesso si tenda a farne una cosa sola, adoperando, per analizzarli, i medesimi strumenti critici. I diari scritti nei mesi dell'occupazione nazista in Italia si contano in verità sulle dita di una mano e perciò sono tanto più interessanti da studiare. Questo di Elio Salmon, fiorentino, che in via Calzaiuoli svolgeva attività di rappresentante di materiali edili, ha per esempio una struttura per nulla diaristica, non paragonabile ad altri diari che conosciamo, per esempio a quello di Emanuele Artom. L'autore osserva la guerra dall'esterno, descrive i comportamenti umani in una condizione estrema, rimane colpito dal trasformarsi del paesaggio e dalle persone che debbono abitarlo in condizioni di precarietà. Salmon intendeva scrivere una lettera, che per sua stessa ammissione sarebbe stata "lunghetta", indirizzandola a una parte della famiglia fuggita altrove, in particolare alla cognata emigrata nella Palestina del mandato britannico. La lettera ha inizio il 20 maggio 1943 ,e si conclude a guerra finita. L'autore sembra avere in mente un genere di scrittura famigliare e mercantile, sul genere dei libri di famiglia della borghesia dell'Ottocento. Non concede però nulla, in fatto di estetismi o di divagazioni su letture o libri, ma la bellezza della campagna toscana, pur nel periodo più fosco della sua storia, emerge in molte pagine suggestive dedicate alla Colombaia, ai Veroni di Pontassieve e a Vo-lognano. Il tema di fondo è quello ricorrente in altre scritture auto- biografiche analoghe: la fuga dalla città comporta una ri-scoperta ebraica del mondo contadino, simile a quella della prima emancipazione, e mette a nudo quella che un altro ebreo toscano costretto a fuggire definì "l'assenza di ogni conoscenza georgica" (Alessandro Levi). La fedeltà a se stesso porta Salmon a farsi precisissimo nei particolari. Gli studiosi odierni che affidano la loro ricerca all'individuazione della rete parentale e amicale che lega l'autore di autobiografie al mondo circostante troveranno qui un caso esemplare, che pone tuttavia molte difficoltà a disegnare una mappa relazionale comprendente un centinaio circa di personaggi, maggiori, minimi o semplici comparse, di una genealogia fra l'altro assai intricata. Si direbbe che Salmon sia ossessionato dal fissare negli interstizi della sua scrittura nascosta il luogo dove sono nascosti coloro per i quali teme sia in pericolo la vita. Dicendo dove sono e come stanno sembrerebbe convincersi di aumentare la loro possibilità di sopravvivenza. Un documento di notevole interesse, anche per lo stile molto originale di •scrittura. ® alberto.cavaglion@libero.it A. Cavaglion è insegnante Celan al limite estremo di Emilio Jona liana Shmueli DI' CHE GERUSALEMME È Su Paul Celan: ottobre 1969 - aprile 1970 ed. orig. 2001, a cura dijutta Leskien e Michele Ranchetti, pp. 186, € 16, Quodlihet, Macerata 2003 Si sa che per Adorno la poesia di Celan rappresenta il limite estremo di una "poetica negativa" che sanciva "la morte del linguaggio", mentre per Gadamer i suoi versi sono ottenuti tramite un lento processo di riduzione e di concentrazione del linguaggio colloquiale e intendono ancora "salvaguardare con un atto disperato la possibilità umana di pronunziare nomi e parole". Come scriveva acutamente Franco Camera, il linguaggio di Celan è un linguaggio del dolore, è una "parola che porta il segno delle ferite ancora aperte dell'olocausto ebraico. Dopo che l'esperienza storica del popolo d'Israele è stata ridotta in fumo e in polvere, il linguaggio del poeta legato a quel popolo da un'alleanza non taciuta non ha più nulla da nominare che non sia 'pietra', 'roccia', 'sabbia', 'traccia', che non sia la 'parola strappata al silenzio', vera e propria 'contropartita dell'assurdo'". È in questo spazio che si muove il libro di liana Shmueli. Esso è un dono prezioso per chi ama Celan perché è uno sguardo intimo e privilegiato sugli ultimi sette mesi della sua vita attraverso due tracce: l'una sta nei frammenti scelti con pudore e discrezione dalle lettere di Celan a colei che è stato l'ultimo suo amore e in cui Celan appare in tutta la sua esigenza di assoluto e nella sua inesorabile mancanza di compromesso e insieme con la forza non coercibile delle sue interne distruzioni che egli sa "giungere sino al nucleo della (sua) esisten- za"; l'altra sta nella scoperta delle occasioni e delle radici delle sue ultime ventisette poesie, che al suo rapporto con liana indissolubilmente s'intrecciano e che ne consentono con i suoi dati extratestuali una lettura più con„apevolè e illuminante, cosa che noi apprezziamo ma che certamente Celan non avrebbe apprezzato, perché l'interpretazione per lui doveva stare tutta dentro il testo, le cui parole altro non erano che la sua stessa vita. liana e Paul si conoscevano da ragazzi nella città in cui erano nati e vissuti, Czernowitz, ai confini della Galizia, e si frequentarono con una certa assiduità sino al 1944. Paul, dice liana, era bello, tenero, pensieroso e sognante; si ritrovarono venticinque anni dopo, quando lei, che viveva a Gerusalemme, lo accompagnò nel suo viaggio attraverso Israele, e fu un incontro per entrambi determinante. liana tace con pudore quest'aspetto del loro rapporto che rappresentò invece, come appare dal contesto della sua narrazione, una reciproca scoperta, l'intreccio delle comuni radici ebraiche, una possibile salvezza per Celan e un dialogo di pienezza umana e intellettuale. liana lasciò marito, lavoro e figli per lui, ma la sorte di Celan era segnata dal suo non superabile male di vivere. liana ritornò sconfitta in Israele e Paul si annegò nell'aprile 1970 nella Senna, sospinto come Primo Levi dall'irrisarcibile crimine della Shoah e dal peso della vergogna di esserle sopravvissuto. Ora, l'aspetto coinvolgente e affascinante di questo libro è che liana Shmueli vi appare sia nella sua forte e autonoma umanità, sia come partecipe di quella parte di Celan rivolta verso la vita. E vi appare leggendo e vivendo la poesia di Celan, che profondamente la riguarda, non solo completandola con precisi riferimenti di tempo, di luogo e di suggestioni ma prolungandosi in essa, penetrando e duplicando quella scrittura, così unica e senza limite, che sta tra Kafka e Mandel'stam.