J N. 10 11 Letterature Una lucidissima impotenza di Jaime Riera Rehren Roberto Bolano I DETECTIVE SELVAGGI ed. orig. 1998, trad. dallo spagnolo di Maria Nicola, pp. 843, € 20, Sellerio, Palermo 2003 Un gruppo di giovani poeti maledetti, i "real-visceralisti", maledettamente colti e sicuri di sé, si muovono per Città del Messico marginali e ostili alla disprezzata cultura dei mandarini. Un giorno decidono di partire alla ricerca di Cesaria Tinajero - musa del cenacolo surrealista primo novecentesco degli "stri-dentisti" - sparita ormai da decenni nel nulla del deserto di Sonora. Le ottocento pagine che precedono, aggirano e oltrepassano questo incontro raccontano le storie e le inevitabili sconfitte dei protagonisti attraverso molteplici voci narranti, diramazioni esistenziali che proiettano una luce inquietante sulle vicende della società letteraria e sul dramma di una generazione latinoamericana che appare malata di lucidità e impotenza. La scrittura polifonica, improntata a una forte oralità, diventa così un viaggio nel tempo bruciato di una generazione irriducibile, se vogliamo un romanzo di formazione che rinnega l'idea stessa di formazione, viaggio portato avanti con una fredda, detective-sca passione letteraria, usata come arma micidiale, selvaggia nel suo nero umorismo, contro ogni convenzione, antica o nuova. Di Roberto Bolano, scrittore cileno nato 1953 che ha scelto di vivere fuori dal suo paese, esule in Messico dal 1974, residente a lungo in Catalogna e scomparso il 15 luglio di quest'anno a Barcellona, i lettori italiani hanno potuto leggere romanzi e racconti che rivelano uno spessore non comune e un'ambizione letteraria che sembrava ormai dimenticata in quella parte del mondo: La letteratura nazista in America (Sellerio, 1998; cfr. "L'Indice", 1998, n. 7), Chiamate telefoniche (Selle-rio, 2000), Stella distante (Sellerio, 1999; cfr. "L'Indice", 2000, n. 5), Amuleto (Mondadori, 2001) Notturno cileno (Sellerio, 2003). Ora viene tradotto finalmente il suo lavoro più corposo e impegnativo, un romanzo che molti critici spagnoli e latinoamericani non esitano a collocare all'altezza delle grandi opere scritte in Ispano-america a metà del secolo scorso. E pur vero che troppo spesso si sprecano giudizi simili per scrittori e libri di cui in fretta sparisce ogni traccia, ma crediamo che non sia questo il caso. Una sinfonia di voci, come si è detto, e molte nascondono pro- tagonisti reali della vita culturale messicana e latinoamericana, più o meno travestiti a seconda delle preferenze dell'autore. Direttamente o indirettamente tutte convergono sulle vicende di Arturo Belano (vecchia conoscenza che in molti libri di Bolano compare come alter ego dell'autore), Ùlises Lima e compagni e compagne di avventure nelle notti del Distrito Federai e di altre capitali del mondo, gente che rivendica una specie di eroismo indolente che a prima vista potrebbe sembrare vana iattanza picaresca, ma che in realtà va mettendo allo scoperto una volontà intransigente nel percorrere la strada che conduce a un abisso assoluto, un'utopia senza ritorno, perché le rivoluzioni sono fallite ma lo scopo di raggiungere il porto sicuro di una qualche "maturità" è escluso in partenza. La parte centrale del romanzo (I detective selvaggi, 1976-1986) espone testimonianze raccolte da uno sconosciuto organizzatore dei capitoli lungo un arco di oltre vent'anni, testimonianze che mettono in bella o cattiva luce i protagonisti a seconda del ruolo svolto negli episodi raccontati o a seconda della visione del mondo a cui si ispirano ("Io a volte li guardavo e malgrado l'affetto che provavo per loro pensavo, che razza di teatro è questo? Che razza di imbroglio o di suicidio collettivo è questo? E una sera, nel 1976, poco prima che partissero per Sonora, capii che era il loro modo di fare poli- L'unica crìtica sociale possibile di Marco Vitale Jean-Patrick Manchette UN MUCCHIO DI CADAVERI ed. orig. 1973, trad. dal francese di Luigi Bernardi, postfaz. di Valerio Evangelisti, pp. 198, € 8,30, Einaudi, Torino 2003 Rarefazione. A giudizio di molti critici, sembra questa la parola giusta per intendere l'universo poetico di Jean-Patrick Manchette, punto di svolta di una tradizione letteraria robusta, forte di pubblico e di autori, di importanti case editrici, ma giunta sullo scorcio degli anni sessanta, in Francia, quasi a un binario morto. I "valori" della vecchia malavita, la divisione manichea dei personaggi, il "bene" e il "male", appaiono ormai inservibili utensili di fronte a una realtà in tumultuoso divenire, torbida e di difficile riscontro, ma percorsa da speranze e annunci di rivolta. Lettore giovanissimo e intrigato dei testi dell'Internazionale situazionista, amante del poliziesco e del cinema americano, di Miles Davis e Archie Shepp, Jean-Patrick Manchette (1942-1995) è partecipe dei succhi culturali più vivi di una generazione, nonché di un clima irripetibile che ha per centro Parigi nel breve volgere in cui le illusioni bruciano e cedono al disincanto. Per questa stretta porta, l'adozione di una narrativa di genere, sotto il segno di Da-shiell Hammett, si pone allora ai suoi occhi come gesto deliberato, se anche non privo di problematicità, e destinato non soltanto a incontrare, ma a creare un pubblico. Hammett, con la sua scrittura spoglia e nervosa e D'oggettività" delle sue trame, introduce l'unica critica sociale possibile e gli appare, per la sua azione dispiegata lungo le ali, quale "il superbo movi- mento della cavalleria di Condé a Rocroi". Di qui a portare "la contestation dans les banlieues de l'esprit" il passo è breve, ma non sempre pacifico. E se il grande poliziesco americano, nella sua codificata asciuttezza, implica addirittura il paragone con la geometria del sonetto, non di meno il suo prestito, per reggere alle lusinghe della "società dello spettacolo", necessita di una corrosione dal suo interno: ha bisogno di ironia, scarti parodici e, appunto, di rarefazione. Rarefatta è la Parigi che ci viene incontro anche in questo Mucchio di cadaveri (titolo originale Morgue pleine), uscito nel 1973 nella celebre "Sèrie noire" di Gallimard: rarefatta negli spazi che seguono le demolizioni e i "risanamenti" di quegli anni, nel muovere notturno di personaggi accomunati da un'ineffabile mancanza di senso, nello sguardo appannato dello stesso investigatore, Eugène Tarpon, un ex gendarme che viene dalla provincia e mal si orienta per le sue vie. Intanto i delitti si susseguono, sanguinosi e inspiegabili, e a misura che il primo, finendo per illuminare gli altri, si avvia a soluzione, il pessimismo lucido dello scrittore ha modo di dispiegarsi. La narrazione è impersonale, l'autore non interviene e lascia che parlino le azioni e si impongano con le loro evidenze. Nessuno dei personaggi (attricette e terzomondisti, maquereaux e poliziotti...) sembra del resto riscuoterne le simpatie. Al massimo può aspirare a una relativa indulgenza. L'intreccio in sé non appare particolarmente complesso, mentre è il quadro generale semmai a colpire, e soprattutto il ritmo che ne orienta la rappresentazione e ne costituisce il tratto più originale. E fa pensare a quel dramma espressivo da Manchette così frequentato e amato e perfino odiato che va sotto il nome di}ree jazz. tica. Un modo che oggi io non condivido più e che allora non comprendevo, e non so se fosse buono o cattivo, giusto o sbagliato, ma so che era la loro maniera di incidere politicamente sul reale, scusate se le mie parole non sono chiare, ultimamente sono un po'confuso"). La prima e l'ultima parte (Messicani perduti in Messico, 1975 e I deserti di Sonora, 1976) consistono invece in annotazioni diaristiche di un protagonista minore, Garda Madero, giovane ingenuo e ultimo arrivato nella banda real-visceralista, il quale gioca un ruolo ambiguo di aspirante scrittore incerto sull'opportunità di seguire fino in fondo quegli eroi nelle loro imprese. Pur ruotando intorno alla megalopoli messicana gli scenari cambiano di continuo: Barcellona, Parigi, Tel Aviv, Dar es Salaam, Roma sono alcuni dei luoghi fino a dove si spingono i protagonisti senza che nulla cambi nella loro condizione sradicata e priva di rifugi sicuri, a-gendo in contesti che a volte sembrano autonomi. Racconti che a partire da un filo apparentemente esile diventano incursioni quasi boccaccesche che introducono successive ramificazioni tematiche e riflessioni metaletterarie. Il tempo del racconto spesso non coincide con l'ordine temporale degli avvenimenti raccontati, per cui l'idea di principio e finale è completamente estranea alla struttura del romanzo ("Un mio libro non può finire, sono ancora vivo", ha detto l'autore). Questa frammentazione della linea narrativa, il dispiegamento di molteplici punti di vista, la struttura complessa del meccanismo che distribuisce e incrocia nel tempo e nello spazio gli elementi della trama centrale del libro e, soprattutto, la ricorrente e spregiudicata riflessione sulla letteratura stessa e sui meccanismi che ne riproducono la funzionalità nel sistema sociale hanno alimentato un'interpretazione critica di taglio postmoderno e rimandi a opere come II gioco del mondo di Julio Cortàzar, romanzo che negli anni sessanta segnò uno spartiacque nella storia letteraria del continente, o Tre tristi tigri, il grande romanzo su L'Avana di Guillermo Cabrera Infante. Non è facile peraltro mettere in rapporto l'opera di Bolano, e in particolare I detective selvaggi, con quella di altri scrittori di lingua spagnola della sua generazione o di quella dei più giovani, quasi sempre molto preoccupati della qualità formale della scrittura ma spesso privi di uno stile e di uno scopo immediatamente riconoscibili. D'altra parte, anche ammettendo che le categorie stilistiche dell'originalità e dell'innovazione sono certamente molto rischiose, è chiaro che il romanzo di Bolano non scommette su un salto nel vuoto, non ricalca il gesto un po' ridicolo dell'avanguardia, che sosteneva di essere nata orfana. Anzi, il serrato dialogo con la tradizione - ispanoamericana, europea, ma anche nordamericana - e la quasi ossessione per un canone difeso a oltranza, anche se sottoposto a continue revisioni, in realtà fanno di questo libro un compendio della modernità letteraria ispanoamericana. Si può dunque sostenere che siamo davanti a uno dei pochi tentativi della cosiddetta "nuova narrativa latinoamericana" (scrittori nati fra gli anni cinquanta e settanta) di penetrare in profondità nelle pieghe, anche maleodoranti, di un tempo latinoamericano che spesso, e purtroppo, ha invece proiettato di sé nel resto del mondo un'immagine falsa e mitizzante nel senso più deteriore del termine. Per esempio, è evidente che una delle chiavi di questo romanzo è la condizione di sradicamento e di esilio, ma con una radicale differenza rispetto al trattamento riservato normalmente nella letteratu- ra ispanoamericana a questa condizione: sradicamento e esilio non cercano qui di ricreare un pathos vittimistico e retorico, non si parla di questo, essi costituiscono non un argomento di disquisizioni ma di fatto una visione del mondo interna, fondante, elaborata e accettata come unica possibilità produttiva, per così dire. Possiamo infine accennare a questo: se è vero che l'erranza dei personaggi dei Detective selvaggi è vista dall'autore attraverso uno sguardo talora distante, misto di umorismo nero, compassione e crudeltà, ciò non impedisce di rilevare facilmente il nucleo di identificazione dato dall'elemento autobiografico che impregna tutta l'opera di Bolano e specialmente questo libro, come lo stesso autore ha più volte riconosciuto, pur dichiarando la propria avversione nei confronti del genere delle autobiografie. Romanzo generazionale, dunque, ma di una generazione latinoamericana che a differenza di quella dei decenni precedenti ormai si muove in un orizzonte culturale definitivamente globale, che non riconosce limiti al proprio spazio immaginario e che esclude per definizione lo sguardo esotico. I fantasmi di una memoria letteraria universale, così incombenti nell'opera di questo scrittore, sono tutt'altra cosa rispetto alle esauste figure degli eredi del realismo magico. Negli ultimi anni Roberto Bolano è stato tradotto con successo nelle principali lingue europee, ed è il caso di dire che la versione italiana di Maria Nicola dei Detective selvaggi sembra all'altezza di un compito non facile, data la complessità dei tanti registri della lingua ispanoamericana adottati nel romanzo, un libro fatto di voci, appunto, di melodie e ritmi linguistici che era fondamentale preservare e; per quanto possibile, ricreare. È invece sorprendente il fatto che le recensioni dedicate dai giornali italiani al romanzo sembrino così superficiali e in alcuni casi fuorviami, soprattutto alla luce degli scritti e saggi critici che in Francia, Germania e Inghilterra, oltre che in Spagna e America latina, hanno mostrato un forte e ammirato interesse nell'analizzare e collocare storicamente questo romanzo. Ma l'avranno veramente letto i nostri recensori domenicali? ■ rieraScisi.unito.it . Riera Rehren è lettore di lingua spagnola all'Università di Torino