Saggistica letteraria La letteratura Noi siamo altre persone di Mariolina Bertini Luca Scarlini EQUIVOCI E MIRAGGI Pratiche d'autobiografia oggi pp. 180, € 14, Scuola Holden - Rizzoli, Milano 2003 Tnumi tutelari di quest'am-J-pio excursus nei territori dell'autobiografia sono due: la fotografa parigina dell'età delle avanguardie Claude Cahun e Giorgio Manganelli, autore particolarmente importante nella formazione di Luca Scarlini, che è tra i curatori delle sue opere. A Claude Cahun appartengono i singolari autoritratti che scandiscono - unica illustrazione - l'itinerario dell'autore tra le infinite "metafore del sé" (per usare l'espressione di James Ol-ney) in cui si è frantumata ai nostri giorni la pratica autobiografica. Da un capitolo all'altro, che Scarlini segua i passi di autobiografi illustri, come Canetti, o che si tuffi nel magma dei benemeriti archivi in cui vengono preservati dalla distruzione i materiali diari-stici e documentari di mille esistenze oscure, è sempre la figura sfuggente di Cahun ad affacciarsi nelle fotografie che accompagnano il testo per turbare il lettore con le sue metamorfosi: di volta in volta seduttrice iperfemminile, clown, Buddha dorato, gigolò, alieno vagamente fantascientifico dalla testa a uovo. "L'artista francese - commenta Scarlini - ha realizzato un lessico espressivo in cui il massimo della rappresentazione di sé coincide con l'estremo della cancellazione, e nel quale i segni, ambigui, incerti, spesso enigmatici, mettono in discussione ogni forma di appartenenza a un genere sessuale o estetico". Sono parole che indicano molto efficacemente una delle direzioni che ha imboccato il discorso autobiografico attuale: privilegiare le fratture dell'io rispetto alla sua coerenza, giocare con i linguaggi, sostituire alla vocazione pedagogico-moralistica del canone prenovecentesco (vocazione ben incarnata dalle memorie di Benjamin Franklin o da quelle del cardinale Newman) la perlustrazione di uno spazio dagli orizzonti provvisori e fluttuanti. Nello stesso senso va la lezione di Manganelli, di cui l'epilogo del volume cita un'illuminante intervista: "L'autobiografia è un genere plurale. Di volta in volta ne racconti una, ma non è mai una, è sempre un intrico di citazioni, di exempla, di aneddoti. Via via, alcuni vengono scartati mentre altri vengono recuperati. Noi siamo continuamente altre persone e continuamente percorriamo nuove strade". All'insegna di questa esasperata pluralità, la ricerca di Scarlini si dirama, consapevolmente, in mille rivoli contraddittori. Scenario di una "presentazione" di sé, l'autobiografia può adottare le tecniche più diverse: vengono in primo piano, di volta in volta, il racconto d'infanzia (Dolores Prato), il resoconto di viaggio (Fosco Marami, Ryszard Kapusciriski), la "controscrittura" poetica di Joé Bousquet, il ritratto generazionale (Arbasino, Edith Sitwell), la scrittura di sé come operazione storica, in continua interconnessione con quel che accade nel mondo (Gore Vidal), la proiezione del proprio io su una figura del passato scelta come oggetto di scrittura biografica (Éulgakov biografo di Molière, Brasillach biografo di André Chénier). A volte, l'io che si racconta si mette in gioco nel modo più radicale: è il caso di Jean Genet, i cui percorsi esistenziali e politici si bruciano in una scrittura trasgressiva e folgorante, ma anche di alcuni scrittori per cui centrale è l'interrogazione religiosa, l'incontro-scontro con il sacro (Clemente Rebora, C.S. Lewis, Ferdinando Tartaglia). È però forse al di fuori del terreno della letteratura vera e propria che il paesaggio accidentato dell'autobiografia contemporanea offre a Scarlini gli itinerari più nuovi e più curiosi: dai manuali e dai siti (perlopiù americani) che incoraggiano alla pratica autobiografica l'uomo della strada, agli archivi dove si accumulano testimonianze di vita provenienti dai più diversi ceti sociali; dalla memorialistica nata in margine a immense tragedie storiche (prima fra tutte la shoah) al panorama degradato, eppure interessantissimo, dei vari reality shows giocati su una confusione sapientemente intrattenuta tra confessione e spettacolo, anonimato e divismo. Come è giusto davanti a un testo che celebra il carattere multiforme e ambiguo dell'autobiografia contemporanea, il lettore di Equivoci e miraggi, alla fine, non sa bene se ha assistito al trionfo dell'autobiografia, o alla sua definitiva dissoluzione. Quel che è certo, è che la frattura aperta dal Je est un autre di Rimbaud non si è ricomposta, si è moltiplicata; e che le grandi imprese autobiografiche di Leiris e di Perec, scavando tra lutti indicibili, mitologie personali e linguaggi dimenticati, ai margini fra etnografia, sociologia e narrativa, ne hanno reso più sensibile e immediata la drammaticità. ■ maria.bertini@unipr.it M. Bertini insegna lingua e letteratura francese all'Università di Parma è musica di Laura Barile Gilberto Lonardi IL FIORE DELL'ADDIO Leonora, Manrico e altri fantasmi del melodramma nella poesia di montale pp. 270, € 19, il Mulino, Bologna 2003 Gilberto Lonardi, al quale dobbiamo somma riconoscenza per l'ormai introvabile volumetto II Vecchio e il Giovane (1980, dove già segnalava L'impurità" della poesia montaliana, nata, per sua stessa dichiarazione, nel solco metafisico di una junction Browning-Baudelaire piuttosto che nella linea della poesia "pura" mallarmeano-simbolista ermetica), affronta oggi nel Fiore dell'addio un tema imprescindibile per Montale: e cioè quanta musica vi sia nella sua poesia, quanto melodramma; quanti fantasmi dell'opera, quante Leonora e quanti Manrico (per non dire di Manon e di Des Grieux, e delle loro arie più note) vi circolino seminascosti, o viceversa esposti come la lettera di Poe. È un libro, questo, che - come dire - ci voleva. Anche se recentemente sono uscite sillogi di studi su questo tema, che già Mengaldo aveva sfiorato da par suo; senza contare un generoso saggio di Mario Aversa-no pieno di suggerimenti intertestuali profusi a piene mani. "E, in fondo - scrive a venti anni, nell'aprile 1917, Montale nel suo quaderno - diciamo pure tutta la coraggiosa verità: la letteratura è musica". La sua fedeltà a se stesso, col segno rovesciato a partire da Xenia, sta nell'"intemerato sincretismo" che secondo Lonardi caratterizza il suo bisogno originario di afferrare il "senso ultimo" del mondo. Sta nella sua capacità di tenere insieme musica, memoria e filosofia, in una convivenza filosofico-immagino-sa e musicale unita dalla poesia. Dove la filosofia sarà in origine soprattutto Sestov, il filosofo ne- mico giurato della ragione che "disunisce", il nemico del "due più due = quattro"; e la musica sarà in primis la memoria del melodramma, una memoria comune, ma anche una memoria che si sbriciola e va in pezzi nel secondo novecento. È il "grande stile", il "sublime in cenci" dell'opera al suo tramonto, nel momento in cui la crisi della forma chiusa musicale segna il crepuscolo della convenzione. Questa "memoria comune" è parte costitutiva dell'idioletto di Montale, che già nel Quaderno Genovese si rammarica di non essere musicista, che studia canto (baritono-basso) dal 1921 al 1923, e che, infine, crede nella circolazione di energia fra arte e vita: dove l'arte, nata dalla vita, alla vita ritorni dopo il suo "oscuro pellegrinaggio nella coscienza e nella memoria degli uomini", in una sorta di "seconda vita dell'arte", come scrive nel 1949. Come il Montale del 1926 coglie nella poesia di Saba una sorta di pedale profondo, dato, come dice, da "non so che secondo spazio interiore", che "sa di lieder e di lontananza, di nostalgia e di inafferrabile presenza", così Lonardi cerca di far affiorare questo "secondo spazio" melodrammatico nella poesia e nella musica della poesia montaliana. E per questa intertestualità musicale, piuttosto che di "oculato bricolage", parlerei di modi e di un lessico, quello operistico, che è entrato a far parte della sua stessa grammatica poetica. T onardi affronta il suo com--1—plesso tema in vari modi: se da una parte individua con acribia l'uso e il riuso negli anni di alcune zone o frasi o arie di certe opere, dall'altra segue la presenza, variata nel tempo, dentro la sua poesia, di un'opera amata come il Trovatore. Il problema del rapporto col melodramma in poesia lo si può prendere da due manici (ma in ogni caso ci vuole orecchio): dalla parte cioè del libretto, o da quella della musica. Estremamente difficile, con la parola scritta, render conto dell'interazione fra le due. La puntuale, sottile indagine del critico, che non teme tuttavia lo sguardo ricapitolativo, dall'alto, e un'escursione totale, dal poeta Giovane al Vecchio, ci fa "sentire" in modo convincente, pur senza il supporto della musica, come per il Montale giovane conti la forma profonda del canto: il settenario con le rime esposte, spesso tronche, dove si colloca il rapido ricordo operistico (e così in Falsetto, in Perché tardi?... e in Casa sul mare troveremo Butterfly: "Un bel dì vedremo / levarsi un fil di fumo..."). Riconosciamo grazie a Lonardi un impulso di metro e di ritmo, più che di lessico, nella memoria del giovane Montale, vedi Favorita di Donizetti (atto II): "Giardini d'Alcazàr - de' mauri regi / care delizie...", e Montale del '22 in Corno inglese: "reami di lassù! D'alti Eldoradi / malchiuse porte...". O ancora le intonazioni patetiche introdotte da un "Ah!", così frequenti nella prima raccolta montaliana (e ricordo il valore semantico forte che assume, magari attraversando anche un certo Sereni, una clausola co- me il "Mah?" che chiude l'ultima poesia della tarda raccolta Altri versi, dal titolo: Ah!... ) La tendenza si inverte in direzione di un ritorno al libretto fra Ossi e Bufera: ma un libretto che ha ben presenti le sottolineature della musica, e ciò che la musica "dice" al di là delle parole. Come "un po' per non morire / al primo incontro" di Butterfly trova eco sul morire più che sul primo incontro, per la sottolineatura musicale. In Tosca Mario Carava-dossi (tenore) canta di una cappella che "mette / a un orto mal chiuso, poi c'è un canneto": luoghi di realtà biografica, e in poesia troppo e troppo a lungo frequentati da Montale per non provocare un sobbalzo nel lettore; e ancora a Tosca sarebbe da attribuire il "passo lieve" delle apparizioni di Arietta. Mentre per i Mottetti (su alcuni dei quali abbiamo recentemente ascoltato una bellissima lezione con musica, parte di un lavoro in corso di Roberto Leporatti), interessanti osservazioni riguardano soprattutto la tecnica del contrappunto. Con La bufera il discorso si complica, perché se è vero che il suo primo titolo era Romanzo, è al romance che rimanda giustamente Lonardi, con un protagonista, non più tenore, ma baritono-bas-so, conteso fra la Bionda e la Bruna... Lonardi aggiunge al già citato sistema orto-malchiuso-canneto, la fiammata incandescente del colore del fuoco del sistema arse - fiamma vampa fuoco dal Trovatore: con una bella lettura dei due testi conclusivi del Grande Stile montaliano, Piccolo testamento e II sogno del prigioniero, "aria" ultima dove si addensano echi anche da Kafka e Leopardi. È una Bufera trovatoriana e sce-spiriana quella che Lonardi rilegge attraverso il prisma del melodramma, prima di approdare agli ultimi libri, e a Massenet e a Manon: con la ricomparsa di Clizia, e di Arietta sotto le spoglie di Annetta o della capinera. Siamo con l'ultimo capitolo (Sipario) alla "malinconicissima consapevolezza" della fine: fine della giovinezza e di tutto, senso di impossibilità. Una storia che conosciamo, ma che ripercorriamo col fiato sospeso grazie alla scrittura di Lonardi, alla sua tecnica da thriller, che prima svela il debito, poniamo, verso Boine e Ceccar-do, magari anche poi verso Pascoli e D'Annunzio, per aprire infine improvvisamente in altre possibili direzioni con la presenza del "di là" nel "qui" e nel quotidiano, nella musica di Puccini. Emerge da queste pagine una complicità di cifra fantastica, e fin anche metafisica, come dice Lonardi, fra la voce della poesia montaliana e le voci del melodramma: pagine che confermano la centralità di Montale nella poesia nel ventesimo secolo, con la sua paradossale capacità di tenere insieme i contrari: dove i contrari sono complementari, ma, come scriveva Starobinski per Baudelaire, si completano per meglio esprimere che ogni pienezza è legata alla mancanza. ■ laurabarile@tiscalinet.it L. Barile insegna letteratura italiana moderna e contemporanea all'Università di Siena Belfagor 347 Via dell'Impero Arno Mayer - maggio 2003 Dialogando a Pisa: Stalin fra ricerche e congetture * Adriano Prosperi Miscredenza e simulazione: processi del '600 I due re di Harlem Martino Marazzi Sebastiano Timpanaro Giuseppe Pacella * Lidia De Federicis Il rapporto fra vita e letteratura nella nuova narrativa italiana "The sympathetic Signor Mussolini" Roberto Ridolfi * Carlo Ferdinando Russo Gòttingen in Apulien Renata Roncali con Eduard Fraenkel 1965 Fascicolo 346 Il dono è il dramma Cosimo Marco Mazzoni Antonio Tricomi Pier Paolo Pasolini à la page Belfagor Fondalo a Firenze da Luigi Russo nel gennaio 1946 Abbonamento: sei fascicoli di 772 pagine, € 43,00 Estero € 70.00 Casa editrice Leo S. Olschki c.c.p. 219 205 09 "Belfagor" - Firenze http://belfagor.olschki.it