Letterature Ebraismo meticcio a New York Gli incroci contano più delle radici di Paola Splendore Zadie Smith L'UOMO AUTOGRAFO ed. orig. 2002, trad. dall'i, di Bernardo Draghi, pp. 469, € 16,60, Mondadori, Milano 2003 Un incontro di wrestling all'Albert Hall di Londra. Big Daddy contro Giant Haystacks. Accompagnato dal padre, nel pubblico, c'è un ragazzino ebreo, Alex Li, metà cinese e metà inglese. Accanto a lui due suoi compagni, Adam, nero e sovrappeso, e Ru-binfine, un quindicenne alto e rompiscatole. Si sono conosciuti al cheder, la scuola ebraica, e abitano nel quartiere suburbano di Mountjoy, a nord di Londra, non proprio "la terra promessa" ma piuttosto "un villaggio per pendolari dai prezzi ragionevoli, costruito negli anni Cinquanta...". Al termine dell'incontro, mentre i ragazzi si accalcano intorno al vincitore per un autografo, il padre di Alex Li si accascia al suolo stroncato da un infarto. Ma non è tanto, o non solo, la morte inattesa del genitore a segnare per Alex-Li in maniera indelebile quella giornata, quanto l'incontro con un altro ragazzetto ebreo, Joseph, collezionista tra le altre cose di autografi di personaggi famosi, politici, inventori, premi Nobel, attori, assassini e assassinati, che gli rivela un mondo sconosciuto e seducente. Questo il prologo dell' Uomo autografo: cinquanta pagine di assoluta bravura, humour e compassione in cui Zadie Smith riesce a dare il meglio di sé. L'uomo autografo è il secondo romanzo della tuttora giovanissima scrittrice anglogiamaicana, nata a Londra nel 1975, autrice del plu-ripremiato Denti bianchi (Mondadori, 2000) pubblicato a poco più di venti anni. Anche questo, come il primo, è un libro intelligente e di gradevole lettura, che tratta con tono leggero e scanzonato temi come l'amicizia, la fede, l'appartenenza. La prova del secondo romanzo, scoglio difficile per chiunque abbia ottenuto un successo clamoroso con l'opera di esordio, sembra perfettamente riuscita. La vicenda riprende quindici anni dopo, nello stesso quartiere periferico e con gli stessi personaggi, ancora legati l'uno all'altro. Alex, il protagonista (ma perché chiamarlo l'uomo autografo e non l'uomo degli autografi? E come se chiamassimo the rain man l'uomo pioggia e the newspaper boy il ragazzo giornale...), è diventato un collezionista e commerciante di autografi di discreto successo e con una tendenza all'autodistruzione. Beve, consuma anfetamine e fuma hashish, come del resto fa Adam, che gestisce un negozio di noleggio video ed è il suo guru personale. Ambedue impegnati nella ricerca spirituale, si incontrano per provare l'estasi di nuove pasticche e per discutere dell'essenza dell'ebraismo. Perché Alex - che non si è mai veramente sentito ebreo ed è ossessionato da tutto quanto riguarda i gentili - da anni progetta un libro in cui intende definire una volta per tutte ciò che è ebreo. Intende farlo un po' alla maniera di Lenny Bruce, il comico americano perseguitato dalla censura negli anni sessanta, da un cui celebre monologo è tratta l'epigrafe del rorpanzo e a cui si ispira in gran parte lo humour dell' Uomo autografo. Per Lenny Bruce la distinzione si fonda su un suo personale criterio secondo cui i negri sono tutti ebrei, gli italiani sono tutti ebrei, e lo sono persino gli irlandesi che hanno rinnegato la loro religione, mentre le ragazze pon pon sono gentili, come lo sono il fudge, il purè istantaneo e le bevande al lime. Non è impresa facile portare a compimento il progetto. Nei momenti di depressione Alex si consola pensando a Kafka, "costretto tutto il giorno in quel- l'ufficio a disegnare mani mutilate di sconosciuti, vittime di incidenti sul lavoro". Ma il tema dell'ebraismo e dell'identità e-braica che percorre l'intero romanzo (i primi dieci capitoli sono intitolati alle Sefiròt, o gli attributi mistici di Dio definiti dai cabbalisti: amore, saggezza, intelligenza, misericordia ecc., e rappresentano mete ideali nella ricerca spirituale del protagonista) serve solo da impalcatura esterna del romanzo. Quello che lo sostiene dall'interno dando corpo alla vicenda-è l'amicizia tra i vari personaggi, al di là delle loro differenze, che anzi appare rinsaldarsi proprio per effetto della compresenza nel mosaico della loro personalità di più tasselli differenti. Come già in Denti bianchi, ciascuno porta con sé il suo bagaglio di diversità e le radici sembrano contare meno degli incroci. La ricerca spirituale di Alex è parte della sua ricerca di identità, ed è nell'intreccio dei due motivi che si costruisce l'intera trama del romanzo. Confuso e lacerato tra più appartenenze, Alex, che non ha mai accettato né elaborato la perdita del padre, si trova ora di fronte all'anniversario della sua alla morte e commemorazione voluta dalla madre e appoggiata dagli amici, da Joseph, che fa l'assicuratore, da Rubinfine, diventato rabbino secondo il volere paterno, nonché da Adam, che crede nei rituali. Ma lui, in cosa crede? La professione di "uomo autografo" e il talento che gli permette di scorgere i falsi, o di forgiare lui stesso ogni tanto qualche autografo "autentico", oltre a consentirgli auto da collezione, alcol e hashish a volontà, lo mette a contatto con un sottobosco umano costituito da collezionisti o commercianti di immagini e autografi, cui si sente profondamente estraneo. Alex ha sua integrità di fondo: non fa quel lavoro per soldi (anche se ne consuma a profusione) ma per trattenere un sogno infantile, un tentativo di "negare alla Morte ciò che più la gratifica: l'oblio". Ed è per capire meglio il senso del suo lavoro e della sua vita che cercherà, nel corso di pochi movimentati giorni tra Londra e New York - la durata del romanzo -, di andare in fondo al mistero dell'autografo di Kitty Alexander, emerso dal nulla dopo che lo ha vanamente inseguito per anni. Alex ha infatti mantenuto nel tempo una ingenua e Storia magica delle Antille di Valeria Sperti Di Édouard Glissant IL QUARTO SECOLO ed. orig. 1964, a cura di Elena Pessini, pp. 299, € 9, Lavoro, Roma 2003 u Édouard Glissant, poeta, romanziere, scrittore di teatro e saggista, una sola opera teorica, Poetica del diverso, è apparsa in Italia per i tipi di Meltemi nel 1998. Il Quarto secolo rompe dunque un anomalo silenzio, offrendo al pubblico la narrazione forse più intensa del celebre autore martinicano. E il secondo di otto romanzi - il primo, La Lézarde, è del 1958; il più recente, Ormerod, del 2003 -, tutti tesi a ricostruire la storia delle Antille, una storia che trae origine, a metà del Seicento, dalle stive dei primi vascelli negrieri da cui il narratore fa emergere, come l'alchimista dal crogiuolo, il popolo antillese e la sua letteratura. Il Quarto secolo ripercorre trecento anni di vicende perlopiù tragiche, dalle deportazioni in massa di uomini dalla madre nera, l'Africa, per popolare le isole del Nuovo mondo, fino al 1945, alba del quarto secolo, cioè dell'avvenire consapevole del popolo martinicano. La narrazione tuttavia, come afferma Elena Pessini nell'introduzione, non procede lineare sull'asse temporale ma, ignara dei riferimenti storici collettivi (una cronologia in appendice aiuta il lettore a orientarsi), utilizza la magia incantatoria dell'affabula-zione per rivelare la vera storia delle Antille. E impossibile rendere conto qui del ricco intreccio di trame di amore e di morte che avvolge il lettore sin dalle prime pagine, il cui filo rosso è il racconto della vita di due schiavi nemici, Lon-goué e Béluse, imbarcati nella notte dei tempi sulla stessa nave e che, una volta arrivati a destinazione, vengono venduti a due proprietari terrieri, La Roche e Senglis, animati loro stessi da una sorda e profonda rivalità. Tuttavia, mentre Longoué - grazie allo straordinario vincolo carnale e so- vi che avevano tentato la fuga. prannaturale che lo unisce a Louise - sceglie la libertà rifugiandosi tra le montagne e diventando così uno schiavo ribelle, un marron, Béluse è costretto a servire in una piantagione. Per ben tre secoli i due lignaggi da sempre avversi si incontrano, talvolta si affrontano, uniti da un legame misterioso, fino all'epilogo che coincide col tempo della narrazione e che vede papà Longoué, stregone e ultimo discendente della stirpe dei ribelli, dialogare con Mathieu, ultimo erede di quella dei Béluse, e affidargli, attraverso il racconto delle loro intricate vicende, i ricordi delle due famiglie. Mathieu diventa dunque un ascoltatore privilegiato, poiché è giovane e ha la necessaria sete di conoscenza; le parole del vecchio stregone sono tanto più intense in quanto la sua stirpe è destinata a estiguer-si, giacché l'unico figlio maschio, Ti-René, è morto combattendo a fianco dei francesi nella prima guerra mondiale. Tutto ciò non comporta, al contrario di quanto spesso accade per altri autori postcoloniali, una sacralizzazione delle origini: da un presente agonico immaginato come una foglia ingiallita sul robusto ramo del passato, Glissant precipita il lettore con un linguaggio lucido, ruvido e profondo, che non perde di intensità nella bella traduzione italiana, nella stiva delle navi negriere, all'interno di quell'inferno che sono le piantagioni per innalzarsi tra le montagne dove vivono i marrons. Il vento che spira incessante durante il racconto diviene metafora del vento della storia che, soffiando dall'Africa alle Antille, trasfigura il discorso di papà Longoué in uno "sfarfallio di parole", un monologo lussureggiante col quale egli afferra, con un esercizio ardito di ginnastica verbale, tutti i passati che scendono verso di lui. Il Quarto secolo dà così voce alla memoria collettiva, muta o silenziosa, e ristabilisce la relazione dell'antillese con la propia storia, falsificata e annientata, percepita da Glissant come un solco, un'amputazione mentale che rimanda alla mutilazione degli arti toccata in sorte agli schia- totale devozione a una attrice hollywoodiana ormai dimenticata, scrivendole una gran quantità di lettere in cui tentava, sulla base di una scena di un film da lei interpretato, di "spiegare" quel che le passava per la mente. Per quanto dissimili nella struttura, Denti bianchi e L'uomo autografo hanno molto in comune. La lunga e intricata saga di Denti bianchi si snodava a partire dall'amicizia tra un inglese, Archie Jones, e un immigrato dal Bangladesh, Samad Iq-bal, sbocciata in un villaggio bulgaro alla fine della seconda guerra mondiale, poi trasformatasi in un rapporto di solidarietà e dipendenza in cui Samad è il maestro e l'indeciso Archie è sempre l'allievo. La forza del romanzo era nel ritmo incandescente delle sue pagine di irresistibile verve comica, capaci di rendere uno spaccato straordinariamente variegato e risonante di Londra, una Londra suburbana i cui abitanti sono il prodotto degli incroci più impensati. Nel romanzo più recente, attenuato il linguaggio grottesco della commedia, si ripropongono gli stessi temi e gli stessi luoghi, per porre in primo piano le false divisioni basate sulla razza e la religione, e il volto cangiante della Londra multietnica. Nell'Uomo autografo il tema urbano si amplia al confronto con un'altra metropoli, New York, sede di incontri bizzarri e dell'umanità più varia e disparata, ma il nostro protagonista stranamente non vi si perde, anzi riporta a casa molto di più di quanto si era prefisso. Se Alex appare fuori da ogni schema, e privo di punti di riferimento, è proprio la sua assenza di radici a renderlo abitante della sua realtà, a dargli un senso di appartenenza nelle metropoli dei nostri giorni. La prosa veloce di Zadie Smith, fatta di dialoghi infarciti d; espressioni gergali "giovanili" e inframmezzata da disegni infantili, può risultare a volte ridondante e un po' artefatta, nella ricerca continua di battute e frasi a effetto; e a volte è sentenziosa: "Le camere d'albergo sono luoghi senza Dio. Lì dentro non ti importa più di niente", oppure: "Telefoni e satelliti si sono assunti il compito che una volta toccava agli avvoltoi. Ciò che viene dopo la morte, accade al telefono". Quanto alle influenze letterarie si potrebbe snocciolare una lunga lista degli autori che hanno prima di lei rappresentato la Londra multietnica degli immigrati e dei loro figli, la cosiddetta seconda generazione, i cui echi qua e là si avvertono anche sotto forma di lieve ammiccamento, da Sam Selvon a Hanif Kureishi, da Salman Rushdie a Caryl Phillips, mentre non mancano echi di molti autori americani, da Nabokov a De Lillo, ma Zadie Smith ha trovato sicuramente la sua voce fresca e scoppiettante, - fizzing, l'ha definita Rushdie -, perfettamente in grado di esprimere la disperazione e la solitudine sempre divertendo e interessando il lettore. ■ splendor@uniroma3.it P. Splendore insegna lingua e letteratura inglese all'Università di Roma3