Scenari urbani Utili banalizzazioni di Cristina Bianchetti Nel numero di ottobre del- l'"Indice" Laura Balbo di- scuteva di alcuni libri accomu- nati da un'interrogazione sul de- stino politico dell'Europa, sotto- lineando con forza il carattere cruciale di un esercizio di prefi- gurazione di scenari come do- manda sui nostri possibili futuri. Un'interrogazione sul futuro attraversa da sempre le discipli- ne territoriali, e da qualche tem- po è tornata ad assumere la for- ma della costruzione di scenari. Progetti di ricerca finanziati dal Cnr (1 futuri della città, a cura di Giuseppe Dematteis e altri, FrancoAngeli, 1998), convegni di sociologi urbani {Scenari della città nel futuro prossimo venturo, a cura di Giandomenico Amen- dola, Laterza, 2000), workshop internazionali (Scenarios for the European city and territory, dot- torato in urbanistica, Iuav, 2002) sono esempi di un convergere di sforzi intellettuali e di ricerca sul modo di pensare al domani in chiave congetturale: un atteggia- mento che non è immediatamen- te progetto, ma prefigurazione di come possono andare le cose a partire da un'attenta compren- sione del presente. Comunque lo scenario sia costruito, ridefinisce il futuro a proprio modo; ciò che è importante è che utilizzi, per così dire, materiali autentici. Per questo esso appare, più che un modo della previsione, una for- ma di lettura portata alle sue estreme conseguenze. Le tecniche di scenario (come le teorie dei giochi) hanno radici nella strategia militare del dopo- guerra: lo ricordava Edmond Preteceille nel periodo in cui gli uni e le altre si diffondevano nel campo degli studi urbani, tra la fine degli anni sessanta e il de- cennio successivo, guadagnan- dosi un discreto successo anche grazie all'affinamento di tecni- che di proiezione e simulazione che pure oggi a noi paiono inge- nue, se non proprio sbagliate, un po' come le immagini che gene- ravano, fatte di grandi campi omogenei, frecce, nodi, confini, rappresentazioni semplificate di connessioni analitiche rigide. Il Progetto 80 promosso dal Mini- stero del bilancio e della pro- grammazione economica nel 1968 è un buon esempio, in gra- do di evocare una fase cruciale nella storia della programmazio- ne economica del nostro paese: si immaginava allora l'Italia co- me una grande rete di strutture metropolitane connesse da flussi di trasporto, particolarmente densa nelle aree pianeggianti oc- cupate per la loro interezza o quasi. Valli e coste erano scam- biate per risorse immediatamen- te disponibili a una crescita dila- gante, arginata unicamente dai segni della natura. Ad affascinare di quelle vec- chie immagini non sono tanto le discrasie o le coinciden- ze tra ciò che si pensava sarebbe stato e ciò che è stato, quanto la necessità che esse esprimevano di innovare un'immagine della società, attraverso quella del ter- ritorio: di integrare (come poi raramente si è saputo fare) eco- nomia, società e modi dell'inse- diamento. E ciò, nonostante le forme di rappresentazione fosse- ro semplificate, elementari. Co- me per il Progetto 80, anche ne- gli esercizi più recenti, lo scena- rio è in fondo un'utile banalizza- zione che guarda in avanti (o in- In primo piano dietro) nel tempo. Se pure può sbagliare per ciò che riguarda l'avvenire (o il passato), certo di- ce la verità su coloro che lo for- mulano. Per questo l'attuale at- tenzione agli scenari può aiutar- ci a capire un paio di cose che è bene tenere presenti. La prima concerne evidente- mente lo smarrimento, la diffi- coltà di costruire il futuro, an- che prossimo. Come dice Laura Balbo, l'insistenza sullo scena- rio è segno che non si sa bene dove si stia andando a parare. La crisi del modello fordista ri- mette in discussione l'idea che lo sviluppo possa essere identi- ficato con l'industrializzazione, che questa possa privilegiare la città, che l'intervento pubblico possa attenuare le implicazioni di tutto questo. Il ritorno delle baraccopoli a Milano come a Lione o Parigi è un segno che non possiamo più ignorare. Ma a questo tipo di instabilità se ne affianca un'altra che gli scenari contribuiscono a mettere in evidenza: l'instabilità ambien- tale, denunciata da un ritorno chiaro e sempre più frequente ad argomentazioni proprie delle scienze naturali. Geologia, cli- matologia, ecologia, chimica: c'è una vera e propria ansia di rico- struire quella che è stata definita la cornice scientifica delle condi- zioni urbane. Questo tipo di in- stabilità ha anch'essa a che fare con la società locale e i suoi mo- di di insediarsi, ma ha basi di- verse che si ritiene di poter esplorare a partire da angolazio- ni legate alle scienze della natura piuttosto che a quelle sociali. Una novità che gli scenari ci co- municano a mezzo delle loro se- ducenti cartoline, tese a suscita- re emozioni. Ora, il punto è che le emozioni sono sempre più spesso circoscritte allo smarri- mento: non è 0 rigore scientifico vecchia maniera a far da presa nel mutare dei racconti, quanto la speranza che le cose non va- dano così come si teme possano alla nostra povertà; noi, d'altra parte, siamo scioccati dal modo in cui vivete. Quando sono stata negli Stati Uniti mi han chiesto cosa pen- sassi del loro stile di vita. Io rispondo che non capisco come si possa essere disposti a pagare un prezzo così alto. Sono tutti chiusi nelle loro case, spaventati. Le menti sono state colonizza- te, addirittura i sogni sono stati requisiti. E ne- cessario tessere la rete dei movimenti non vio- lenti. È l'unica risorsa che ci resti, ed è l'unica guerra efficace contro il terrorismo. La resisten- za non violenta. Lei sostiene che se si verificherà una guerra nucleare "il nostro nemico non sarà né la Cina, né l'America, né nessun altro paese. Il nostro nemico sarà la terra stessa". Lei pensa soprat- tutto al suo paese, che le sembra stanco, inca- pace di opporsi, di reagire, o pensa che la bom- ba atomica porterà a una distruzione parados- salmente "democratica" del genere umano? La bomba atomica è la più democratica delle soluzioni nel senso che ha una ricaduta planeta- ria e livellante. D problema vero è quello della definizione della nozione di democrazia. In In- dia è un concetto sempre più imperfetto, tanto che rischia di essere morto. La comunità india- na si compone di diverse minoranze che non trovano più un minimo comune denominatore. Ogni partito politico, alla caccia di voti, tende a riunirle sotto l'egida di idee forti, come la ne- cessità di militarizzarsi e l'orgoglio di possedere l'atomica per competere con il Pakistan. L'e- spansione dei test nucleari è la forma più alta del nazionalismo sempre più imperante. Anche se nessuno crede davvero nell'efficacia delle bom- be, la propaganda a favore ha già fatto i suoi danni, il veleno è già stato iniettato e il Bjp ha già ottenuto il 25 per cento del potere portando avanti proprio la richiesta di maggiore militariz- zazione. In India, diciamo che è sufficiente sa- pere quale presidente sarà eletto per capire qua- le comunità sarà distrutta. Ecco perché la no- zione di democrazia è stata così irrimediabil- mente macchiata. "Amare. Essere amati. Non dimenticare mai la propria insignificanza. Non assuefarsi mai al- l'indicibile violenza e alla grossolana disugua- glianza della vita intorno a te. Cercare la gioia nei posti più tristi. Inseguire la bellezza fin den- tro la sua tana, soprattutto, guardare". Così scri- veva nel 1999. E un messaggio che vale ancora? L'India sta vivendo una degenerazione politi- ca sempre più accelerata. E in Italia ho osserva- to che le cose stanno ancora peggio. Da noi si costruiscono le dighe con la scusa che ci daran- no da bere, da voi si costruiscono i trampolini per saltare con gli sci. Ma qual è la ragione? Ve- do uno stato di prigionia ancor più terribile: la prigione nella testa. Aggiungerei, quindi, che dobbiamo cercare la verità. andare. Lo scenario è il canale di una vera e propria euristica del- la paura, reso accattivante dalle nuove tecnologie informatiche. Ricostruire la cornice scientifi- ca significa dunque cambiare narrazioni e retoriche, innovare quadri di senso, immagini della società capaci di strutturare pro- getti, azioni, strategie. Muovere dalla minaccia per cercare stra- tegie di soluzione. Il gioco della doppia congiuntura (se ... allo- ra...), si traduce in domande sempre più frequenti sulle con- seguenze della desertificazione di molte campagne meridionali; della crescita, al ritmo attuale, delle conurbazioni che orlano la costa adriatica o quella prealpi- na; della continua frammenta- zione dei brani di naturalità an- cora presenti nelle vaste zone abitate del nostro paese; dei mu- tamenti climatici e della crescen- te vulnerabilità di vaste parti del nostro territorio. La seconda cosa che il ritorno degli scenari ci dice riguarda l'Europa. Sempre più frequente- mente questi esercizi si costrui- scono in riferimento al territorio europeo. Fino a non molto tem- po fa l'urbanistica era anglosas- sone, francese, mediterranea. Quella considerata migliore, da riproporre ovunque, era nor- deuropea. Ciò che reggeva il quadro era una sorta di naziona- lismo allargato, applicato al go- verno del territorio, che induce- va a far corrispondere modi del- l'urbanistica e aree geografiche delimitate, territori certi, confini chiari. Con una conseguente predilezione diffusa per le misu- razioni (cosa conta di più), per le comparazioni (cosa è meglio), nella quale sfociava un quesito ricorrente sulla specificità delle tradizioni locali. Oggi sembra essere giunta a esaurimento, più che a compi- mento, quella linea interpretati- va. Lo sfondo torna a essere l'Europa. Non è solo questione di politiche, direttive, finanzia- menti. Né, solo, consapevolezza del mutamento di ruolo degli stati nazionali. Ma una questio- ne forse ancora più generale. Tra Europa, modernità e città si è ri- definito lungo tutto il XX secolo un circolo virtuoso che ora si sta velocemente ridefinendo. A fronte del gigantismo e della ra- pidità di trasformazione delle città asiatiche e americane, quel- le europee sono ridotte a pallido fantasma delle grandi capitali che erano state nel XIX secolo. Il primato è perduto. E tuttavia su quel primato che si era ridefi- nita l'idea di Europa, essa stessa "gigantesca grande città (...) sufficientemente ampia e variata da contenere ambienti e popola- zioni diverse (...) sufficiente- mente piccola da poter essere percorsa in un tempo relativa- mente breve", così come si dice- va già negli anni trenta. Se ora cambiano i caratteri della città, che ne è di quell'idea d'Europa, delle sue culture e identità? Sono in molti a ragio- nare su questo punto. Non che sia una questione originale, ma la forza con la quale si ripresen- ta richiede qualche attenzione, ed è questa che gli scenari ci aiu- tano a precisare. ■ c.bianchettiStin.it La Narmada a Torino di Anna Nadotti Narmada: il più antico dei set- te grandi fiumi indiani, che scorrendo per millenni hanno formato le immense pianure -del- l'India, alimentando le coltivazio- ni e nutrendo la terra, i commer- ci, gli esseri umani e gli animali. Sardar Sarovar Project: il farao- nico sistema di dighe e sbarra- menti minori che è calato sul ba- cino del fiume, mettendone a ri- schio l'equilibrio ecologico e co- stringendo i suoi abitanti a migra- zioni forzate, reinsediamenti, vere e proprie deportazioni di massa. Narmada Bachao Andolan: il movimento per la salvezza della Narmada, che da diciassette an- ni lotta per difendere i villaggi e le loro popolazioni. Torino, Festival Cinemam- biente 2002: una consistente ras- segna di documentari. A presen- tarli registi/e e la scrittrice Arun- dhati Roy (cfr. "L'Indice 1998, n. 3 e 2002, n. 4), che hanno in comune il fatto di appartenere a quella folta schiera di artisti-atti- visti che agitano la scena della vi- ta politica e socioculturale del subcontinente. Se, con War and Peace, Simantini Dhuru e Anand Patwardhan ci danno la misura purtroppo non misurabile del ri- sultato delle guerre moderne, con A Narmada Diary offrono il resoconto di una lotta che sta ora ottenendo significativi risultati. Di questa battaglia tra Davide e Golia danno conto anche Anura- gh Singh e Jharana Jhaveri con il loro Kaise ]eebo Re! Un'esclama- zione che sottolinea una doman- da non retorica: Come farò a so- pravvivere, amico mio!, si do- mandano infatti milioni di conta- dini sradicati dalle loro terre e pe- scatori che assistono al riempi- mento di intere valli da pesca. Quegli stessi contadini e pe- scatori sono stati filmati con scientificità politica e tecnica da un altro documentarista presen- te, Sanjay Kak: le immagini del suo Words On Water hanno una qualità straordinaria, direi musi- cale, dove la voce e il silenzio del grande fiume si mescolano a quelli degli abitanti delle sue ri- ve, in una malinconica ballata che si trasforma, letteralmente, in un andante con moto quando la scena si sposta sulla soglia dei luoghi di ritrovo dei potenti, e in un ironico allegretto quando, varcata la soglia, la macchina in- quadra e giustappone le facce di chi si vuole padrone del mondo e i volti dolenti e fieri di chi non accetta di vedere colonizzati i propri sogni. Sia che li si voglia sommergere con una diga, sia che li si voglia spezzare approfit- tando, legalmente, di un'occa- sione tragicamente naturale co- me il recente terremoto nel Gujarat: è il caso documentato da Rakesh Sharma con il suo di- sperante Aftershocks the Rough Guide to Democracy, che testi- monia come la democrazia possa risolversi in arbitrio e le regole in manipolazione, quando lo stato e le sue istituzioni si trasformano in avvoltoi che si posano sulle macerie in attesa di poterle tra- sformare in business. ■