Sulla tortuosa strada del passato
Parole che appartengono ai morti
di Alessandra Orsi
Riconquistare il proprio cibo
di Camilla Valletti
Aimee Bender
GRIDA IL MIO NOME
ed. orig. 1998, trad. dall'inglese di Paola Novarese,
pp. 152, €8,50, Einaudi, Torino 2002
Accolta con grandissimo favore negli
Stati Uniti, promossa da uno scrittore
in ascesa come Jonatham Lethem, introdot-
ta per la prima volta in Italia dal gruppo di
minimum fax, Aimee Bender con i suoi rac-
conti rappresenta una delle possibili
varianti dei moderni story tellers ame-
ricani. Si trovano qui tutti gli elemen-
ti tipici della fabula: fanciulle miste-
riose, sirene e folletti, cespugli par-
lanti, metamorfosi, cibi dai magici at-
tributi, fiamme e ghiacci. E personag-
gi altrettanto tipici che Bender recu-
pera quasi svuotandoli: la "donna
senza pelle", "l'uomo senza labbra",
"l'uomo con un buco nella pancia",
"l'orfano che ritrova le cose perdu-
te", "il padre dallo zaino fatto di pietra" costi-
tuiscono la costellazione di un mondo super-
reale e fortemente simbolico. Ogni spazio del
racconto, quasi ogni singola frase, sono occu-
pati da una metafora. Un gesto ne rimanda un
altro, un avvenimento ne rimbalza altri ancora,
una parola respinge altre parole. Eppure una
così fitta articolazione non produce effetti
stucchevoli.
All'ora di cena, marito e moglie a tavola:
"Osservo il cibo sparire dentro la sua bocca
ed è il mio cibo e sono stata io a comperarlo,
io che l'ho preparato, e devo farmi forza per
tenere a freno le mani perché ho voglia di sal-
varlo. Voglio salvare il mio cibo, farmi largo
con un braccio dall'altro lato della tovaglia,'
rovesciare le rose galleggianti, schivare i suoi
molari, evitare la lingua e riprendermelo in-
dietro quel cibo...". Salvare il proprio cibo,
strapparlo a chi ce l'ha rubato, riconquistare il
proprio pezzo di patata "viva". Potrebbe es-
sere una missione, una crociata, una queste
che si perde nel tempo. Potrebbe essere la ra-
gione per la quale morire, per la quale vivere.
Tutte le storie sono altrettanto estreme e fini-
scono in modo brusco e definitivo.
Alle fiabe non si addicono finali so-
spesi.
La ciotola è esemplare: una donna
riceve un regalo avvolto in un bellis-
simo pacchetto. Lo scarta scoprendo
una ciotola verde. "Che cos'è che
dovresti capire da una ciotola ver-
de?". La donna ripensa all'ultimo a-
mante, fa una doccia, considera che
il suo capo è morto proprio sotto la
doccia, si chiede se riuscirà a flirtare
con un pompiere. Si sente sola. Qualcuno bus-
sa alla porta. "Sono qui per ritirare una cioto-
la". La donna la restituisce ma d'improvviso
sente il bisogno di riaverla. Scende in strada
alla ricerca di chi gliel'ha sottratta e vede solo
tre bambini in bicicletta che "disegnano cerchi
sempre più stretti, troppo spaventati per av-
venturarsi dove potrebbero passare delle mac-
chine". Una ciotola verde, un oggetto magico
piovuto dal cielo che ci viene ingiustamente
rapinato, una ciotola verde che potremmo fi-
nire per recuperare se la paura non ci tenesse
inchiodati alla porta.
Elizabeth Rosner
A VOCE PIENA
ed. orig. 2001, trad. dall'inglese
di Adriano Solidoro,
pp. 301, € 16,40,
Mondadori, Milano 2002
Icambiamenti ebbero inizio
un mercoledì, miércoles, il
giorno della settimana il cui
nome evoca i miracoli. Mia
sorella minore Paula, la mia
unica sorella, se n'era andata,
aveva lasciato l'appartamento
proprio sotto il mio, per vede-
re fin dove sarebbe potuta arri-
vare la sua voce. Io ero rimasto
lì, con i miei undici televisori, ad
attendere il suo ritomo. Mi eser-
citavo a non provare emozioni".
E al personaggio più ermetico
che Elizabeth Rosner affida il
compito di iniziare A voce piena,
un romanzo in cui tre storie, tre
anime, tre voci si rincorrono per
raccontare modi diversi di spez-
zare il silenzio che segue a un
trauma.
Julian ci appare subito
fragile nella candida de-
scrizione della sua solitu-
dine, e la luce azzurrina
di quegli undici telescher-
mi comunica un males-
sere e insieme un senso di
inquietante irrealtà. Po-
che righe dopo è la voce
di Paula a entrare in sce-
na: "Ecco cosa sapevo fare: co-
me darmi alla fuga. Come salvar-
mi prendendo il volo, svanen-
do". E se per un attimo abbiamo
attribuito debolezza a Julian e
forza a Paula, ora capiamo che
uno stesso dolore li accomuna.
Una simbiosi malata che unisce
fratello e sorella, che apre l'uno
all'altra, escludendo entrambi
dal mondo.
Eppure Julian è un piccolo ge-
nio, di cui i professori hanno in-
tuito le capacità, affidandogli
l'aggiornamento di un Diziona-
rio scientifico, ma il compito
sembra un passo ulteriore verso
il suo isolamento. Eppure Paula
è una cantante lirica dotata di
straordinario talento, ma non sa
scacciare i fantasmi che arrivano
quando in teatro si spengono le
luci e tace la sua voce. La ric-
chezza delle loro emozioni sem-
bra insomma la trappola morti-
fera che li rende vittime. Ma di
cosa? In realtà i due fratelli sono
dei sopravvissuti di seconda ge-
nerazione: il trauma è quello vis-
suto dal padre, scampato alla
Shoah, e il suo silenzio è diven-
tato la loro condanna. Paula, la
minore tra i due, è la prima ad
aver capito che il silenzio na-
scondeva un segreto troppo du-
ro da raccontare e ha reagito
"regalandogli" la sua voce. A Ju-
lian quel silenzio è caduto ad-
dosso, e solo la nascita della so-
rella ha compiuto il primo dei
miracoli di questa storia. Ha ini-
ziato a parlare a quattro anni, ma
la morte della madre, pochi anni
dopo, ha spezzato il fragile pon-
te tra genitori e figli.
La terza voce destinata a in-
crinare questo equilibrio clau-
strofobico arriva da lontano: è
quella di Sola, una domestica
sudamericana a cui Paula chie-
de di accudire il fratello duran-
te la sua assenza. Julian osserva
con timore e fascino le irruzio-
ni di Sola nella sua casa-rifugio:
ogni gesto sembra una trasgres-
sione alle regole fobiche che si
è imposto, e anche il semplice
atto di spalancare una finestra
per arieggiare la stanza apre
una crepa nel suo muro di au-
todifesa. Eppure, quella che
sembra una ventata di vitalità,
un'iniezione di senso di realtà
per due persone che vivono
schiave del passato, è invece
portatrice di un mistero specu-
lare alla loro storia. Anche Sola
ha un segreto. Anche lei è una
sopravvissuta. Ha assistito al
massacro della sua famiglia e
anche lei si è rifugiata nel silen-
zio, anche lei è emigrata "in
un'altra lingua".
"Ero convinto che mio padre
avesse abbandonato la sua lin-
gua perché era la lingua
degli assassini, non a-
vrebbe potuto vivere
con il suono delle loro
voci dentro la propria".
Ai brani in cui fratello e
sorella ricordano le ri-
mozioni paterne fanno
da specchio i tentativi di
Sola di liberarsi dai fan-
tasmi: "Quando smetto
di parlare la mia lingua è perché
tutte quelle parole appartengono
ai morti. In inglese riesco a rende-
re tutto poetico e impersonale".
Ma sono proprio questi due
aggettivi ad aprire lo spazio che
A voce piena offre come via di
uscita verso la ricomposizione
della propria identità. Non si
resiste alla propria spersonaliz-
zazione. Per trovare uno spazio
poetico - che qui vuol dire sem-
plicemente verbale - bisogna
riaccostarsi a se stessi. Insop-
portabile è ricordare, ma la for-
za del ricordo sta nel trovare un
posto anche per i morti. Sola e
julian si incontrano, ricono-
scendo le reciproche sofferen-
ze, e insieme superano un limi-
te, quello che separa il silenzio
dalle parole.
Elizabeth Rosner, poetessa
californiana qui alla sua prima
prova narrativa, riesce a espri-
mere in modo straordinario il
valore di trasmissione della me-
moria racchiuso nell'incessante
sforzo di renderla comunicabi-
le. Nella moltitudine di voci
che riecheggiano in quelle dei
tre protagonisti, ci sono anche
quelle di chi non c'è più e che i
sopravvissuti hanno il diffici-
le compito di ricordare. Affian-
cando, senza impraticabili pa-
ragoni storici, esperienze di-
verse come la Shoah a uno dei
tanti genocidi latinoamericani,
A voce piena è un romanzo che
illumina la tortuosa ma percor-
ribile strada tra passato e pre-
sente.	■
al.orsi@flashnet.it
Odino
nel Midwest
di Alessandro Carrera
Neil Gaiman
AMERICAN GODS
ed. orig. 2002, trad. dall'inglese
di Katia Bagnoli,
pp. 528, € 16,
Mondadori, Milano 2002
Questo nuovo romanzo di
Neil Gaiman è essenzial-
mente un gothic novel ambi-
zioso e dalla premesse altiso-
nanti. Non riesce mai a ono-
rarle del tutto, ma nonostante
questo, o forse grazie a questo,
si fa apprezzare più di pro-
dotti maggiormente in riga con il
genere.
Un uomo che ha poco passato,
pochi pensieri e apparentemente
nessuna psicologia, e che infatti
non ha altro nome se non Sha-
dow, "ombra", è appena uscito
di prigione dove ha scontato tre
anni a causa di una rapina alla
quale sua moglie l'aveva convinto
a partecipare. Appena tornato li-
bero scopre che la moglie, che
aveva una relazione con il suo mi-
gliore amico, in un incidente di
macchina è morta con lui. Non
gli resta nessun motivo per stare
al mondo, ed è proprio allora che
incontra Mr. Wednesday, un an-
ziano bevitore, truffatore e sedut-
tore di ragazzine che gli propone
di lavorare per lui come guardia
del corpo. "La tempesta è vici-
na", dicono Wednesday e i suoi
strani amici, tutti bizzarri emigra-
ti dall'Europa, e Wednesday ha
bisogno di qualcuno di cui poter-
si fidare. E la tempesta, niente-
meno, è quella tra i vecchi e i
nuovi dei. Perché Wednesday in
realtà è Odino, il Wotan di Wa-
gner, emigrato in America come
tutti gli altri dei celtici, nordici,
slavi e mediterranei. Dimenticati
nei loro vecchi mondi, gli antichi
dei restano immortali, ma se non
vengono nutriti dall'adorazione
dei fedeli e da costanti sacrifici
perdono potere e si riducono al-
l'ombra di se stessi ("ombra", co-
me si è detto, è anche il nome del
protagonista). E così che hanno
preso la via dell'America, dove
sopravvivono facendo i mestieri
più umili, così come hanno fatto
per generazioni i popoli che un
tempo li adoravano.
La tempesta che si avvicina è
quella che i nuovi dei voglio-
no scatenare contro i vecchi per
toglierli di mezzo una volta per
tutte. Televisione, carte di credi-
to, mass media, Internet. Sono
questi i nuovi dei, forniti di eli-
cotteri neri senza insegne e di tre-
ni piombati dove torturano i loro
prigionieri, nella migliore tradi-
zione della paranoia americana
come ci è stata insegnata dai tele-
film di X Files. Visti da vicino, i
nuovi dei sono gradevoli: belli,
biondi, ben vestiti, sembrano tut-
ti usciti da un pubblicità televisi-
va o da una puntata di Cheers.
Il romanzo prende corpo con
grande lentezza e in una succes-
sione di episodi e divagazioni che
sfidano continuamente le pre-
messe del gothic e dell'horror. Po-
ca violenza, poco sangue, poco
compiacimento per il disgustoso.
Un lungo vagare, invece, di Sha-
dow, Wednesday e dei loro occa-
sionali compagni, per il Midwest
americano più squallido e dimen-
ticato, tra il Wisconsin, l'Illinois e
il South Dakota, alla ricerca di
giostre di paese, agenzie di pom-
pe funebri, motel diroccati, riser-
ve indiane impoverite e lindi pae-
sini che nascondono infami se-
greti. E in questi luoghi che Wed-
nesday deve reclutare gli antichi
dei e convincerli a partecipare al-
la battaglia finale. Avverrà in un
luogo turistico della Georgia, ma
"dietro le quinte del reale", senza
che abitanti e turisti abbiano il
minimo sospetto che mentre loro
stanno guardando il panorama
dalla Lookout Mountain qualcu-
no si sta battendo per il possesso
dell'anima dell'America, e anche
della loro.
American Gods, che non si fer-
ma davanti a nessuna assurdità e
che tralascia tranquillamente di
spiegare quello che sarebbe trop-
po difficile spiegare, è una lettura
intrigante proprio per la sua stra-
na torpidità, per il suo lento vaga-
re attraverso le aspettative di un
genere che vengono sempre intel-
ligentemente deluse.	■
ac43@nyu.edu