N. 7/8 2 Artigiani produttivi di Bruno Pischedda E uno studio ampio e generoso quello che Gian Carlo Ferretti indirizza ai bibliologi, ai letterati sensibili alla dimensione concreta del loro fare, ai frequentatori di master e corsi universitari specialistici. La Storia dell'editoria letteraria in Italia (pp. 517, € 22, Einaudi, Torino 2004) si offre come sintesi di un cinquantennio di lavoro editoriale (1945-2003) e insieme come ausilio per chi intenda ricostruire il profilo di singoli marchi e professionisti del settore. Vale sia in funzione di repertorio, sia come manuale storico, in cui la mole davvero ingente di notizie rischia forse di sovrastare gli snodi concettuali più delicati, dando al lettore il senso del troppo pieno, della mappatura totale, ma assicurandogli per altro verso il conforto di uno strumento di consultazione sempre attendibile e a portata di mano. A scandirne le pagine è una cronologia emblematica e persuasiva: 1945-1958 (anno del Gattopardo), 1958-1971 (morte di Arnoldo Mondadori); 1971-1983 (tracollo di casa Einaudi), 1983-2003. Altrettante tappe utili a rappresentare, in ordine, la transizione verso forme più strutturate di mercato, il boom economico nazionale e i suoi riflessi sul mondo del libro, il declino dello storicismo enciclopedico coltivato dai torinesi a favore di una nuova mistica aprogettuale di latitudine adelphiana, il costituirsi di un'industria dei contenuti che veicola la produzione a stampa nel grande mare della multimedialità. Ferretti è molto attento a non indurre visioni catastrofiche, più volte cerca di rinsaldare co struttivamente le fila del suo discorso, e tuttavia la parabola che ci viene indican-, do suscita un senso di snaturamento e di lutto. La scena secondonovecentesca si apre e si chiude all'insegna di una triade di fatti interconnessi: il tramonto dell'editore protagonista insieme con i suoi consiglieri più preziosi, i letterati editori, ossia i Calvino, i Sereni, i Debenedetti; l'emergere in loro vece del funzionario o editore incaricato, "manager di carriera extraeditoriale (e culturale)", poco propenso al carattere spassionato del fare librario e più attento al conto economico; la perdita di identità, infine, a cui la maggioranza dei marchi va incontro una volta collocate le proprie strategie nel campo dell'impresa competitiva. Ferretti sa bene che il cosiddetto editore protagonista, di cui oggi si avvertirebbe la mancanza, reca un carattere quantomeno duplice. Se in taluni casi ha sì promosso e organizzato l'alta cultura, fornendo al pubblico italiano opere preziose e durevoli, d'altra parte ha edificato grandi complessi industriali, che hanno contribuito largamente all'uniformazione e risegmentazione dei gusti di lettura. Personalità marcate e idee distinte di libro ebbero senz'altro Valentino Bompiani, Giulio Einaudi, Livio Garzanti, Giangiacomo Feltrinelli, e ora Roberto Calasso, Elvira Sellerio. Ma non meno riconoscibili sono magnati come Arnoldo Mondadori o Angelo Rizzoli o Edilio Rusconi; mentre una posizione intermedia fra ricerca qualitativa e fiuto commerciale vengono assumendo figure certamente spiccate come Leo Longanesi o Mario Spagnol. Tutto ciò Ferretti lo sa bene, anzi ce lo spiega; sicché alla sua analisi sarebbe difficile imputare una cecità insofferente rispetto alle dinamiche del mercato librario. Va piuttosto osservato che a derivarne è un ragionamento in qualche misura rigorista, manicheo, in forza del quale o il mercato lo si domina, lo si plasma, con piglio talentuoso da grande timoniere, oppure se ne resta travolti, finendo per deporre sull'altare del fatturato e delle quote qualsiasi ambizione progettuale. E ancora: difficile negare a Ferretti l'onestà civile con cui ci informa delle insufficienze manageriali anche gravi che hanno travagliato l'insieme dell'editoria nostrana. Anche qui tuttavia non si sfugge alla sensazione di un doppio atteggiarsi dello studioso, per cui le crisi finanziarie, i fallimenti, le estromissioni dolorose dalle cariche e finanche gli arresti per falso in bilancio parrebbero un dato di natura, circostanze impondera- E di tori A bili nel mondo del libro come in ogni altro comparto produttivo, mentre l'imporsi di un'editoria a vasto raggio e più aperta alle pratiche di marketing diventa un dato di cultura, o meglio di incultura, tecnocratica e omologante. 11 dispiegarsi d'altronde di un sistema editoriale modernamente attrezzato e di massa risulta in certa misura postdatato nel volume di Ferretti, spostato in là di alcuni decenni rispetto al suo incidere effettivo. L'intervento del capitale finanziario, l'individuazione di nuovi generi e sottogeneri atti a catturare i gusti di un pubblico trasversale, il rinforzo alla lettura fornito dalle trasposizioni filmiche, sono tutti fenomeni insediatisi nel Paese a partire dagli anni venti e trenta del Novecento: il ricorso alle banche da parte della Treves, di Mondadori, Bemporad, Zanichelli, la nascita dei gialli, dei romanzi rosa, la nozione di libro-evento, la vulgata biografiqp-ro-manzesca, il collegamento con la programmazione hollywoodiana nella collana "Sidera" di Rizzoli, nell'immediato dopoguerra. Con ciò non si sta imputando all'autore una carenza informativa o il mancato tratteggio di politiche librarie che restano fuori dai margini temporali stabiliti; andrebbe notato nondimeno che il trasferimento in avanti dei fenomeni di massificazione e inclusività editoriale tipici del primo Novecento viene poi a gravare sulla stessa idea ferrettiana di "apparato", in quanto strapotere esercitato da manager in tutto o in parte estranei alla cultura del libro. Ebbene - meglio dirlo con chiarezza - non è "l'apparato", non sono i Fer-rauto, i Buzzi, i Jesurum, i Polillo a pilotare il nostro complesso editoriale nell'industria dei contenuti e nella multimedialità; è piuttosto lo svolgersi pluridecennale di una civiltà di massa che vede l'imprenditore librario al bivio tra ammodernamento produttivo e rientro nell'artigianato. Nessuno intende occultare le distorsioni, i pressapochismi e le anomalie italiane di vario tipo che hanno concorso alla costituzione di un quadro certo non esaltante come l'attuale, ma questo è il dato: moderna editoria industriale o suo ridimensionamento strategico in senso neoartigianale e magari mecenatesco e assistito; e a questo medesimo dato vanno poi riferiti i processi di concentrazione orizzontale e oligopolistica manifestatisi nel Paese a partire dagli anni settanta. Forse su un punto, ingrato, decisivo, varrebbe la pena di discutere e di intendersi meglio. Ferretti considera il cinquantennio editoriale appena trascorso nel segno di una dialettica inesausta tra inclusione dei gusti di lettura e riframmentazione funzionale delle scelte; tra confluenza del pubblico verso un medesimo habitus e controspinta di indole idiosincratica, settoriale. Senonché giudica il secondo fenomeno come mero "risvolto" del primo: ci si divide - sembra intendere - giusto perché privi di una vera gerarchia di valori, giusto perché deboli, eterodiretti. Mentre è proprio un'altra scena quella che si apre, inassimilabile alla precedente, ottocentesca, romantico-positivista, fondata sull'opposizione di alta cultura aristocratico/borghese e cultura, anche libraria, per i ceti subalterni. Ora il bacino editoriale è uno, non per riduzione o disseccamento delle diversità, ma perché sono stati ricondotti a sintonia di gusto i particolarismi e i retaggi marginali, moltiplicando contemporaneamente le tipologie di offerta. Se non si coglie il fatto in sé, se non lo si accetta nella sua storicità cogente, resta poi difficile approntare strumenti di analisi che non indulgano al pessimismo. Basti vedere l'immagine di pubblico librario che l'autore ci consegna a fine volume: "un pubblico estremamente variegato, incerto, indistinto, mutevole, stravagante, influenzabile volta a volta dalle mode, dalla cronaca, dalla pubblicità, dai mass media". L'acquirente comune, il soggetto sociologico che dà da vivere a una "grande" editoria industriale è esattamente questo, è lui, sputato, noi tutti in varie forme e sensibilità ne facciamo parte, e non può essere inteso come degenerazione patologica di chissà quale Eden guten-berghiano. brunopischedda@interfree.it B. Pischedda è saggista e scrittore Alfredo Salsano (1939-2004) di Bruno Bongiovanni Era la metà circa degli anni ottanta. Un'amica italiana, che stava facendo gli ultimi ritocchi a una traduzione, e che si trovava nella ospitalissima casa parigina di Alfredo Salsano, chiese di consultare un dizionario francese monolingue. Si stupì non poco allorché Alfredo - con quella enigmatica e rarefatta determinazione che rendeva difficile capire quanto nelle sue parole vi fosse di ironico e quanto di serio - le disse di non averlo. Va a questo punto ricordato che Sai-sano non era solo uno studioso di solide e differenzia-tissime competenze. Né era solo un promotore di iniziative editoriali e librarie destinate, anche nei casi meno riusciti, a entrare con un'identità inconfondibile nella cronaca (sempre) e nella storia (spesso) dell'editoria italiana. Era anche un instancabile artigiano della cultura. Un artigiano certo non "umile", come pretende la perenne retorica paternalistica inventata da quegli editori che non entrano mai, o non entrano più, in una biblioteca. Ma pienamente consapevole dell'intrinseca natura artigianale della grande (per idee, non per numeri) editoria di cultura. Al suo attivo, tra le tante cose, aveva, e avrebbe continuato ad avere nei vent'anni successivi, una gran quantità di eccellenti traduzioni. Tutte eseguite, anche in questi ultimi anni, credo per ragioni inerziali, con la macchina da scrivere. Senza però giustificarsi - non aveva tentazioni "antimoderne" - con il supponente oscurantismo intellettualistico di chi snobisticamente aborre, per principio, il cellulare, il computer o la posta elettronica. Si consultino comunque i cataloghi delle case editrici italiane e si vedrà quanti importanti libri di saggistica economica, politica, o storiografica, sono stati tradotti da lui. Ritorniamo però all'amica. Nell'occasione un po' divertita e un po' stupefatta. Alfredo le disse anche che il dizionario non gli piaceva perché era "normativo". Conteneva definizioni. Apparteneva a un sapere descrittivamente positivistico e prigioniero dell'"eter-no ieri". Non criticamente illuministico e aperto all'ardimento e all'innovazione. A lui piacevano le enciclopedie, simili a un universo in espansione, nonché sedi di un sapere caoticamente creativo, "meravigliosamente" ambizioso, felicemente e gargantuescamente velleitario, sempre plurale, ma non "ideologicamente" pluralistico, piuttosto narrativamente digressivo, senz'altro utopistico, anzi fertilmente e operosamente fallimentare. Socratico, per molti versi. La migliore delle enciclopedie, nell'impossibilità di contenere davvero tutte le conoscenze, ti insegna infatti che sai di non sapere. Ti sollecita così ad andare avanti. Ti porta poi altrove. In mondi diversi da quelli che si inseguono aprendo macchinalmente, ma sempre con un che di febbrilmente infantile, l'enciclopedia di casa. O anche aprendo quelle, immense, che si afferrano con fatica negli scaffali delle biblioteche adibiti alle opere di consultazione. Salsano, d'altra parte, era di casa alla Bibliothèque Nationale di Parigi. Lì, assecondando una razionalità insieme imprenditoriale e non utilitaristica, e impastando con esiti sorprendenti, ai fini della sua stessa attività editoriale, la lezione di Schumpeter e di Mauss (due autori che, a partire dal "suo" Po-lanyi, ben conosceva), ha passato una gran parte del suo tempo. Con emozione ho poi appreso da sua madre, pochi giorni dopo la scomparsa di Salsano, che Alfredo, già da bambino, non si limitava a sognare a libri aperti, come tanti bambini della sua generazione cresciuti in una famiglia istruita, ma naufragava avventurosamente tra le pagine delle enciclopedie. Nato nel 1939, Salsano aveva fatto in tempo a diventare allievo di Chabod. Morto il maestro mentre era ancora studente, si laureò con l'allora assai giovane Guido Verucci, storico dell'età della Restaurazione e poi apprezzatissimo studioso della Chiesa cattolica. Viaggiando anch'egli nell'arcipelago della Restaurazione, Alfredo si gettò sui socialisti che una ripetitiva tradizione "marxista" bollava come "utopisti". Non si limitò a smontare questo logoro luogo comune e a ricostruire la modernità tecnocratica del sansimonismo. Rintracciò anche le origini "enciclopediche" e illuministiche del sansimonismo e del fourierismo. Andò a studiare in Francia. Insegnò a Digione e a Parigi. Ap-