Il doppio che t'incendia di Andrea Cortellessa Walter Pedullà IL NOVECENTO SEGRETO DI GIACOMO DEBENEDETTI pp.213,€17, Rizzoli, Milano 2004 Dell'Uomo difficile di Hugo von Hofmannsthal, Giacomo Debenedetti non possedeva, forse, solo il requisito più evidente: la laconicità prossima al mutismo. Tutt'al contrario, gli affascinanti documenti cbe ne trasmettono live la persona, a chi non ha avuto il privilegio di conoscerla se non negli scritti, concordano sulla sua eccezionale facondia, sul piacere sottile ma a volte dilagante, se non orgiastico, che procurava - a lui e a chi l'ascoltava - la sua conversazione. Specie in compagnia di uno dei suoi due spiriti guida, Umberto Saba e Bobi Bazlen, metteva in scena, Debenedetti, il più rapinoso dei teatri. Il primo gli indicava la via alla chiarezza, alla luminosità, allo scintillio dell'aforisma; il secondo lo riconduceva all'annodarsi della circonvoluzione, alla reticenza, all'erranza. Non è un caso che il mito a lui più caro fosse quello di Orfeo: la favola del processo verso la luce — e del colpevole, irresistibile rivolgersi alle tenebre. Nei suoi scritti, nei meravigliosi Saggi prima e nei grandi Corsi universitari poi, ebbe il dono di congiungerle - quell'oscurità e quella luce -: l'una eco attonita dell'altra. WMTKR HHifJU mento ". on cui Debenedetti illuminava una cifra di stile". A volte vorremmo chiedere al testimone supplementi d'indagine, su certi "misteri" appena sfiorati (dal silenzio del critico su uno scrittore che molto poteva essergli congeniale come Gadda alle sue perduranti riserve su Svevo, sino al cieco accondiscendere, come nel '56, ai più catastrofici dogmi del Pei). "Non aspettatevi un Novecento 'proibito'", avverte però Pedullà: "di quello che non può esser detto è opportuno tacere" - e così restano nella penna motti feroci dovuti a malumori passeggeri. Un'altra sorpresa non riguarda Debenedetti ma Pedullà. Ed è la sua scrittura. "Se non sarai uno scrittore, non sarai nemmeno un critico", il primo aveva ammonito il secondo. Ed è infatti sulla scrittura - una scrittura che porta al calor bianco la temperatura metaforica del maestro, sino a scherzare col fuoco del paradosso - che il critico Pedullà ha sempre puntato. Senza peraltro mai scivolare nella critica da artista. È quella di critico narratore - definizione di Sanguineti nella quale il maestro si compiacque di riconoscersi -, semmai, la cifra di Pedullà. Ma questo narratore adotta, stavolta, uno stile che non gli conoscevamo: una scrittura piana, che evita le illuminazioni e gli sbalzi dell'alta tensione metaforica per adottare una postura riverente, quasi cerimoniale: funzionale ad avvolgere le parole del maestro, certo, ma che forse è scelta anche per più del solito concedersi qualche grado di commozione (o piuttosto d'indignazione: arrivati alla vergogna delle bocciature universitarie che, secondo Pedullà, "uccisero" Debenedetti). Quando l'allievo gli porta il manoscritto della sua tesi di laurea, Debenedetti nota con N. 1 Narratori italiani racconta il momento in cui, assistendo a una lezione su Svevo, improvvisamente comprese il proprio destino: "Da allora seguii quel professore col fervore incantato con cui Breus si mise sulle orme del cavaliere errante incontrato per caso nella selva di Corno-vaglia". È un canto popolare bretone, una volta tradotto da Pascoli: Breus è il nome d'eroe che prende il giovane Morvàn quando, incontrato "tra cerro e cerro" la splendida armatura di "un uomo tutto ferro", decide di seguirlo nelle sue avventure. Passano dieci anni, e un giorno al castello avito si presenta un altro misterioso uomo d'arme; una "donzella (...) appena lo guardò, ruppe in pianto". Piange, spiega, ogni volta che veda un cavaliere; gli ricorda la partenza, or son dieci anni, dell'amato fratello: allorché la vecchia madre "morì dal dispiacere / quand'e' partì per farsi cavaliere". Solo allora questi, commosso, rivela la propria identità -è lui Morvàn, lui Breus: "son pien di gloria: / ogni giorno ho contata una vittoria: / ma se potevo indovinar quel giorno, / che non l'avrei veduta al mio ritorno, / o sorellina, non sarei partito!". Questa fiaba d'incantato candore dice molto, forse, di come Pedullà veda - nel maestro, certo, ma forse non solo in lui - il tormentato rapporto fra il Dover Essere di una missione critica - vocazione secolarizzata - e il rimpianto segreto di una vita "normale", consegnata agli affetti e a doveri meno corruschi: che si rivela, però, ormai impossibile. In ogni critico, forse, Convivono l'orgoglio di un Breus -"uomo tutto ferro" nell'agone delle lettere - e il rimpianto di un Morvàn - che vorrebbe non essere mai partito, che rivorrebbe indietro quel che più non tornerà. Le armi luccicanti di Debenedetti erano a loro volta secolarizzate nella prosa del quotidiano. Come Zeno che Due forme Walter Pedullà, il suo discepolo più fedele - tra Messina e Roma, fra il '51 e il '67, fu consuetudine quasi quotidiana -non poteva più rinviare l'appuntamento di riprodurre quella voce leggendaria: nel suo passo, a volte quasi di marcia, più spesso incerto e brancolante; nel suo accompagnarsi con minimi, eloquenti cenni del corpo (uno stringersi di denti, "un sorriso che era un morso", acciaio nel fodero del garbo subalpino; un piegarsi di tono, nel "cortese massacro" di un innominato giovane critico al pretenzioso esordio narrativo; un muovere le mani in aria, a inseguire "la forma dell'informe" - e quelle di Bazlen, che proseguono le linee di un Mondrian...). Ne è uscito un libro affascinante e, per più versi, sorprendente. Com'è caratteristico di Pedullà, siamo più nel versante luminoso che in quello di tenebra (è quasi un ossimoro, "solare magia", quello che impiega l'allievo per definire le interpretazioni del maestro); dalle pieghe più riposte di certi saggi, "francamente 'insolubili"', saltiamo alle sintesi-clausola, ai "fermagli" del ragiona- Sono critici-scrittori Pedullà e Klobas, Debenedetti e Cordelli e Be-rardinelli, che si raccontano raccontando d'altri ed esercitano i loro strumenti anzitutto su se stessi. I protagonisti della critica diventano anche personaggi da romanzo. (Insieme con loro, ma un po' diverso, Gentiloni). C'è bisogno di più voci (sovrapposte, sconnesse) per dir qualcosa di sé. Senza veti identitari. La testimonianza di Gentiloni, in questi tempi di ritorno del sacro, può apparire oggi minoritaria. Ma è così? sorpresa che "a lungo andare diventa la scrittura di un altro". Commenta oggi lo studente di allora: "avevo una scrittura doppia (...) sarà colpa della lettera doppia con cui inizia il mio nome, ma non mi dispiace che in me alberghi un secondo scrittore". E doppio, si sa, è un nome del-VAltro. E si ricorderà pure come, per certa tradizione di pensiero ebraica, proprio nel nome sia custodito il segreto di una persona (da brivido un ricordo della Roma del '44, quando ci si nasconde dagli occupanti nazisti; d'improvviso per strada s'ode un grido: "Debenedetti! Debenedetti!"; "era la voce di un amico o la voce cordiale del delatore che ti denuncia in piazza ad alta voce?"). Assai pregiava Maupassant e "l'Altro" dell'amico Savinio, Debenedetti; e ci si chiede se questa doppiezza non possa fornire qualche indizio per scoprire il segreto: se non del biografato, del biografo. Del quale incuriosisce, per esempio, la similitudine con cui non riusciva ad amare, era un fumatore maniacale: ottanta sigarette al giorno. Con quelle sigarette, scrive Pedullà, "stava dandosi letteralmente fuoco, dall'interno: la vecchia nevrosi, il recente fallimento politico, l'inesorabile smacco personale". Quando un medico gli consiglia di usare un portasigarette col timer che s'apra ogni mezz'ora, Debenedetti ne acquista due: così, sfalsandoli di un quarto d'ora, c'è appena il tempo di finire la sigaretta presa dal primo che ne arriva una dall'altro. È l'ennesima figura doppia (innocua in apparenza; in realtà micidiale) - di reticente connivenza con un se stesso altro, segreto -nella vicenda di quest'uomo. Uno che non scrisse mai romanzi (l'esordio Amedeo, schiacciato da Proust: quello che resterà l'autore della sua vita). Certo molti ne lesse; e, diversi di questi, come nessuno prima o dopo di lui. Ma a leggere queste pagine appare proprio lui, a sorpresa, il più tormentoso dei personaggi da romanzo^ cortellessa@mclink.it A. Cortellessa è dottore in italianistica all'Università "La Sapienza" di Roma d'esperienza di Giorgio Patrizi Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli IL PUBBLICO DELLA POESIA Trentanni dopo pp. 332, €18, Castelvecchi, Roma 2004 Non è un fatto da passare sotto silenzio la riedizione, da parte di Castelvecchi, di un'antologia storica qual è Il pubblico della poesia, firmata nel 1975 da Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli: è un documento importante di quella fase che segnò il passaggio dal dibattito e dalle esperienze della neoavanguardia a quella lunga fase di fuoruscita dallo sperimentalismo degli anni sessanta verso una pratica di poesia, polimorfa, diffusa, contraddittoria, che segnò i decenni successivi e la cui onda lunga non si è ancora del tutto smorzata. L'operazione - siglata da un sottotitolo (Trent'anni dopo) che accende la nostalgia o una curiosità "d'appendice" - è dovuta a Giorgio Manacorda, che qui firma la quarta di copertina e che accompagna questo volume con altri due di cui è immediatamente l'ispiratore. Questo per sottolineare come la riedizione costituisca un'operazione "d'autore", fortemente segnata dall'intenzione di Manacorda di riconsiderare le esperienze di un recente passato. Gli stessi percorsi dei due autori dell'antologia non potrebbero essere più diversi, come d'altronde sono diversi i modi in cui guardano a quel libro di trent'anni fa. Franco Cordelli, narratore e saggista d'intelligenza intrigante e capziosa, distilla una letteratura come riflessione costante sulle dinamiche di una quotidianità avvertita per lo più come ostile, conflittuale, ma di cui si è irrimediabilmente corresponsabili. Così Cordelli, introducendo questa riedizione dell'antologia, dopo averne dichiarato il valore di monumento - tra la nostalgia e l'ineluttabilità - alla militanza, ne ricorda, dell'antologia, la "caratura tutta speciale" che le deriva dall'essere contemporanea agli eventi, tragici, che inaugurarono un'epoca, negli anni settanta e nel decennio successivo, che segnò profondamente il nostro paese, dal terrorismo all'avventura craxiana: l'antologia "di quel tempo è un piccolo rifles-ma ne è pur sempre, nei so suoi modi, una testimonianza. Ben diversa è la posizione dichiarata da Berardinelli. Quanto Cordelli ammette i rapporti non esorcizzabili con la neoavanguardia, tanto Berardinelli non perde occasione per affermare l'irriducibile ostilità con il mondo dello sperimentalismo, delle strategie, delle "tendenze". Rispetto a ciò che, negli anni sessanta, sembrava l'unico programma possibile per chi volesse fare poesia ("proporre se stessi, scrive Berardinelli, come la soluzione più avanzata del problema dell'arte era un gioco che ancora piaceva molto"), ecco un'antologia "che accettava di accogliere una pluralità di tendenze", testimoniando "la pluralità e la compresenza di scelte e soluzioni". Insomma, una poesia che "nasceva ormai fuori dall'autocoscienza storica". Da questo però deriva — come scrive lo stesso Berardinelli - che, dopo trent'anni, invece che pluralità e compresenza di tendenze, c'è piuttosto una vera e propria confusione critica: e dunque la necessità, ripartendo proprio da queste pagine, di ripercorrere letture e giudizi di questi tre decenni per verificare quanto tengano ancora testi, personaggi, linguaggi. Il saggio con cui lo stesso Berardinelli introduce il volume, fra tecnicismi d'epoca e prospettive cautamente postmoderne - come l'(a1-lora) obbligatoria citazione barthesiana nel titolo Effetti di deriva - indica percorsi di-MgT versi, distanti, tutti te-si a soppiantare l'epoca dell' experimentum con quella, recuperata, dell '"esperienza vissuta" e del "problema della sua forma". La pluralità dei linguaggi sembra volere essere l'orizzonte su cui meglio si definisce il senso dell'operazione: e vi troviamo, appunto, poeti attivi su prospettive molteplici, di cui lo "schedario" conclusivo, insieme all'intervista iniziale, indica biografie intellettuali diversissime. Da Conte a Cucchi, da Frabotta a Greppi, da Orengo a Davico Bonino, Bellezza, Spatola, Zeichen, Maraini, Cavalli, Viviani, De Angelis, Scalise, Lolini, Lamarque, per un totale di quarantadue autori, che poi diventano sessantacinque nelle schede. Ma - a proposito delle presenze -ciò che rende più perplessi è un assai curioso turnover di testi. La responsabilità di questa scelta sembra essere di Cordelli che, in nota, richiamandosi ancora una volta al carattere in progress dell'antologia, parla di uno "spostamento dell'obiettivo" per giustificare il cambiamento di alcuni autori antologizzati: al posto di cinque poeti- presenti nell'edizione '75, altri cinque nuovi. Con quali criteri di scelta non è chiaro, come non è chiaro il senso di tutta la sostituzione: si spera che non si tratti di un mob-bing dovuto a faide di parrocchia o ad antipatie insorte nel frattempo. Il tutto appare una testimonianza d'antan-, album di famiglia sorprendente, strategie dei due curatori che indicano come i loro itinerari siano stati, da quel momento, quasi opposti. Cordelli teso a un lavoro letterario via via più concentrato su un'idea di militanza come rovello e come scavo, aspro e poco cordiale, dei linguaggi e delle forme; Berardinelli proiettato verso un ruolo "trionfante" del critico che attraversa testi, epoche, personaggi per inseguire una sua personale idea di centralità della critica come sistemazione razionale, magari eccentrica e provvisoria, dell'esistente. ■ giorgio.patrizi@uniromal.it G. Patrizi insegna letteratura italiana all'Università del Molise