Il fascismo tra parentesi e totalitarismo Un'associazione a delinquere di Bruno Bongiovanni All'inizio di questo 2005 è stato ricordato sui giornali, in occasione dell'ottantesimo anniversario, il discorso di Mussolini alla Camera del 3 gennaio 1925. Secondo un giudizio pressoché unanime, il discorso, ponendo di fatto in essere l'organizzazione dello stato totalitario, sancì l'inizio effettivo e irreversibile della transizione da uno stato liberale ormai disastrato al regime fascista vero e proprio. Incarnò del resto un momento realmente decisivo, anche se per il compimento della transizione ci sarebbero voluti ancora quasi due anni. Pronunciato dopo l'esaurirsi delle opportunità antifasciste apertesi con l'indignazione suscitata dal delitto Matteotti, il discorso del 3 gennaio si trova citato anche nell'utile sintesi di uno storico di gran peso come Giampiero Carocci (Storia del fascismo, pp. 207, € 7,90, Newton & Compton, Roma 2003). Con le sue parole - "se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere" -Mussolini, assumendosi ogni responsabilità, e anticipando che non ci sarebbero più stati spazi politici al di fuori del fascismo, si rivolgeva soprattutto a quei pezzi consistenti di classe dirigente, e di classe politica (in primo luogo liberali e popolari), che lo avevano sino ad allora, magari turandosi il naso, appoggiato in chiave antisocialista e in nome dell'ordine, o anche - come si direbbe oggi - della "governabilità". Il giorno successivo, a testimonianza del disagio dilagato tra i fiancheggiatori, si dimisero dalla compagine governativa Alessandro Casati e Gino Sarrocchi (liberali) e addirittura Aldo Oviglio e Alberto De Stefani (fascisti). E dunque comprensibile che non siano pochi quanti ancora oggi sostengono che con il discorso del 3 gennaio ebbe inizio "la dittatura". In realtà, secondo la dottrina fascista calata nelle voci del Dizionario di politica del P.N.F. (1940), con questo discorso ci si avviò verso la fine della dittatura, che fu una magistratura 'provvisoria e che durò - con il consenso (talora obtorto collo) degli alleati - dal 1922 al 1926. In quest'ultimo anno, in cui fu posto termine a una movimentata e interlocutoria fase necessariamente "pluralistica", si era contestualmente giunti all'edificazione dello stato monoliticamente "organico" o "totalitario". Credo che si debba prestare, almeno a questo proposito - siamo qui su un terreno teorico più che ideologico -, il massimo dell'attenzione all'autointerpretazione e alla pe-riodizzazione fornite da quei fascisti che si sforzarono di concet-tualizzare la propria vicenda. A questo punto - anche documentandoci con i libri e i dibattiti più recenti sul fascismo -non possiamo esimerci dal rilevare alcuni paradossi. Prima, però, torniamo alle letture "clas- siche" del fascismo, tutte antifasciste, esposte nella sin troppo semplice (e per questo fortunatissima) tripartizione proposta da Renzo De Felice - si vedano a questo proposito le Interpretazioni del fascismo (Laterza, 1969). Sullo storico, e sul personaggio, è ora comunque ineludibile l'agile e penetrante profilo di Emilio Gentile, Renzo De Felice, pp. Vili-174, € 10, Laterza, Roma-Bari 2003. Ed ecco le letture; 1) la socialista (o comunista), che individua nel fascismo lo strumento armato di contrattacco predisposto dalle classi possidenti minacciate nel dopoguerra dall'agitazione proletaria, e disponibili, onde conservare il potere economico e sociale, a disfarsi di democrazia e liberalismo; 2) la radicale (o gobettiana, o azionista, o repubblicana), che individua nel fascismo-autobio-grafia della nazione la "rivelazione", e il capolinea, di un percorso nazionale segnato da penalizzanti lacune e da illiberali contraddizioni; 3) la liberale (o crociana, o "parentetica"), che individua nel fascismo l'effetto pernicioso del deragliamento della storia italiana e della negazione -antiliberale - del processo, moderato e progressivo a un tempo, avviato dall'Italia tra l'unificazione risorgimentale e l'avvento del fascismo. Proprio quest'ultima lettura, dimostratasi sul terreno della ricostruzione l'anello interpretativo più debole, è quella che è stata presa di petto e di fatto demolita dalla storiografia e soprattutto dall'opera di De Felice. Non si può non pensare però che proprio la teoria della "parentesi" ha permeato, indipendentemente da Croce, il sentire comune. Il fascismo, cioè, fra i tre segmenti della vicenda unitaria (il liberale, il fascista, il repubblicano), è sembrato a lungo, agli italiani, radicalmente "diverso" ed estraneo rispetto agli altri. E ciò vale tanto per gli Altri libri: sull'antifascismo Antifascismo e identità europea, a cura di Alberto De Bernardi e Paolo Ferrari, pp. 484, € 34,40, Carocci, Roma 2004. Patrizia Gabrielli, Col freddo nel cuore. Uomini e donne nell'emigrazione antifascista, pp. 199, € 22, Donzelli, Roma 2004. Sergio Luzzatto, La crisi dell'antifascismo, pp. 105, € 7, Einaudi, Torino 2004. Paolo Palma, Una bomba per il duce. La centrale antifascista di Pacciardi a Lugano (1927-1933), pp. 402, € 20, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 2003. Gianpasquale Santomassi-mo, Antifascismo e dintorni, pp. 319, € 24, manifestolibri, Roma 2004. antifascisti che per i fascisti (e direi anche per l'area degli apolitici e della cosiddetta "zona grigia"). La formula della "parentesi", certo, è stata espressa, nel 1944, senza alcun calcolo teori-cistico, e con evidente nostalgia per un'Italia ormai scomparsa, da un pur prestigiosissimo intellettuale settantottenne. Ha tuttavia rappresentato al meglio l'elementare immagine del passato fascista che gli italiani, intellettuali e no, conoscitori o meno di Croce, di destra e di sinistra, spontaneamente producevano e volevano vedere. Anche la lettura socialista e la lettura radicale non sono oggi più proponibili come "assoluti". Ma è impossibile negare che il fascismo sia stato anche il prodotto di una reazione sociale, così come è impossibile negare che il fascismo abbia avuto robuste radici anche nella vicenda della storia unitaria, negli anni venti ancora assai breve quanto a durata. Restano così in piedi le ipotesi legate alla continuità tra prefascismo liberale e fascismo, così come tra fascismo e classe dirigente repubblicana. Il che, e sia pure sen-'oltranzismo di za un e nazionalsocialismo, è stato perplesso dinanzi all'uso della categoria del "totalitarismo" a proposito del fascismo italiano. Sino a negarne la praticabilità. Tale categoria è stata ripresa con vigore da Emilio Gentile, del quale si veda ora II fascismo in tre capitoli, pp. VII-133, € 9,50, Laterza, Roma-Bari 2004, che riproduce la prima parte del precedente Fascismo. Storia e interpretazione (Laterza, 2002; cfr. "L'Indice", 2003, n. 7). In poh-mica con quanti oggi, estremizzando oltremodo l'impostazione di De Felice (sino a stravolgerla, tempo, consente ancora, sul piano politico, e con tutta la cautela del caso, di attribuire gravi responsabilità alla classe dirigente liberale che favorì l'avvento del fascismo. Consente anche di rintracciare tracce non cancellate del precedente regime nell'impianto giuridico-amministrativo dell'Italia democratica. De Felice, volendo normalizzare il fascismo, restituirlo alla storia d'Italia, e far passare un passato che non passava, non ha potuto scalzare, se non nella loro già declinante forma onniesplicativa, le letture numero 1 e 2. Ha invece contribuito, in modo decisivo, a rendere del tutto improponibile la teoria del fascismo come parentesi. L'unica che, paradossalmente, rendeva impossibile ogni ipotesi continuistica. L'unica che, soprattutto psicologicamente, gli italiani, con finalità inconsciamente autoassolutorie e deresponsabilizzanti (finalità che non erano quelle di Croce), avevano trasversalmente accolto. Al di là delle oggi esageratamente e strumentalmente enfatizzate polemiche congiunturali attizzate all'uscita di ogni volume di De Felice, è così scattata, negli anni, l'eterogenesi dei fini. De Felice voleva raffreddare l'oggetto della sua ricerca e l'ha invece surriscaldato. Apprezzato progressivamente dai moderati antifascisti (o comunque non fascisti), De Felice ha spazzato via l'unica teoria moderata, peraltro alla lunga insostenibile, che permetteva, perché universalmente accettata, o tollerata (persino, più o meno subliminalmente, da socialcomu-nisti e azionisti), di chiudere il fascismo in uno spazio e in un tempo blindati daila presenza confortante della parentesi. Non ci si deve dunque stupire se De Felice, così come ha rifiutato ogni paragone volto a far emergere un'affinità tra fascismo ma ponendosi tuttavia sullo stesso binario), alimentano la tendenza a "defascistizzare il fascismo", Gentile sembra quasi accostarsi a quella storiografia tedesca che, in merito al dibattito sul nazionalsocialismo, è stata definita "intenzionalistica". Il 3 gennaio 1925, da cui siamo partiti, non fu per lui il prodotto dell'improvvisazione e delle tumultuose e imprevedibili anse della storia di quegli anni. Fu il prodotto perfettamente logico del 28 ottobre e di un progetto intenzionalmente "rivoluzionario", talora interrotto, ma sempre ripreso, e mirante a condurre il partito-milizia alla realizzazione dello stato totalitario. Riemergono così, in forma insieme originalissima e paradossale, e grazie proprio alle categoria del totalitarismo, la parentesi e la blindatura di un arco storico. Frutto non più, come in Croce, di una oggettiva "malattia morale", o di un'oscura e brutale invasione barbarica, ma di una soggettiva volontà politica postasi costruttivisticamente in movimento. 11 fascismo, se anatomizzato nella sua compatta to-talitarietà, torna così a presentarsi come un irripetibile unicum - senza un vero passato e senza un vero avvenire - nella storia d'Italia. Non si può negare che la cosa sia assai sollecitante sul terreno della ricerca storica. Ma arriva forse tardi sul terreno politico e civile. La rude e tuttavia ben accolta armonia poststabili-ta di Croce è ormai perduta. Il fascismo, non più prigioniero degli incantesimi della parentesi, viaggia avanti e indietro, e al momento con disinvoltura davvero eccessiva, lungo tutta la storia d'Italia. Difficilmente, del resto, nell'Italia di oggi, uno storico, sia pure con i notevolissimi talenti di Gentile, può ricomporre quel meccanismo autosufficiente e rassicurante che De Febee, avvalendosi della sua caparbia acribia archiviocentrica, ha minuziosamente smontato. Le strade percorse da altri libri recenti sul fascismo sono spesso lontane - ma forse solo in apparenza - da queste tematiche d'ordine tassonomico. Gli inglesi, maestri nell'arte della biografia, continuano empiricamente a interrogarsi sulle ragioni del successo di una personalità tanto modesta e votata allo scacco come quella del duce (Richard J.B. Bosworth, Mussolini. Un dittatore italiano, ed. orig. 2002, trad. dall'inglese di Pietro Spinelli, pp. 636, € 22, Mondadori, Milano 2004). Mussolini, per esempio, credeva di capire il tedesco e quando conferiva con Hitler non voleva un interprete. Non capiva in realtà alcunché e restava afasico e ipnotizzato, "come il topo con un serpente", quando il Fùh-rer, invasato, gli parlava per ore. Ce lo ricorda, in un libretto assai pungente, Denis Mack Smith, A proposito di Mussolini, pp. 56, € 5, Laterza, Roma-Bari 2004. D'altra parte, a differenza di quel che si è creduto sinora, fu il topo ipnotizzato a fortissimamente volere la traduzione italiana, presse-Bompiani, nel l'934, del Mein Kampf del serpente ipnotizzatore (Giorgio Fa-bre, Il contratto. Mussolini editore di Hitler, pp. 236, € 15, Dedalo, Bari 2004). Se poi si rammenta che il fascismo fu sì un totalitarismo, ma imperfetto, allora si deve anche rammentare che non fu imperfetto solo per la presenza di due istituzioni che non tentò neppure di sottomettere: la monarchia e la Chiesa. Anche sul terreno della cultura è possibile infatti scorgere servile complicità, nico-demismo ed equivoca contiguità, più che effettiva compenetrazione (Emily Braun, Mario Si-roni. Arte e politica in Italia sotto il fascismo, ed. orig. 2000, trad. dall'inglese di Anna Bertolino, pp. 388, € 48, Bollati Boringhie-ri, Torino 2003; Roberto Malocchi, Scienza e fascismo, pp. 207, € 16,70, Carocci, Roma 2004; Vito Zagarrio, Cinema e fascismo. Film, modelli, immaginari, pp. 316, € 25, Marsilio, Venezia 2004). Se poi si vuole braccare il fascismo oltre il fascismo, nella parabola che va dalla Rsi ad An, non si può sfuggire alla lettura della raccolta di articoli, spesso acuti, di Alessandro Campi, Il nero e il grigio. Fascismo, destra e dintorni, pp. 584, € 15, Ideazione, Roma 2004. Il 3 gennaio 1925, con un mediocre tiranno che alza la voce e un popolo ormai stanco e sciaguratamente disposto a obbedire, resta tuttavia sempre lì, abbacinante nella sua evidenza ed enigmatico nella sua essenza. ■ bruno.bon@libero.it B. Bongiovanni insegna storia contemporanea all'Università di Torino