Deragliamento postmoderno di Pierpaolo Antonello Paul Auster LA NOTTE DELL'ORACOLO ed. orig. 2003, trad. dall'inglese di Massimo Bocchiola, pp. 201, € 16,50, Einaudi, Torino 2004 Gli Stati Uniti sono indubbiamente lo spazio geografico e culturale in cui la grande combinatoria delle storie del nostro tempo ha luogo in maniera ipertrofica. L'estrema mobilità sociale, la disarticolazione dei vincoli interpersonali, la parcellizzazione anomica prodotta dall'individualismo "metodologico", la perdita di "senso comune" mettono in moto una macchina permutativa che produce storie che hanno tutta l'apparente irragionevolezza del caso. Paul Auster lo sa benissimo e lo ha dimostrato non solo con i suoi romanzi e i suoi film, ma meglio ancora con quel National Story Project ideato per Npr, la radio pubblica americana, con cui lo scrittore newyorkese ha chiamato a convegno la vena narrativa di centinaia di vite americane, poi raccolte e riscritte in Ho pensato che mio padre fosse Dio (Einaudi, 2002). Anche in questo suo nuovo romanzo, La notte dell'oracolo, Auster ricorre al suo deus ex machina preferito: il caso, vera e propria invenzione concettuale della modernità, che ridirige e riorganizza le nostre vite, rendendole creative, e producendo inattese novità epifaniche. Al naturale permutare della vita, si aggiunge infatti - come altra categoria privilegiata della modernità - l'ontologizzazione del "nuovo", per cui reinventarsi diventa una sorta di imperativo categorico, di possibilità che viene sempre offerta all'individuo. D'altro canto in una crescente standardizzazione delle nostre vite, questa spinta agisce da strumento compensatorio, come modo per recuperare o almeno aprirsi a un senso ulteriore. A questi due paradigmi del. moderno l'autore della Trilogia di New York sembra adeguarsi in maniera esatta anche in questa nuova opera. Ma al di là di essere l'espressione sociologica di una certa America, il limite che si pone nell'uso così insistente del caso come espediente romanzesco è di ordine meramente quantitativo: Auster ha collezionato così tante storie "incredibili", così tante coincidenze "significative", da renderle pressoché normative. Nelle macchine narrative dello scrittore statunitense il caso non è tanto un elemento fortuito ma necessario nella costruzione causale di ogni narrativa e di ogni esperienza. E se qualcuna delle storie di Auster può ancora risultare marginalmente sorprendente, una casualità così ridon- Norre DCU'orocol. dante non può che generare alla fine un sensc di meccanicità, di stanchezza espressiva. Come II libro delle illusioni (Einaudi, 2003), La notte dell'oracolo riprende poi un altro tema dell'Auster recente: la convalescenza, il recupero dopo una malattia quasi fatale, metafora di una più generale destrutturazione esistenziale. Il protagonista del libro, Sidney Orr, cerca di mettere insieme sia i pezzi sparsi della propria malfunzionante fisicità, sia quelli della propria vita professionale (il classico writer's block) e personale (i debiti, il passato elusivo ed enigmatico della moglie). Viene qui riproposto il topos dello scrittore in crisi che, attraverso la ritrovata vena creativa, cerca un percorso oracolare, ovvero di costruzione di un senso, di una narrativa coerente: partendo dai brandelli del suo vissuto, giustapposti come pezzi di un mosaico eteroclito, ma soprattutto come pezzi di romanzi e di storie che sembrano scendere come festoni dal soffitto di una New York in minore, Orr ritrova una visione coerente, un nuovo modello ermeneutico per la sua vita post-trauma. Il cognome stesso del protagonista (abbreviazione del polacco Orlowski) denota, in quella congiunzione disgiuntiva, la pluralità potenziale del personaggio, dove fili esistenziali agiscono parallelamente a trame narrative che sono possibilità intrinseche del vissuto e del narrato, mantenendo il lettore indecidibilmente in bilico tra finzione e realtà. E-mergono così tinte vaghe da romanzo gotico, ma senza che il senso di uncanny riesca veramente a prendere il sopravvento nella mente del lettore, che rimane immerso piuttosto in un senso generale di implausibilità. La concatenazione logica dei fatti non gioca tanto attraverso la casualità, ma vira verso l'arbitrarietà. In un autoriferimento intertestuale il motore del romanzo è poi un taccuino blu, attraverso il quale Sidney ritrova improvvisamente ispirazione, con un'allusione fin troppo ovvia a quel Taccuino rosso dove Auster aveva già raccolto storie più o meno vere (Il nuovo melangolo, 1994). La sensazione che si ha nel leggere La notte dell'oracolo è che Auster avesse nel proprio taccuino (blu o rosso che fosse) alcune tracce sparse di plot, idee buttate giù negli anni, che ha cercato di mettere assieme inscatolandole secondo il più classico degli intrecci postmoderni di romanzo nel romanzo, ma senza la geometria calcolata di un vecchio maestro come Calvino. Tutto l'armamentario del citazionismo postmoderno - dal film di fantascienza, al romanzo storico, dall'episodio di cronaca simil-pulp, al manoscritto inedito ritrovato per caso — nel caso di Auster sembra deragliare in una sorta di involontario pastiche digressivo, senza avere una matrice strutturale di convincente tenuta narrativa. ■ paa25@cam.ac.uk P. Antonello insegna letteratura italiana contemporanea all'Università di Cambridge Letterature Un fantastico da epopea di Lara Fortugno Rudolfo Anaya IL SILENZIO DELLA PIANURA ed. orig. 1982, a cura di Michele Bottalico, trad. dall'inglese di Lucia Lombardi, pp. 183, € 12, Palomar, Bari 2004 Vengono tradotti nella collana "La Vigna Nascosta" questi dieci racconti del llano (l'immensa prateria tra il New Mexico occidentale e il Texas settentrionale). L'aspetto più interessante è senza dubbio l'uso del fantastico, analizzato in quell'ottica di ridefinizione che anima ormai da qualche decennio il dibattito intorno alla letteratura e, più ampiamente, all'identità americana. È interessante provare a scardinare la categoria tranquillizzante del regionalismo e vedere come la frontiera, che ha cessato di essere quel redditizio strumento di palingenesi e purificazione dell'espansionismo Wasp, risponde ora cercando il proprio alternativo centro mitico, lontano anni luce dal polo magnetico imposto dalle pressioni politico-econo-miche. L'ottima introduzione non manca peraltro di ricordare la forte spinta identitaria racchiusa in ogni ritorno all'epopea, citando figure fondamentali della letteratura anglofona europea del Novecento come Yeats e McDiarmuid. Il primo racconto, che dà il titolo alla raccolta, è dedicato a una quiete densa di fantasmi che segna l'esistenza del profagoni sta, Rafael. È il silenzio naturale degli spazi sconfinati, che i radi villaggi di adobe non sono sufficienti a dissipare, e l'immobilità in cui da lontano la vecchia levatrice sente il carro cigolante su cui giunge la morte. Ma è anche il progressivo, pietrificante am-mutolimento davanti alla vita che infierisce: la tempesta di neve che rovescia il carro dei genitori di Rafael, il parto tragico della moglie. Ed è la distanza senza parole che il giovane padre interpone tra sé e la bambina che ritiene colpevole, e l'acquario ovattato di questa punizione in cui la ragazza cresce, parlando solo ai propri pensieri. Un altro tema interessante è quello dell'iniziazione, nei racconti pur molto diversi 11 posto delle rondini e II meleto. Quest'ultimo non è che il divertente resocon- to della scoperta della sessualità, attraverso un ingegnoso stratagemma per spiare il corpo femminile, messo in atto dagli alunni maschi di una classe elementare. Nel primo caso, invece, le implicazioni sono più profonde. Le scorribande di un gruppo di adolescenti armati di coltelli trafugati dalle accoglienti cucine materne sono trasfigurate, mutate in spedizioni in un sottobosco strisciante, per uccidere a colpi di machete un animale spav^ntooo c proibito, la tartaruga gigante del fiume. Il compito dell'autorappre-sentazione, della mitopoiesi che celebra e conserva, è affidato all'unico dei ragazzi che possiede la facoltà di raccontare, e tramite questa definisce il proprio ruolo nel gruppo. Egli ne incarna successivamente anche la coscienza quando, malgrado il divieto del capobanda, intorno al fuoco narra di uno scempio gratuito di nidi di rondine, trova parole per un atto di violenza, lo fissa nella memoria e nella "storia" del gruppo e, come un intellettuale del dissenso, è abbandonato presso le braci della scampagnata: "Mi alzo e di fronte a me ho l'oscurità delle ombre del fiume, e la notte attraverso cui devo procedere da solo". ■ fortlara@tiscalinet.it L. Fortugno è dottoranda in letterature comparate all'Università di Torino Per una fotografìa impertinente John Nichols ELEGIA PER UN SETTEMBRE ed. orig. 1992, a cura di Mario Materassi, trad. dall'inglese di Giovino Romilio, pp. 44, € 10, Palomar, Bari 2004 rfìisi Il romanzo di Nichols s'inserisce nella collana "La Vigna Nascosta", diretta da Michele Bottalico e Mario Materassi, il cui intento importante è 0 dissenso nei confronti dell'"ortodossia" editoriale di Madison Ave-nue con la sua commercializzazione oculata e neutralizzante di ciò che proviene dalle frange, dalla controversa "frontiera". In questo caso si tratta del Sud-Est, la cui carica di militanza a più livelli è spesso stemperata, ridotta a colore regionale in vendita per meno nocive trasposizioni cinematografiche (come già accaduto per Nichols con The Mila grò Beanfield War). Elegia scientifica, meticolosa, nei nomi delle piante e degli arbusti, degli insetti e degli uccelli che popolano i boschi del New Mexico, accurata nel catalogo dei gesti rituali della caccia e della pesca (la scelta dell'esca, il lancio sapiente dell'amo, quell'arte iniziatica di A River Runs Through It): gli ambienti naturali sono il punto di forza di questa breve storia e vibrano tutti, parola dopo parola, della gratitudine del protagonista, per il quale perdersi in essi è ormai l'unica, fondamentale ragione di vita. È un "animale morente" in minore, senza causticità, il personaggio principale di questa vicenda. Uno scrittore di mezza età che un giorno riceve, nel suo rifugio dai cieli sgargianti, la lettera di un'intraprendente ammiratrice: infiammata di passione dai suoi libri, è al terzo anno di college (l'età di sua figlia), dice di amarlo, Io vuole incon- trare, e per allettarlo allega tanto di fotografia impertinente. Con scetticismo e paura l'uomo stanco, condannato ormai a fare regolare affidamento su un piccolo arsenale di anticoagulanti, accetta la sfida capitale di essere all'altezza di un fantasma disegnato da una mente giovane e incontenibile. La relazione comincia, dura lo spazio di quel settembre del titolo (che naturalmente è anche un'altra, personale, fine estate) e viene giocata innanzitutto sul terreno della sessualità, dove tutte le barriere delle reciproche mitizzazioni cadono brevemente per poi riconfermarsi. Dopo la fine inevitabile, le due sponde opposte rimarranno a fronteggiarsi, affacciate sull'arena vuota dell'estraneità, del desiderio e della nostalgia, di una disfatta accettazione dell'ordine naturale delle cose. Inizialmente si prova quasi fastidio davanti a così tanti elementi, per così dire, d'ordinanza: il matrimonio alle spalle, un divorzio non metabolizzato, senza ragione apparente, i figli adulti in sottofondo o ancor meno, quella quasi bidimensionale American beauty in scarpe da aerobica e shorts. Gli incontri sessuali spasmodici tra l'acrobatico e il sadico, e quello schematico determinismo che ritma le sequenze di caccia-san-gue-amplesso tra l'erba, sembrano forzature. Poi invece la storia conquista la propria misura. La capricciosa ragazza incarna tutta la crudeltà della giovinezza quando sfida i fulmini sulla piana nel temporale incipiente e, nuda, brandisce il fucile a braccio teso contro il cielo, uccidendo senza ragione un enorme rapace. Ma il terrore e la fascinazione scatenati nell'uomo del-Yhybris e la paura della morte sono passioni esplosive anche in assenza di gioia: "Aveva una gran voglia di piangere. Aveva anche un'erezione e voleva fare di nuovo l'amore". (L.F.)