Letterature Una poesia post-ideologica Piccolezze dei mortali di Donatella Sasso Wislawa Szymborska DISCORSO ALL'UFFICIO OGGETTI SMARRITI Poesie (1945-2004) a cura di Pietro Marchesatii, pp. 189, € 15, Adelphi, Milano 2004 UNO SPASSO ed. orig. 1967, a cura di Pietro Marchesani, pp. 106, € 11, Scheiwiller, Milano 2003 OGNI CASO ed. orig. 1972, a cura di Pietro Marchesani, pp. 98, €11, Scheiwiller, Milano 2003 Almeno tre idee hanno iniziato a circolare presso l'incerta quanto tenace comunità dei lettori da quando Wislawa Szymborska vinse, nel 1996, il premio Nobel per la letteratura. Tre idee vaghe, approssimative e largamente opinabili, ma tutte degne di essere riconsiderate e nuovamente sviscerate. Che la poetessa polacca, nata nel 1923, con un passato nel Partito comunista e una vita spesa presso una redazione letteraria, fosse poco conosciuta a livello internazionale non può essere negato. Szymborska non era allora un riferimento per l'ampio pubblico, né una cartina di tornasole di quanto si fosse tragicamente mosso in Polonia nei precedenti cinquantanni. Eppure in Germania e in Austria godeva di una certa fama. Ma sono le parole di stima di Czeslàw Miiosz, aneh'egli premio Nobel per la letteratura, scomparso nell'agosto di quest'anno, a consacrarla nel 1996 quale "poetessa intellettuale, che usa di fatto forme quasi saggistiche". Un'autrice che amplia il poeticamente narrabile, un'innovatrice, quindi. Non la schiva intellettuale ancorata al quotidiano, al lirismo amoroso con qualche incursione nelle tragedie collettive, di cui hanno inizialmente diffidato molti critici e lettori. È pur vero che la stessa Wislawa Szymborska ha più volte ammesso di essersi volontariamente tenuta lontana dalla mondanità é dai riflettori, come si legge in Epitaffio del 1962: "Qui giace come virgola antiquata - l'autrice di qualche poesia. La terra l'ha degnata - dell'eterno riposo, sebbene la defunta - dai gruppi letterari stesse ben distante". Schiva, ma non assente, distante dal mondo dei letterati o, meglio, dalle chiacchiere vacue di certi letterati, per essere più vicina all'accadere delle cose e al sentire degli uomini. Come l'ha acutamente definita Pietro Marchesani, suo curatore e traduttore, quella di Szymborska è una poesia post-ideologica. Non- la poesia anti-ideologica, cioè polemica e velatamente conservatrice, retorica e rassicurante di chi, ripudiando in toto il passato, si sente al sicuro nella propria illusoria roccaforte di recuperata purezza. E non è neppure poesia a-ideologica e a-tem-porale, ingenuamente superficiale e incurante del contesto u-mano e storico di appartenenza. Bensì poesia che legge nel quotidiano individuale e nella coralità, con sguardo libero, ironico, perché conscio dei condizionamenti delle grandi narrazioni ideologiche e metafisiche e lucido di fronte alla sostanziale realtà del dolore. In apparenza una consapevolezza raggiunta con la maturità, che invece l'accompagna fin dal suo esordio. Cerco la parola, prima poesia pubblicata nel 1945, rappresenta una dichiarazione di assoluta afasia di fronte alle azioni dei criminali nazisti, che può essere anche letta come dichiarazione programmatica di adesione a temi di spessore filosofico. Alle prime prove poetiche segue un periodo di accecamento ideologico e la pubblicazione di opere in sintonia con il realismo socialista. Un periodo poi rinnegato con dichiarato senso di colpa, ma anche funzionale alla comprensione di che cosa sia la "fede in un'unica ragione" e a quali danni possa condurre. Szymborska esce definitivamente dal Partito nel 1966, perdendo anche il suo impiego come redattrice, ma già nel 1957, con la raccolta Appello allo Yeti, aveva dato il via a quella complessità di temi che, forse non subito e forse in maniera sommessa, decreteranno il suo successo. Un successo crescente che non si è esaurito con la vittoria del Nobel e che, in Italia, non sembra calare. Il piccolo editore milanese Vanni Scheiwiller aveva proposto la poesia di Szymborska proprio nel 1996, pochi mesi prima del riconoscimento ufficiale, anche se il volume era in cantiere già dal 1991. Dopo il Nobel sono seguite molte edizioni Scheiwiller, Mondadori e Adelphi, ma nell'ultimo periodo si sono affacciate in libreria interessanti novità. I due volumi Scheiwiller sono i primi, nell'ambito di un progetto di pubblicazione dell'intero corpus poetico. Quella di Adelphi è invece una raccolta antologica, che arricchisce con poesie recentissime e inediti l'edizione del 1998. Curatore dei tre volumi è Pietro Marchesani, che non esita a rivisitare le proprie traduzioni, con l'obiettivo di renderle il più possibile naturali, in ossequio alle stesse aspettative espresse da Szymborska in una conversazione con Federica K. Clementi. Szymborska canta la semplicità del vivere quotidiano, la fatica di una visita all'ospedale, un telefono che squilla nel cuore della notte in una pinacoteca, l'involontario umorismo di un discorso ufficiale, la straordinarietà di un incontro amoroso. Ma con la stessa abilità tratta temi di dolorosa portata storica. Si legga Ancóra, poesia del 1957, che ha suscitato aspre critiche negli ambienti della destra clericale e nazionalista. Rappresenta una delle rare commemorazioni dello sterminio degli ebrei polacchi, un invito duro e sarcasticamente realistico all'assimilazione come unica via alla sopravvivenza: "Non saltar giù nome di Davide. / Tu sei un nome che porta alla morte, / che a nessuno è dato, spaesato, / da avere qui / amara sorte. / Tuo figlio abbia un nome slavo, / ché qui ogni capello viene contato, / ché qui bene e male sono distinti / in base al nome e ai lineamenti". Sono versi che quasi racchiudono un'analisi sociologica non solo dell'antisemitismo e della Shoah, ma di ogni discriminazione e violenza fondate sull'oidio di stampo razzista. Ma la poetessa non è davvero la schiva letterata intenta alla ricerca di perfezione formale, che pure non manca nelle sue opere. Nel 1967 scrive Vietnam, un doloroso canto all'annientamento dell'umanità prodotta dalla guerra, in particolare di ciò che maggiormente caratterizza l'umanità: la memoria: "Donna, come ti chiami? / Non lo so. Quando sei nata, di dove sei? / Non lo so. / Perché ti sei scavata una tana sotterranea? / Non lo so". Solo la relazione più viscerale e profonda viene risparmiata dall'annichi-lamento: "Questi sono i tuoi figli? / Sì". Colpisce la prolificità degli ultimi anni, che la gloria del Nobel e la maggiore notorietà non hanno fiaccato. Ancora negli ultimi anni Szymborska sa cogliere i segni dei tempi che cambiano. In Fotografia dell'I 1 settembre si sofferma su un particolare cruento, fissato dall'obiettivo fotografico. Sono i corpi ancora integri di chi si è gettato dalle finestre, fuggito dalle fiamme, per trovare una morte ancora più tragica. "Solo due cose posso fare per loro / descrivere quel volo / senza aggiungere l'ultima frase", così si chiude la poesia. L'ultima frase viene risparmiata per creare l'illusione di un'inverosimile fine differente, ma forse c'è anche un ritegno a evitare ogni commento che possa suonare polemico. Szymborska conosce i rischi delle posizioni nette e delle interpretazioni politicizzate e le evita, ma non si esime dal far sentire la sua presenza, da offrire il suo contributo. È questa la poesia post-ideologica definita da Marchesani. Infine, è sorprendente scoprire che la vena ironica di molte composizioni di gioventù non si sia perduta. Con arguzia, nella poesia In luogo d'un feuilleton, traccia il quadro di un mondo finalmente perfetto, salvato dalla pubblicità e dai consumi: "La pubblicità / mia gioia e conforto. All'idraulico di Katowice, calvo fino a ieri, / oggi nello specchio si rizzano capelli neri, / del che è stupita la moglie, ora ringiovanita / grazie al nuovo divano e alle gocce per il naso, / il che fa sì che gli autisti le dicano ciao". Chi voglia concludere un excursus cronologico, e ideale, attraverso l'opera di Szymborska, non si lasci sfuggire Contributo alla statistica, vera summa di ironica saggezza e scanzonata irrisione delle piccolezze dei mortali: "Su cento persone: / che ne sanno sempre più degli altri, / cinquantadue; / insicuri a ogni passo / quasi tutti gli altri; pronti ad aiutare, / purché la cosa non duri molto / ben qua-rantanove; (...) innocui singolarmente, / che imbarbariscono nella folla, / di sicuro più della metà; / crudeli, / se costretti dalle circostanze / è meglio non saperlo / neppure approssimativamente; / (...) mortali / cento su cento. / Numero al momento invariato". ■ s.dona® fastwebnet.it D. Sasso collabora con il Centro Interculturale della Città di Torino Con l'inchiostro nero di Monica Bandella Helga Schneider L'USIGNOLO DEI LINKE pp. 154, € 14, Adelphi, Milano 2004 L'ALBERO DI GOETHE pp. 155, € 9,50, Salani, Milano 2004 Helga Schneider, nata in Polonia e cresciuta in Germania e Austria, vive in Italia da più di quarant'anni. Scrive i suoi testi in italiano, non in tedesco, sua madrelingua. Pensando a questa scelta e alla sua opera forse più nota, Lasciami andare, madre (Adelphi, 2001) - testo autobiografico sul rapporto con la madre, ex guardiana di Auschwitz-Birkenau - mi torna in mente la frase di Hélène Cixous: "Sempre in lei sussiste almeno un po' del buon latte materno. La donna scrive con l'inchiostro bianco". L'inchiostro con cui scrive Schneider si tinge invece di nero. Scrivendo, l'autrice sembra voler scalfire il trauma personale -intimo direi - subito da bambina, e trasferire sulla carta un'iscrizione corporea attraverso una lingua che incarna di per sé un rifiuto, un tentativo di liberazione. Questo percorso narrativo procede a ritmo serrato, intervallato da opere in cui l'io autobiografico, quasi a voler riprendere fiato, cede il posto a figure romanzesche che abitano scene storiche ricostruite con risoluta autenticità. E il caso dell'ultimo lavoro, L'albero di Goethe, incentrato sulle vicende di alcuni ragazzi tedeschi prigionieri nel campo di concentramento di Bu-chenwald. Un contributo, sostiene l'autrice, alla memoria, spesso sommersa, delle tante giovani vittime dello sterminio nazista. L'usignolo dei Linke dà nuovamente voce alla bambina Helga, reduce dal Rogo di Berlino (Adelphi, 1995) negli ultimi anni di guerra. "Volevo la purezza e la liberazione dai miei incubi. Continuavo a sognare montagne di cadaveri, case che crollavano su se stesse, strade irriconoscibili e invase da macerie, da carogne di cavalli e da tutta quell'infinità di cose e oggetti che, come una ferita il pus, spurga una guerra in atto. Volevo guarire", scrive Schneider nelle prime pagine. È il 1949 e Helga giunge in Austria, sul lago di Atter-see, per stabilirsi nella casa abitata dai nonni paterni; il ricordo è introdotto dalla voce adulta dell'autrice che, nel 2003, incontra ad Amburgo una vecchia conoscenza, Kurt Linke. Uomo ormai di mezz'età, era stato bambino nella Prussia del '45: uno dei tanti tedeschi in fuga dal "«fanatismo antitedesco" nato dagli orrori del Terzo Reich. E poi era arrivato alla Mòwenhort, la casa dei nonni di Helga, per guarire, anche lui, dalla tragedia di profugo, di bambino strappato alla sua infanzia dalla storia. È un intreccio di ricordi quello che si sviluppa sullo sfondo limpido delle acque del lago austriaco attraverso i dialoghi di due bambini ormai adulti: nella condivisione del passato Helga assume il ruolo di ascoltatrice, quasi una terapeuta per il taciturno e ostile Kurt. È su quest'ultimo che s'incentra il racconto, in larga parte dedicato alla sofferta ricostruzione della marcia - segnata da gelo, paura e morte - compiuta dalla sua famiglia tra Prussia orientale e Mar Baltico. Lo scavo autobiografico di Schneider resta però visibile nei momenti testuali in cui l'autrice richiama una memoria già incisa in opere precedenti, raccontando al lettore, in maniera esemplare e mai ridondante, il Male da lei vissuto. Il libro sembra comporsi di frammenti che si compenetrano l'uno con l'altro, senza stridori: è la memoria, individuale ma anche collettiva, a gestirne i movimenti e gli incastri.