Politica L'invadenza del privato di Daniele Rocca Paul Ginsborg IL TEMPO DI CAMBIARE Politica e potere nella vita quotidiana pp. 254, € 15, Einaudi, Torino 2004 Partendo dalla propria esperienza diretta nel Laboratorio per la democrazia recentemente sorto a Firenze, nel suo ultimo saggio Paul Ginsborg delinea una panoramica ragionata dei nuovi conflitti sociali e politici presenti nel mondo, aperti o latenti, esaminandone le possibili soluzioni. Riscontra innanzitutto un crescente disagio verso la politica in molti paesi occidentali. La globalizzazione, e in genere le nuove precarietà economiche, hanno prodotto fra i cittadini una sensazione di "urgenza" e "impotenza", una sfiducia non di rado profonda verso le strutture istituzionali e gli stessi meccanismi democratici. Si tende così a sottrarsi dall'agire politico, giudicandolo inutile. Eppure, come dimostrò, secondo Ginsborg, la grande e in buona parte vittoriosa campagna Jubilee 2000 per la cancellazione del debito ai paesi più poveri, anche l'a-. zione individuale è spesso utile, sia per il suo carattere di esemplarità, sia per i risultati che può conseguire, con gli "straordinari effetti cumulativi". Certo, se una priorità dell'oggi consiste proprio nel porre rimedio alla condizione d'estrema indigenza di ampie regioni del mondo, non vanno nemmeno dimenticate le ancora numerose discriminazioni registrabili in tutti i continenti, come quelle di genere (sono, per esempio, rarissime le donne ministro, anche in Europa). Ginsborg giunge a scorgere nell'"altruismo" una possibile "base etica della cittadinanza". Del resto, la sensibilizzazione su queste tematiche ha avuto una conseguenza positiva: l'infittirsi dei legami fra economia legale e illegale è, almeno simbolicamente, bilanciato dai passi avanti del commercio equo e solidale, forse dovuti a una reazione all'individualismo montante, fenomeno centrale dell'oggi, in cui si associano istanza liberal-liberistica e tendenza alla disgregazione della società. Nuova stella polare potrebbe allora essere un individualismo neoromantico? Purché si fronteggi anche L'edonismo immaginativo" promosso dai media, capace di ridurre i consumatori a puri e semplici soggetti desideranti. Tutti fattori che inducono al ripiegamento su se stessi, e compromettono cosi quella che Ginsborg chiama la "connessione delle famiglie", ossia i rapporti associativi fra i nuclei famigliari all'interno della società civile. Ciò impedisce di risolvere i problemi legati al dialogo politico e alla leadership nelle associazioni che si formano dal basso all'interno delle democrazie. Peraltro, il rapporto fra democrazia e associazionismo non si rivela sempre buono. Quest'ultimo, osserva Ginsborg, non tende forse a svilupparsi sotto le dittature, per spegnersi invece proprio con i regimi democratici? Nella democrazia, istituzioni e partiti tendono sistematicamente a cooptare, corrompere, snaturare queste forze. E sulla base di tali elementi, esposti con rigore, concretezza ed eleganza, che Ginsborg articola nelle ultime pagine una serrata critica al modello neoliberale. Motto, "reinventare il Pubblico" e riscoprire la vera democrazia deliberativa: solo se coinvolto nella gestione dello stato il grosso della popolazione potrà prendere in mano le redini della globalizzazione e legarla saldamente agli interessi comuni. Oltre la favola bella di Marco Scavino Giuseppe Carlo Marino BIOGRAFIA DEL SESSANTOTTO Utopie, conquiste, sbandamenti pp. XV-512, € 10, Bompiani, Milano 2004 Sul Sessantotto (inteso non come data, ovviamente, ma come fenomeno sociopolitico) esiste ormai da tempo, anche in Italia, una letteratura abbastanza ricca. In genere si tratta di opere che tentano di ricostruire il clima degli anni sessanta e settanta dal punto di vista della conflittualità sociale, dell'emergere dei movimenti studenteschi e del loro intrecciarsi con le culture tradizionali del movimento operaio, della formazione dei gruppi extraparlamentari, del radicalismo politico e intellettuale di massa, delle trasformazioni profonde che avvennero sul piano dei costumi e degli stili di vita. Opere che spesso risultano ispirate da un'evidente simpatia per quelle esperienze, dovuta anche al fatto che, in molti casi, gli autori ne sono stati protagonisti, si sono formati in quel clima, e sono in qualche modo loro stessi l'espressione di quelle culture. Non di rado, anzi, si ha l'impressione che lo studio del Sessantotto costituisca un tentativo di fare i conti con il proprio passato da parte di una generazione intellettuale che ha visto duramente frustrate le proprie speranze e illusioni dell'epoca, ma non tanto da ri7 nunciare a credere che in quegli anni si sia giocata una partita decisiva, se non per il rovesciamento del vecchio mondo, almeno per la modernizzazione del paese (e più in generale delle aree occidentali), di cui i movimenti radicali sarebbero stati, seppure contraddittoriamente, il principale fattore propulsivo. Il libro di Marino è, da questo punto di vista, decisamente controcorrente. Si presenta come una ricostruzione rigorosa dei fatti e del loro contesto sociale. Ha un taglio intenzionalmente divulgativo (nell'introduzione l'autore avverte di aver voluto scrivere, da "specialista", anche per i non specialisti). E vuole essere appunto una "biografia" del Sessantotto italiano. Ma del Sessantotto avanza poi un'interpretazione personale, originale, molto distante da quelle più correnti, per nulla agiografica e oleografica. Qui siamo davvero agli antipodi delle retoriche autocelebrative di certa memorialistica ("Formidabili, quegli anni!") e delle spiegazioni del Sessantotto in termini di provvidenzialistica eterogenesi dei fini (del genere: volevano fare la rivoluzione comunista, ma hanno finito per allargare gli spazi di libertà e di democrazia). A Marino quelle esperienze appaiono piuttosto in una luce cupa e dispera- ta; ciò che gli interessa capire è perché esse abbiano fallito tutti i loro obiettivi dichiarati, non perché ne abbiano eventualmente conseguiti altri; perché quelle culture siano evaporate con tanta rapidità nei decenni seguenti e perché la maggior parte dei "sessantottini" abbia finito per essere riassorbita senza grossi problemi nella società che diceva di voler abbattere (un po' come accadde, sostiene, agli etruschi nei confronti del mondo latino!). Come "radicale e incandescente rivolta giovanile", afferma l'autore, il Sessantotto non ebbe una particolare originalità, giacché "fenomeni del genere si erano avuti anche in passato", seppure in forme meno vistose e massificate. Qerto, il clima del dopoguerra favorì particolarmente tra le generazioni più giovani i manicheismi e gli irrigidimenti politi-co-ideologici (e qui Marino adotta, forzandone un po' il senso originario, la distinzione tra "apocalittici" e "integrati", suggerita negli anni sessanta da Umberto Eco); e le irrisolte questioni universitarie furono indubbiamente un detonatore potente delle tensioni accumulate nel mondo studentesco. Ma non sarebbero stati questi elementi a "creare" il Sessantotto. Decisivo, a suo giudizio, fu piuttosto il momento storico in cui esso si collocò, segnato dall'incipiente "trapasso dell'Occidente a una nuova fase di civiltà", dall'esaurirsi dei modelli sociali dettati dalla rivoluzione industriale e dalle prime avvisaglie della cosiddetta "postmodernità". Sarebbe dunque stato il confronto con il nesso modernità/postmodernità a caratterizzare quei movimenti di protesta come un caso unico nelle vicende novecentesche, in quanto essi finirono per essere l'ultima (e proprio per questo disperata) manifestazione di una cultura storica che aveva ormai fatto il suo tempo: "il socialismo, l'internazionalismo proletario e la centralità operaia, la redenzione dall'alienazione e dallo sfruttamento, la liberazione degli oppressi, la spontaneità creativa delle masse, il dominio sulla natura". Mentre le sinistre tradizionali avvertivano la portata epocale della svolta in atto (pur sottovalutandone gravemente, ammette Marino, la natura e gli esiti), il Sessantotto doveva invece inevitabilmente aggrovigliarsi in un cumulo di contraddizioni ideologiche e politiche, tale da configurare non un'autentica spinta rivoluzionaria, quanto piuttosto una reazione volontaristica e soggettivistica "alla temperie dell'emergente postmodernità". Sicché, conclude paradossalmente, sul piano storico il Sessantotto "fu un tentativo 'controrivoluzionario' fallito". Il libro, insomma, sviluppa un'analisi originale e sfocia in tesi indubbiamente molto nette. L'impressione complessiva, tuttavia, è che certi giudizi di fondo che lo caratterizzano siano un po' affrettati. Ai movimenti di protesta del Sessantotto, per esempio, viene addebitata un'incomprensione pressoché totale delle trasformazioni economiche e sociali allora in atto (il che, beninteso, credo sia in larga misura corretto), ma senza fornire in realtà molti elementi per convincere il lettore che sia stato davvero così. Se poi, per contro, si legge che le sinistre tradizionali, in particolare il partito comunista, avrebbero invece intuito quelle trasformazioni, elaborandole attraverso la categoria del "neocapitalismo" e prendendo atto pragmaticamen-te del tramonto dei valori rivoluzionari (giacché, afferma Marino, la classe operaia non voleva più cambiare il mondo, ma "sfruttare al meglio, con dure lotte sindacali in una strategia riformistica, le crescenti offerte di sicurezza e di benessere della società di massa"), le perplessità non possono che aumentare. Davvero si può sostenere che sindacati e partiti di sinistra all'epoca avessero rinunciato all'idea di una trasformazione profonda degli equilibri di fondo (economici e politici) della società? E che il tema del cambiamento radicale, in sé, fosse stretto appannaggio dell'estremismo studentesco? A ben vedere, l'interpretazione che Marino avanza del Sessantotto italiano è piuttosto un'interpretazione della crisi degli anni settanta. Tant'è vero che i capitoli conclusivi (quelli più fitti di giudizi storico-politici) discorrono non più del movimento studentesco, ma dei gruppi extraparlamentari, giungendo sino al 1977 e alla sta- gione del terrorismo, e suggerendo l'immagine (plausibile, ma anch'essa scarsamente documentata) di una "espropriazione del Sessantotto". Il quadro, a questo punto, è tutto a tinte fosche: lo stragismo "di Stato" (da piazza Fontana in poi), la sempre più accentuata propensione alla violenza e alla provocazione di piazza da parte dell'estremismo, una collusione oggettiva con l'azione dei gruppi neofascisti, l'utopismo ingenuo ma sincero delle origini che cede il passo alla disperazione e ai deliri teorici dell'Autonomia. Un limite del libro, in ultima analisi, sembra essere proprio questo: che formalmente dovrebbe fermarsi al 1970, ma di fatto si chiude invece con un grande affresco degli anni seguenti, inevitabilmente di tono un po' impressionistico. A condizionare l'autore, d'altra parte, è stata anche la scelta delle fonti. Si tratta infatti (almeno per quanto è a mia conoscenza) del primo lavoro su questi temi che utilizzi le carte di polizia, conservate presso l'Archivio centrale dello Stato. Il che indubbiamente costituisce un merito, sul piano storiografico, ma ha costretto l'autore a porsi un limite cronologico forse troppo stretto rispetto ai suoi intenti. Anche perché l'intera ricostruzione dei fatti e dei contesti (compresi quelli politico-ideo- logici) è stata operata quasi esclusivamente su rapporti di prefetti e di carabinieri, quindi senza prendere in esame la pubblicistica dell'epoca, i documenti e la stampa dei diversi gruppi e partiti, la memorialistica e via dicendo. Con il rischio (di cui peraltro Marino si dice ben consapevole) di non poche imprecisioni nella geografia dei movimenti, nelle definizioni di questo o quel gruppo, nella collocazione di singoli personaggi. Da tutto ciò deriva tuttavia - è un fatto storico pure questo -anche una conferma in merito all'alto livello di disinformazione e di incomprensione politi-co-culturale delle forze dell'ordine dell'epoca. Al di là di questi rilievi critici, si tratta comunque di un'opera importante, nel panorama degli studi sul Sessantotto, e per molti aspetti decisamente innovativa (è la prima, tra l'altro, a dedicare un'attenzione specifica al dibattito dei gruppi giovanili di estrema destra negli anni cinquanta e sessanta). Ma, soprattutto, è un'opera che tenta di formulare un giudizio storico complessivo. Un'opera che non vuole raccontare favole belle, ma vuole sollevare interrogativi e riflessioni, vuole far discutere in maniera franca e aperta. Per certi versi, è una sfida. Che merita di essere raccolta. ■ marcoscavino@libero.it M. Scavino è dottore di ricerca in storia contemporanea all'Università di Torino