10 Non mollare di Daniele Rocca GAETANO SALVEMINI E LE AUTONOMIE LOCALI a cura di Maurizio Degl'Innocenti pp. 158, € 18, Lacaita, Manduria-Bari-Roma 2007 Gaetano Quagliariello GAETANO SALVEMINI pp . 313, €15, il Mulino, Bologna 2007 GAETANO SALVEMINI Sulla democrazia a cura di Sergio Bucchi pp. 135, € 11,50, Bollati Boringhieri, Torino 2007 Secondo Filippo Turati era una sorta di diable au corps a contraddistinguere Salvemini: quella vulcanica, ma meditata, propensione all'agire che ne fece un modello per Piero Gobetti come per Ernesto Rossi, un uomo guardato con rispetto perfino dagli informatori fascisti all'estero, dopo che ebbe scelto la via dell'esilio. Oggi, nel celebrare i cinquant'anni dalla morte, vari studi vengono pubblicati sulla figura dello storico, che focalizzò sempre con singolare acume le grandi questioni della propria epoca, proponendo soluzioni sul piano politico come su quello socio-cul-turale. In un contributo compreso negli atti di due recenti convegni fiorentini (settembre 2006; marzo 2007), poi curati in volume da Maurizio Degl'Innocenti, Massimo L. Salvadori considera quello di Salvemini un temperamento da "anti-politico". Se infatti Salvadori sceglie di sottolinearne in primo luogo l'apporto fornito alla questione meridionale, la battaglia per il suffragio universale e la lotta contro il malcostume dei partiti parlamentari, non manca però di metterne in risalto la sostanziale incapacità di risolvere lo "iato" fra analisi intellettuale e proposta politica. c flò fu causato da un dinamismo incoercibile, che, come nota proprio Degl'Innocenti, professore di storia contemporanea a Siena, portò Salvemini non solo a sganciarsi dall'iniziale marxismo, ma anche a evolvere da un federalismo "assoluto a uno di carattere invece "relativo". Anche al fine di cogliere tale dimensione nella figura di Salvemini, nella sua raccolta di saggi (due dei quali inediti) dedicati all'intellettuale molfette-se, Gaetano Quagliariello dichiara di voler utilizzare "il metro della storia e non quello dell'ideologia": in particolare, proprio l'abbandono del Partito socialista nel 1911 non avrebbe segnato l'avvio di un'involuzione, ma si sarebbe posto in continuità con la riflessione portata avanti fino a quel momento. Non gli stavano forse ormai stretti sia il determinismo marxista sia il modus operandi del Psi (troppo poco concreto e troppo gradualista)? Senza contare che lo stesso Salvemini considerava come "problema tattico fondamentale", per la politica del suo tempo, l'unità d'azione tra le forze sinceramente riformiste contro il blocco di potere conservatore. Convinto ammiratore del modello anglosassone, al corrente delle teorie di Ostrogorski, cercò allora di promuovere una riforma della politica, ipotizzando alleanze variabili per obiettivi precisi, circoscritti, radicali: senza legami con i singoli partiti, né con programmi troppo ampi per potere essere applicati. L'adesione al movimento dei combattenti e all'effimera Lega democratica per il rinnovamento della politica nazionale furono testimonianze di tale orientamento. Vennero poi i passi falsi. Nel ricostruire il contesto entro cui ebbero a maturare le scelte di Salvemini attorno al 1920, smentendo, fra l'altro, la "supposta linearità" del rapporto maestro-allievo con Gobetti, Quagliariello ricorda la sottovalutazione del fascismo, che nel 1923 spinse Salvemini a giudicare preferibile il governo mussolinia-no a quello giolittiano (Salvadori afferma da parte sua che, in tutto il periodo fra 1915 e 1922, cioè dal sostegno all'intervento italiano in guerra alla non ineccepibile lettura della marcia su Roma, lo storico "perse ripetutamente e gravemente la bussola"). Eppure, presto sarebbe stato fra gli animatori del giornale antifascista "Non mollare". Arrestato, emigrò dapprima in Francia, poi in Inghilterra e infine (dal 1934) negli Stati Uniti. Pur continuando, come segnala Quagliariello, a vedere nel fascismo essenzialmente un regime da strapaese, demagogico, nelle mani di un tirannico istrione al potere, invece che rilevarne la ben più preoccupante dimensione europea, egli non cessò mai, in costante contrasto con la propaganda che si irraggiava dall'Italia, di documentarne delitti, fallimenti e menzogne. Fino a entrare anche in polemica con George Bernard Shaw. Questi giudicava il fascismo una forma di regime molto più socialista della democrazia liberale, e passibile di una positiva evoluzione anticapitalistica. Salvemini non ebbe del resto difficoltà a inchiodare le apparentemente realiste, ma di fatto ingenue, argomentazioni dell'intellettuale fabiano con una serie di repliche basate sulla disarmante realtà dei fatti (qui l'autore sostiene che egli fosse "conscio della radice gnoseologica dei totalitarismi", nel loro illustrare i "rischi per la libertà insiti nella pianificazione statale"). Da un lato un anticlericalismo per nulla monolitico, con molteplici venature interne, {iijctarn» QtiagBarteUo Storia dall'altro i controversi rapporti con il Pei costituiscono i temi di due saggi proposti da Quagliariello per l'ultima fase della vita di Salvemini. Con i comunisti lo scontro avvenne proprio sull'anticlericalismo, ma si deve anche tener conto che Salvemini, estimatore di Cattaneo (come ben spiega Carlo Lacaita negli atti dei convegni fiorentini), sostenne, scrivendo a Mon-dolfo nel gennaio 1947, essere il marxismo null'altro se non "una droga che prima sveglia gli animi dormienti e subito dopo istupidisce chi non se ne allontana". Punto di vista che si era consolidato negli anni dell'esilio. Ed è appunto l'arco temporale che si estende dal 1934 al 1940, quando Salvemini stava insegnando alla Harvard University, quello attraversato dai testi di articoli e di conferenze, in larghissima parte inediti, raccolti per Bollati Boringhieri da Sergio Bucchi, il quale di Salvemini aveva già curato nel 2000 per la stessa casa editrice un'edizione di 11 ministro della mala vita. Anche da questi cinque saggi americani, in pagine di notevole intensità, sebbene fitte di ripetizioni che, forse, sarebbe stato il caso di espungere, emerge una certa qual incertezza interpretativa di Salvemini intorno al fascismo, "quel genere di costituzione politica che ha abolito i diritti individuali, le libertà politiche e le istituzioni rappresentative, ma mantiene la proprietà privata, anche se quest'ultima è posta in un sistema di controllo più o meno rigido da parte del governo". Né l'afflato totalitario, né il rapporto conservatore del fascismo con la proprietà privata sono dunque chiari a Salvemini, quando esso è già al potere da oltre un decennio, malgrado l'ormai sicura individuazione, chiara in numerosi altri passi, del filo rosso collegante Italia, Germania e Urss. La sua posizione resta in ogni caso radicale. Nell'epoca della crisi delle democrazie, egli affermerà di ritenere "cattivi" tutti i governi. Il meno "cattivo" fra tutti, ed è questa una grande lezione che Io storico consegna all'avvenire, gli appare la democrazia: pluralistica, si contrappone al totalitarismo; centrata sull'"assunto fondamentale" dell'umiltà, nega radicalmente la "filosofia della dittatura", dove il capo è sull'unico piedistallo, con intorno tutto un popolo senza diritto di critica. Della democrazia il più grande nemico è la stampa, che tende a soffocarla in un abbraccio mortale. Questo straordinario eretico lo osservava, con il consueto stile rude e provocatorio, in De-mocracy Reconsidered. Testo pubblicato a New York nel 1940. L'anno prima di Citizen Kane di Orson Welles. ■ danroc148 yahoo.it D. Rocca è insegnante e dottore di ricerca in storia delle dottrine politiche all'Università di Torino Una vita troppo corta di Bruno Bongiovanni Maria Cecilia Calabri IL COSTANTE PIACERE DI VIVERE Vita di Giaime Pintor pp. XXIII-639, €24, Utet, Torino 2007 Il volume di Maria Cecilia Calabri, bello e importante, e al momento contenutisticamente insuperabile, doveva uscire qualche anno fa presso un altro editore. Alcuni giornali ne avevano preannunciato l'uscita prossima. Ancora nel volume a più voci Giaime Pintor e la sua generazione, curato da Giovanni Falaschi (manifestolibri, 2005), si discorreva di "una monumentale biografia (si ricordi che Pintor è vissuto ventiquattro anni) che è di imminente pubblicazione". Non so, né la cosa mi riguarda, perché vi sia stato questo forte ritardo e perché si sia dovuto cambiare editore, approdando peraltro, e felicemente, a una casa editrice che ha un'illustre tradizione per quel che concerne le biografie dei protagonisti della nuova Italia. È un fatto tuttavia che nella lunga attesa, perdurando l'assenza del documentarissimo libro di Calabri, si è percorsa sulla stampa, in questi ultimi anni, soprattutto a opera di Mirella Serri (ma non solo), una ricostruzione scandalistica che ha insistito sul breve viaggio compiuto da Giaime Pintor alla volta di Weimar nazista tra il 7 e ITI ottobre 1942. Senza per lo più ricordare che la delegazione italiana al "Convegno degli scrittori europei", che di fatto si proponeva di affidare l'egemonia culturale sull'Europa occupata agli intellettuali tedeschi (come voleva Goebbels) o agli italiani, era composta, oltre che dal giovane Giaime, da Farinelli (capodelega-zione), Cecchi, Baldini, il semisconosciuto Acito, Falqui, Sertoli e Vittorini. Un gruppo agguerrito, come si vede. E si pensi che Bacchelli non era partito addu-cendo come motivazione il fatto che non conosceva 0 tedesco. Pintor, in qualche modo, è stato così inghiottito da quella pratica denigratoria che ha coinvolto, per amore del chiasso, a partire dagli anni novanta dello scorso secolo, parecchie personalità libere della cultura democratica italiana, come Gobetti (morto all'età di Giaime Pintor), come Si-Ione, come Tasca, persino come i Rosselli, persino come Croce, Luigi Einaudi e, naturalmente, Bobbio, arruolando addirittura in qualche occasione Salvemini tra i pensatori "di destra". Non temendo le palesi contraddizioni. Mirella Serri - nell'introduzione al Doppio diario (Einaudi, 1978) - aveva del resto in passato sostenuto che Giaime era diventato comunista nel 1939 (associandosi a quel che sosterranno in età ancora staliniana Amendola e Togliatti) e ora, finché mancava il volume di Calabri, ha sostenuto che lo stesso Giaime era divenuto antifascista - per mettersi dalla parte degli alleati, ormai probabili vincitori? - solo vari giorni dopo l'8 settembre. Questo libro, che si avvale di un'indagine accuratissima, ci descrive con minuziosità, e con svariate testimonianze, una vita troppo corta. E subito compaiono la Sardegna, Roma, Torino, la piccola nobiltà sarda, la famiglia ricca di tradizioni militari e culturali, la presenza della musica, gli studi, i littoriali, la passione e l'interesse per la cultura tedesca contemporanea (da Rilke a Jùnger), il grande stile del traduttore di rango che Giaime riuscì precocemente ad acquisire. Sulla presenza della cultura tedesca in Italia negli anni del fascismo, e su una personalità con cui Giaime ebbe contatti, è ora importante, anche se denso di cose in larga parte già note, l'utile libro di Nicola D'Elia, Delio Cantimori e la cultura politica tedesca (1927-1940), pp. 158, € 18, Viella, Roma 2007. Vi sono poi, in Calabri, l'esercito, la guerra, le "servitù militari", la complessa presa di coscienza politica, gli amori, i discorsi, gli scritti, gli amici, la saggia prudenza nell'e-sprimere le proprie opinioni. Nulla viene nascosto o giustificato. Quanto alla gita a Weimar del 1942, vengono fuori la curiosità e l'amore per i viaggi, ma anche, in un convegno frequentato da tedeschi mediocrissimi, la disincantata distanza dalle pretese egemoniche della cultura nazista. Vi è poi il Risorgimento italiano ch^ si staglia sullo sfondo. E l'eroe del Risorgimento, mentre Pintor già prende contatti con Pavese e Giulio Einaudi, resta indiscutibilmente Pisacane, una sintesi per Giaime tra Marx (ossia l'emancipazione dei reietti) e Mazzini (ossia 0 volontarismo etico). E non si può non pensare proprio a Pisacane se si riflette sulla morte di Giaime, che si inoltra coraggiosamente e tragicamente in un territorio pericoloso (doveva esserci anche Garosci con lui, ma era stato colpito da angina). Ora, grazie a un recente saggio comparso su "Nuova Storia Contemporanea", si viene a sapere che pochi giorni prima di morire Giaime era entrato in contatto con i servizi segreti inglesi. Se ne deduce che non sarebbe mai diventato comunista. E ben possibile, forse probabile. Ma non per questi contatti. Non si dimentichi infatti che in quel periodo Churchill e Roosevelt erano alleati di Stalin e che in Italia persino De Gasperi e Saragat allora ammiravano esplicitamente Stalin. La guerra era infatti una e una sola. Da una parte vi erano gli alleati, dall'altra i nazifascisti e i giapponesi. Giaime stava con gli alleati. Tutti. ■ bruno.bon8libero.it B. Bongiovanni insegna storia contemporanea all'Università eli Torino