N. 6 | dei libri del mese Nelle zone d'ombra della comunità internazionale Le scomode verità di una rossa testarda di Igor Fiatti U Igor Fiatti Le denunce di Carla Del Ponte Bruno Bongiovanni I libri del '68 Michele Marangi I film del '68 Giuliana Ferreccio Eliot e l'idea di tradizione Storie di prigionieri uccisi da trafficanti di organi circolano in molte aree di conflitto, ma raramente si trovano prove concrete capaci di togliere questi racconti dal regno delle leggende urbane". Parlando degli anni trascorsi alla guida della procura del Tribunale penale internazionale dell'Aia, a toglierli ci prova Carla Del Ponte. Nel suo ultimo libro La caccia. Io e i criminali di guerra (pp. 416, € 20, Feltrinelli, Milano 2008), lancia un'accusa choc: sotto gli occhi della Nato, dell'Orni e di decine di ong, gli albanesi del Kosovo hanno venduto gli organi di decine di prigionieri. Essenzialmente di serbi. Tanto scioccanti per il pubblico quanto scomode per le cancellerie d'Occidente, le pagine sul presunto traffico di organi emergono con tutto il loro devastante potenziale (geo)politico. "Nel corso dei mesi estivi del 1999 albanesi kosovari avevano trasportato con i camion al di là del confine tra il Kosovo e l'Albania del Nord * trecento persone rapite (...) alcuni dei prigionieri più giovani e fisicamente in forma, che venivano nutriti, visitati dai medici e non venivano mai picchiati, erano stati trasferiti in altre strutture di detenzione in Burrell e dintorni, una delle quali era una baracca dietro una casa gialla a una ventina di chilometri a sud della cittadina (...) e qui i chirurghi espiantavano gli organi dei prigionieri. Questi organi poi, stando alle fonti, venivano inviati attraverso l'aeroporto di Rinas presso Tirana a cliniche chirurgiche all'estero per essere impiantati in pazienti paganti". Il tutto si svolgeva grazie al placet e alla regia degli attuali vertici politici di Pristina, "con la conoscenza e il coinvolgimento attivo di ufficiali intermedi e superiori dell'esercito di liberazione del Kosovo (Uck)". Oltre a silenzi sgomenti, dalla lettura di queste poche righe scaturiscono senz'altro molti perché. E quasi a voler anticipare domande del tutto lecite e possibili, l'autrice scrive: nelle indagini "vi sono anche ostacoli giurisdizionali (...) Il procuratore albanese locale rivela un'altra dimensione del problema 'cooperazione'; si vanta di avere parenti che hanno combattuto nell'Uck e dice all'investigatore del Tribunale: 'Qui non ci sono sepolture di serbi. Ma se hanno portato serbi oltre il confine del Kosovo e li hanno ammazzati, hanno fatto bene'. Così, alla fine, i procuratori e gli investigatori sui casi dell'Uck decidono che le prove sono insufficienti". Il muro di gomma. Più che l'omertà etnica, però, a far naufragare questa e altre indagini ci hanno pensato soprattutto le ragioni della Realpolitik. E riportando minuziosamente incontri, fatti e circostanze, Del Ponte denuncia le zone d'ombra della comunità internazionale. Sul Kosovo l'accusa è chiara: "Temo che, nonostante il suo appoggio a parole del Tribunale, Washington non veda bene le incriminazioni contro leader dell'Uck perché queste incriminazioni complicherebbero molto lo sforzo internazionale per costruire nuove istituzioni in Kosovo e farebbero ritardare il momento in cui il Pentagono potrà spostare le sue truppe dal Kosovo all'Afghanistan e su altri fronti nella guerra ad al Qaeda. Altri paesi della Nato non presentano una situazione migliore". Ma riguardo al Kosovo le insinuazioni più pesanti sono tutte per la missione delle Nazioni Unite (Unmik) e per quella della Nato (Kfor). Esemplare è il caso dell'ex premier kosovaro Ramush Hara-dinaj. "L'incriminazione presenta a Ha-radinaj 17 capi di imputazione per crimini contro l'umanità e venti capi per violazione delle leggi e delle consuetudini di guerra (...) Il capo delTUnmik, Soeren Jessen-Peterssen, sembrerebbe più contrariato di Haradinaj stesso per l'incriminazione. Jessen-Peterssen ha stretto rapporti di amicizia con Haradinaj e non ne fa mistero". Sottolineando quindi sia gli ostacoli creati dall'Unmik "per quanto riguarda le prove documen- tali" che i frequenti incontri di Haradinaj con funzionari di alto livello dell'Un-mik e della Kfor, Del Ponte sentenzia: "Questo mina la credibilità del Tribunale in Kosovo, manda un messaggio paralizzante ai testimoni, ossia che Haradinaj è sostenuto dai massimi rappresentanti dell'Onu in Kosovo". E "l'importanza cruciale" della protezione dei testimoni torna anche nella dichiarazione preliminare al processo Haradinaj: "E un processo che, francamente, qualcuno non avrebbe voluto vedere, e che pochi hanno appoggiato a livello locale e internazionale". Non lo hanno visto nemmeno diversi testimoni che - in circostanze tutt'altro che misteriose - sono scomparsi proprio prima di partire per l'Aia. Equi al libro è necessario un aggiornamento di cronaca: le assenze "forzate" hanno portato il Tribunale ad assolvere l'ex premier kosovaro per insufficienza di prove; l'accusa ha presentato prontamente ricorso contro la sentenza, mettendo in evidenza che il procedimento si è svolto in un clima intimidatorio. Però, questa "insufficienza di testimoni", Carla Del Ponte non ha fatto in tempo a scriverla né a viverla da protagonista sino in fondo: ha chiuso la sua esperienza all'Aia lo scorso dicembre, prima del contestato proscioglimento. Dal 1999 al 2007. Dal Ruanda alla Serbia, passando per la Croazia, la Bosnia, il Kosovo e il Montenegro. "La caccia" si snoda lungo gli otte anni vissuti alla guida del Tribunale penale internazionale. Così, oltre allo "scoop" sul traffico di organi targato Uck, nella lettura ci si imbatte in altre scomode verità. Una con- ferma imbarazzante arriva ad esempio dal racconto dell'incontro in Vaticano con il monsignor Giovanni Lajolo, segretario di Stato della Santa sede. Scopo della visita: sapere dalla chiesa cosa può fare per sostenere lo sforzo di trovare il generale croato Ante Gotovina. "Non sono qui in veste di pellegrina, sono un Procuratore. Ho saputo che il nostro latitante si nasconde in un monastero cattolico. So che il Vaticano ha il migliore servizio di intelligence del mondo. Quindi penso che per voi sarebbe facile scoprire se si trova davvero in uno dei monasteri in Croazia". Dopodiché "il prelato mi guarda male (...) saluta ed esce dalla stanza". "Datemi un miliardo e potrete avere Milosevic", parola di uno Zoran Djindjic sorridente. Così l'autrice ricorda invece l'ex premier serbo assassinato nel marzo del 2003. E il suo è un ricordo che rivela diversi incontri segreti tra i due e manda agli atti il prezzo della consegna dell'ex uomo forte di Belgrado. "Djindijc è stato l'unico uomo politico in Serbia che sapevo pronto ad assumersi i rischi di cooperare con il Tribunale (...) diceva che, per il bene del suo Paese e del suo popolo, avrebbe consegnato Milosevic all'Aia anche se per farlo avesse dovuto rapirlo". Quindi "più che a chiunque altro" il merito per la cattura di Slobo spetta a Djindjic, sostiene Del Ponte, puntualizzando che "il giorno dopo il trasferimento di Milosevic, la Jugoslavia riceveva impegni di aiuti complessivi per 1,3 miliardi di dollari". Da "Carla la Rossa" a "Carla la Puttana". Nel volume non c'è solo spazio per gli anni dell'Aia: tratti autobiografici dipingono il cammino che ha portato "una femmina" svizzera della Valle Maggia a scalare i vertici della giustizia nazionale e internazionale. Così in qualche paragrafo si passa dai giorni d'infanzia, "dalla caccia ai serpenti coi fratelli, Flavio e Angelo", ai tempi dell'inchiesta "pizza connection" sui legami tra la mafia e il riciclaggio di denaro in Svizzera. Anni in cui Giovanni Falcone la definisce "la personificazione della testardaggine", mentre i banchieri elvetici la chiamano "Carla la Sinistroide"; la mafia preferisce invece l'appellativo "la Puttana", epiteto che la segue poi in molte delle sue indagini nei Balcani. Una certezza: la forza del libro non sta nel bello scrivere. Anzi. E ad appesantire frasi e formulazioni - già di loro non troppo scorrevoli - ci pensa un editing scarsamente curato. Non si capisce quindi la funzionalità di brands e marchi che infittiscono le pagine; per esempio, una notissima marca di borse ritma la scrittura e rimanda ad atmosfere più da serie tv "Sex and the city" che da inchieste internazionali. Brands e marchi a parte, il /accuse lanciato dall'ex procuratore è dirompente: sul piano inclinato della storia, La caccia è una testimonianza decisamente unica e voluminosa. "Costruire la pace senza la componente della giustizia assicura in prati ca un futuro conflitto". ■ igorfiatti@yahoo.it I. Fiatti è giornalista