Classici Tra le fessure del pavé di Luca Pietromarchi Sciroppo d'orzata Giuseppe Montesano IL RIBELLE IN GUANTI ROSA Charles Baudelaire pp. 441, € 19, Mondadori, Milano 2007 Baudelaire aveva previsto di concludere la seconda edizione dei Fiori del male (1861) con un grande Epilogo in terza rima: una scelta me- trica che costituisce in sé un estremo omaggio a Dante, il poeta da cui aveva appreso che solo la potenza del ritmo può avere la forza di placare la furia delle menadi che governano Dite. La città maledetta che cam- peggia al centro del suo paesag- gio infernale è Parigi, ed è dal- l'alto di Montmartre che il poeta avrebbe levato questo ultimo canto, carico di passione e di rancore, come già avevano fatto Samuel Cramer alla fine della Fanfarlo, il primo racconto di Baudelaire, e Rastignac dopo il funerale di Goriot. Il progetto è rimasto incompiuto, e ne sussiste solo la prima serie di terzine e una trentina di versi sparsi, che sono come massi erratici rotolati giù dalla montagna per formare la cava destinata a fornire la pie- tra per l'ultima pagina del libro. Si tratta di una lunga enumera- zione che alla rinfusa lascia vede- re, sotto a un cielo muto e tene- broso, palazzi e lupanari, fabbri- che e teatri nel frastuono di un'orchestra di campane e di cannoni. Quando d'un tratto brilla un verso allusivo dedicato ai "magici pavés" di Parigi "innalzati in fortezze". E curioso che Giuseppe Montesano non abbia citato questo verso, dal momento che esso racchiude tutto il senso del suo suggestivo e appassionato libro su Baudelaire. Il pavé è il selciato delle strade di Parigi, e del suo porfido sono lastricate le poesie dei Fiori del male. È tra le sue fissure che il poeta cerca l'ispirazione, lascian- do incespicare la propria immagi- nazione affinché possa sorpren- dere i misteri della città nei suoi anfratti, prestando ai versi l'anda- mento spezzato e sconnesso di chi cammina con passo insicuro tra una folla di sconosciuti che hanno il volto dell'ignoto. La magia del pavé è metafora della magia della poesia secondo Bau- delaire: essa trasforma in oro l'or- rore del reale, facendo della città di pietra uno scenario onirico sul quale si proiettano gli angeli e i demoni di un altrimenti insonda- bile teatro interiore. Il pavé è la pietra poetica, nel senso di pietra filosofale, che promette di rivela- re la verità nascosta nelle pieghe della città moderna, tra le rovine di Parigi. Nella sua durezza si concentra ogni rancore, sulla sua superficie la città si specchia in tutta la sua inquieta bellezza. Ma in quel verso dell'incom- piuto Epilogo, è soprattutto chiara l'allusione a quelle che Hugo, nei Miserabili, aveva chia- mato le "costruzioni dell'odio": le barricate rivoluzionarie che, come le rughe di un viso contrat- to dalla rabbia, hanno stravolto i lineamenti delle strade di Parigi a ogni suo sollevamento popola- re, trasformando la pietra del sel- ciato in arma, in baluardo a dife- sa della giustizia. E la sua trasfor- mazione in pietra rivoluzionaria a rivelare il potere magico che il verso assegna al pavé e, fuori di metafora, a designare la connota- zione esoterica che il Romantici- smo, nei suoi ultimi anni, ha attribuito all'idea di rivoluzione. Paul Bénichou, nel Tempo dei profeti (il Mulino, 1997), prece- duto da Auguste Viatte (Les Sour- ces occultes du Roman tisme, Champion, 1928) e seguito da Paul Bowman (Le Christ des bar- ricades, Cerf, 1987), ha mostrato come, negli anni che hanno pre- ceduto il 1848, sul tronco mozza- to dell'albero della libertà si siano innestati dei rami carichi di linfa spiritualista, esoterica e religiosa che hanno indirizzato la ricerca di giustizia sociale verso le vaghe lontananze di un orizzonte mes- sianico. Il prete diventa mago, il poeta assume il tono del profeta, il filosofo si fa oracolo, scrutando in cielo e annunciando in terra i segni del prossimo avvento di una nuova era di conciliazione univer- sale che avrebbe coniugato riscat- to sociale e salvezza spirituale. E allora che Parigi si dissemina di figure come il Mapah, ex giocato- re d'azzardo convertito al culto di una divinità ermafrodita concepi- ta da Maria con Gesù il 14 luglio 1789, è allora che Nerval riscopre gli illuminati settecenteschi e che si diffonde il verbo di Sweden- borg, diffuso dai seguaci di Saint- Martin e poi dell'abate Constant, il quale, passando dal convento alla galera, si proclama mago con il nome di Eliphas Lévi. Ed è in questa Parigi che Montesano conduce il suo lettore, tra spelonche e speco- le, riconoscendo in un angolo, tra gli assidui di queste mescite del- l'Assoluto e nell'ombra di Proudhon e di Louis Ménard, il giovane Baudelaire. Numerosi indizi, qui puntualmente rilevati, tratti dal Mio cuore messo a nudo, ma già presenti in numerosi scritti giova- nili, avvalorano il fatto che in que- ste frequentazioni Baudelaire non cercasse solo il piacere della pro- vocazione e dell'insolito, ma che tra i cascami esoterici dell'ideali- smo romantico egli trovasse di che sostanziare il suo fondamen- tale spiritualismo. È da questa melassa magico-messianica che egli ha distillato e depositato per sempre nel fondo della sua imma- ginazione la figura di una salvezza intesa come ricongiunzione astra- le dei contrari che lacerano le fibre dell'essere. I fili delle sine- stesie che si intrecciano in Corre- spondances partono da lì, e gli splendori marini che egli collo- cherà in un passato al tal punto remoto da coincidere con il para- diso anteriore alla colpa, in origi- ne erano proiettati in un firma- mento illuminato dai bagliori di di Camilla Valletti Albert Cohen IL LIBRO DI MIA MADRE ed. orig. 1954, trad. dal francese di Giovanni Bogliolo, pp. 125, €8, Rizzoli, Milano 2008 Albert Cohen lavorò sempre e solo a un unico testo: questo cantico in morte della madre è, in qualche modo, la prova provata di come la sua mente, e la sua scrit- tura, si organizzassero intorno a un unico centro. Scritto molti anni prima del suo impegno principale, anche questo testo, poco noto persino agli appas- sionati di Cohen - che sono tanti e in- segretiti -, ha il piglio, la foga, la ver- bosità che caratterizza Belle du Sei- gneur. A un'analisi comparata sono rintracciabili tutte le forme verbali, l'aggettivazione, il «tu» collettivo usa- to come destinatario, gli esclamativi che connotano in modo inequivoca- bile le sue scelte stilistiche, rimaste un unicum nel panorama della narrativa francese del Novecento. Ma non solo, anche qui, quante diffuse descrizioni, quanti inserti lirici, quante invocazioni a "voi, fratelli umani" (come mai in pochi si sono accorti che il best seller dei- caso, proprio con questa citazione?) che funzio- nano da anticipazione delle ben più ariose otto- cento pagine del romanzo. "O mio passato, mia piccola infanzia, o cameretta con rassicuranti ca- gnolini ricamati, virtuose oleografie, comodità e marmellate, tisane, pasticche per la tosse, arnica, farfalla del gas nella cucina, sciroppo d'orzata, pizzi antichi, odori, naftaline, lumini da notte di porcellana, piccoli baci serali, baci della mamma che mi diceva, dopo avermi rincalzato il letto, che adesso sarei andato a fare il mio viaggetto sulla luna col mio amico scoiattolo". Come non provare, di fronte a questi elenchi, lo stesso am- bivalente effetto che provocano le pagine più fa- mose? Questa madre, diletta, adora- ta, perduta, fiera di appartenere a un'epoca scomparsa, non riecheggia forse il tratto un po' eccessivo, fuori luogo, spesso noioso, di quell'altra, la Ariane di Solai? E un piacere leggere Albert Cohen nella traduzione di Giovanni Boglio- lo. Esercita un controllo sulla lingua, sulle ripetizioni, sulla punteggiatura assolutamente necessario per attra- versare i passaggi più oscuri, a diffe- renza della versione italiana che an- cora circola di Bella del signore. Un esempio per tutti: "Il mio dolore e la mia rossa zimarra che il vento apriva come due ah sulla viva nudità che compariva mi rendevano un povero re folle nel- l'anno scorso, Le Benevolenti, esordisce, e non a la notte insopportabile in cui lei mi spiava". un'apocalisse repubblicana. L'apocalisse non si fa attendere molto. Nel febbraio 1848 il pavé opera la sua magica metamorfosi, e Baudelaire è sulle barricate, le mani sporche di polvere da sparo. Non crede nella rivoluzione, quanto nella forza della ribellio- ne, prestando allo stato da abbat- tere il volto del suo patrigno, il generale Aupick (sulla cui tomba l'imbarazzante risvolto di coperti- na del libro invita a sputare). Ma l'opera- zione alchemica volge al nero. In giugno, gli efferati massacri degli insorti, che Montesano evoca con grande effi- cacia orchestrando le più diverse testimo- nianze, rivelano, come nel gioco della morra, che la carta vince sulla pietra. La carta è quella della stampa che avvalla la per niente magica trasformazione della Seconda repubblica in Terzo impero. È allora che nel crogiuolo baudelairiano di Mon- tesano, Dalf Oehler (Le Spleen contre l'oubli, Payot, 1996) viene a mescolarsi con Bénichou, facendo apparire quanto lo spleen baudelairiano sia condi- zionato dalla definitiva caduta nel sangue delle illusioni rivoluziona- rie. La sconfitta brucia ogni sete di vendetta, lasciando solo l'arsu- ra di un rancore sordo e clande- stino. Quel rancore che attraversa la sezione Rivolte dei Fiori del male, a cui sono dedicate tra le più belle pagine del libro, talvolta forzate ma per questo vibranti, senza mai dimenticare che non si tratta della poesia di un rivoluzio- nario, poiché Baudelaire non lo è mai stato, ma del congedo di un ribelle che saluta la propria giovi- nezza prima di murarsi nelle sue segrete stanze interiori in cui accogliere la sconfitta come figu- ra irrimediabile del destino. Il sentimento della disfatta piomba Baudelaire nel nero asso- luto, reso ancora più nero dall'in- fluenza di de Maistre e della sua sadica religione del terrore che trasferisce al sangue sacrificale le virtù purificatrici dell'acqua bat- tesimale. Ma queste tenebre sono costantemente attraversate dai bagliori di una luce che promette di raddrizzare il destino verso un orizzonte di salvezza. Ed è qui che si colloca l'originalità del Bau- delaire di Montesano, focalizzan- do, pur nelle pieghe più profonde del male, la tenace resistenza della speranza di ricomporre in chiave armonica le forme infrante del reale. È una speranza che attinge la sua forza e la sua luce in quel- l'idealismo misticheggiante che brilla nel diadema della corona di cui il poeta si cinge la testa in Bénédiction, forgiata nel crogiuo- lo di quelle prime letture esoteri- che di Baudelaire che per sempre hanno fissato l'orizzonte romanti- co della sua poesia. Il Ribelle in guanti rosa, invece di archiviare quei libri, su cui pure Baudelaire ironizzerà, nel novero delle sue stravaganze giovanili, ne rivela il persistente influsso destinato a mantenere viva la speranza di una possibile redenzione. Essa non sarà mai realizzata, l'orizzonte della sal- vezza non sarà mai raggiunto e la lucidità nel male risulterà sem- pre più forte della fede nel bene. Eppure la speranza della reden- zione scava nelle tenebre quei sentieri luminosi che Baudelaire continuamente tenterà di segui- re nella sua disperata ricerca di un'innocenza originaria. Questa via, Montesano la riper- corre seguendo il Puech di Sulle tracce della Gnosi, identificando la figura del poeta con quella dello gnostico libertino che scruta il volto terribile di Eros e delle sue sacerdotesse cercando negli anfratti della lussuria e nel corpo di Venere (il corpo splendido di Jeanne, il corpo miserabile di Sara), nelle viscere dell'impiccato di Citerà e nelle caverne di Lesbo, quella "beatitudine redentrice" promessa dal dogma dell'incarna- zione dello spirito. Dogma che costituisce il centro di questa con- troreligione erotica celebrata sulle note del Tannhauser, che non ammette la separazione del corpo e dello spirito, ma che cerca la loro mistica ricongiunzione. La compassione per gli umili, il culto poetico e fisico della prostituzione, già studiato da Reginald McGinnis (La Prostitu- tion sacrée, Belin, 1994), l'umilia- zione di se stesso saranno altret- tante vie nella ricerca di una comunicazione con la verità luminosa dell'essere che giace, sepolta "lontana da ogni sonda", nelle segrete del dolore. Nessuna poesia di Baudelaire celebra la conquista di questo ideale. Se la musicalità di alcuni versi farà sentire l'eco della sua armonia, ogni poesia ne dirà sem- pre il carattere inattingibile. Ma è questa la storia di una ricerca, l'a- nalisi di una tensione che mantie- ne saldamente collegato il poeta della modernità, tentato dal nichilismo, al giovane romantico che cercava la redenzione nella ribellione, e che nel fumo delle barricate credeva di riconoscere odore d'incenso. ■ luca.pietromarchigmail.lett .unitre.it L. Pietromarchi insegna lingua e letteratura francese all'Università di Roma Tre