N. 5 Arte Riabilitare all'antica di Paolo Marconi CONTRO IL BAROCCO Apprendistato a Roma e pratica dell'architettura civile in Italia 1780-1820 a cura di Angela Cipriani, Gian Paolo Consoli e Susanna Pasquali pp. 566, €90, Campisano, Roma 2007 Il catalogo della mostra or- ganizzata presso l'Accade- mia di San Luca può essere considerato il frutto maggiore degli studi di Elisa Debene- detti e della sua scuola: una scuola condannata alla pe- nombra dall'accademia ro- mana, e non solo, per la sua dedizione al neoclassicismo architettonico, vittima ancora oggi della scarsa considerazione da parte della storia dell'arte italiana di tradizione crociana, a causa della sua "freddezza". "Contro il barocco" diviene lo slogan degli architetti illumini- sti tra Settecento e Ottocento, contrari al "barocchismo" cui era giunto il linguaggio degli architetti/impresari locali sui modelli ereditati senza studio ulteriore. Il fare ricorso, da parte dei neo-classici, a un linguaggio antico significava rendersi conto del fatto che l'architettura, in quanto cultura, è comunicazione (come afferma Umberto Eco in La struttura assente, 1968), e la comunicazione ha luogo solo quando si abbia a che fare con codici noti tanto all'artista che a colui che ne percepisce il pro- dotto. Non è un caso che tutto ciò avvenisse nel periodo stori- co in cui la filologia divenne scienza, oltre che nel periodo che vide in opera sia Winkel- mann sia Canova. Un periodo nel quale la conoscenza dell'arte e dell'architettura classica diven- ne altrettanto scientifica della filologia, facilitata com'era dalla presenza sul territorio europeo di immani vestigia di quell'archi- tettura e delle sue sculture, e dalla conoscenza dell'architettu- ra classica greca e romana che intanto si faceva strada - causa il colonialismo (ma anche l'esoti- smo di Lord Byron) e le conqui- ste napoleoniche - nei paesi mediterranei, primi di tutti il Sud dell'Italia e la Grecia, pro- cedendo verso il Medioriente. Come non ricordare l'effetto sulla cultura architettonica delle Ruins ofPalmyra e delle Ruins of Baalbeck pubblicate nel 1751 e nel 1754 da Wood, delle Anti- quities of Athens pubblicate da Stuart e Revett nel 1762-84, delle Ruins ofPaestum di Major pubblicate nel 1768? Ecco che E motto "contro E barocco" assume un sapore colto, piuttosto che essere adde- bitato all'oscurantismo degli architetti del momento: l'archi- tettura pubblica dei templi aUa gloria, degli archi di trionfo, dei mausolei, dei musei vuole fare omaggio ai modelli greci oltre- passando i modeHi romani aUo scopo di accedere a una magni- ficenza di stEe e a comporta- menti monumentali che soli si adattassero alle grandi occasioni di edilizia pubblica dell'era deUa grande rivoluzione e del- l'era napoleonica e postnapo- leonica. Architettura destinata a divenire il landmark delle nuove capitali, da Londra a Parigi a Berlino a Vienna a Milano a Napoli a Roma, all'A- merica. Anzi: se l'ar- chitetto che lavora per i nuovi poteri impara a leggere, scrivere e interpolare la lingua greca e quella romana, inaugura con ciò un modo di fare architettura che non può non ricercare e apprendere altri codici linguistici oltre al baroc- co, quale E codice gotico, codici noti e apprezzati anche dal grande pubblico. Ecco come si spiega E variare di Schinkel dalla maniera gotica al classicismo greco (dal proget- to neo-gotico per la Cattedrale di Berlino, 1815, al Kon- zerthaus neo-greco di Berlino, 1818-21, all'Altes Museum altrettanto neo-greco, 1828), per non parlare di Viollet Le Due e dei suoi seguaci, neo- medievalisti agguerriti grazie alle mirabili pubblicazioni di rilievi di Viollet, e del ricercare europeo nei linguaggi architet- tonici medievali. Il periodo napoleonico e postnapoleonico, accompa- gnandosi al colonialismo, favorì e diffuse la conoscenza della cultura artistica greca: si pensi al trasporto dei marmi fidaci a Londra (lord Elgin, 1801-1805) nel British Museum classicheggiante di Smirke (1823) e quello dei marmi di Egina a Monaco, nell'"Atene sull'Isar" costruita da Von Klenze emulando i propilei di Atene. Lo stesso Von Klenze aveva progettato il WalhaUa di Ludwig I di Baviera sulle spon- de del Danubio a Regensburg (1830-1842), emulando E Par- tenone di Atene, ma, prima ancora, apparve la S.te Gene- viève di Soufflot - E primo architetto che visitasse Pae- stum pur avendo esordito con uno studio sull'architettura gotica - con il suo pronao neo- greco (1758-1789), seguita da La Madeleine di Vignon (1806) integralmente neo-greca, la Borsa a San Pietroburgo (1814- 16) di un architetto francese (de Tognon) memore peraltro dei disegni e delle poche realiz- zazioni "rivoluzionarie" di Boullée, di Ledoux e di Lequeu, e, anche in America, il Campidoglio di Richmond (1785-90), quello di Washing- ton (1793), e ciò fino ai primi anni del Novecento, e si pensi al Museo di Philadelphia, in stEe dorico policromo. Ma E neoclassicismo favorì anche la ricerca colta nei lin- guaggi architettonici precedenti - non escludendo quello baroc- co, se lo meritasse per importan- za storica - da parte di architetti che non volevano sconciare con le loro "aggiunte moderne" rac- comandate da CamElo Boito i capolavori del passato, anche relativamente recente: e si vada ai progetti di Antonio Talucchi a Torino nel palazzo del Museo egizio (anni trenta dell'Ottocen- to), in cui egli realizzò uno scalo- ne neo-guariniano dedicato esclusivamente al servizio del museo, nonché diede inizio aUa ricostruzione "aUa maniera" del Guarini deU'ala destra del palazzo su piazza Carignano, la quale fino ai tempi di Carlo Lelice consisteva in una schiera di casette mercantEi a due piani. A questo punto, anche la ricerca di Giuseppe Valadier si distende sul filo deEa memoria dell'architettura domi- nante in Roma fin dal Cinquecento, e si vada ai palazzi di piazza del Popolo, orientati a emulare E Bramante rappresen- tato nella chiesa di Santa Maria del Popolo, lasciando spazio anche ad esercitazioni neo-clas- siche isolate come la facciata della chiesa di San Rocco (1832) o la Casina Valadier (1816-32): un architetto riscattatosi dal novero degli architetti-impresari settecenteschi in quanto cono- scitore dei linguaggi del contesto urbano ove operava. Non solo: nasce in questo periodo la necessità di restaura- re o riabilitare "all'antica" (à l'identique, dicono i francesi) gli edifici precedenti: i palazzi torinesi appena menzionati ne sono una dimostrazione, e tale consuetudine colta s'interrom- pe in Italia solo grazie alla cita- ta proibizione di Boito (1883), fatta in nome di una malintesa "onestà" intellettuale che altro non era se non la volontà di evi- tare la fatica di apprendere i linguaggi architettonici prece- denti. Abbiamo, seppure troppo rapidamente, rammentato il peso della cultura architettoni- ca neoclassica sulla concezione dell'architettura come mezzo linguistico, importante sia sul versante compositivo (si affer- mava essere più importante il tipo che la "creazione" ex novo di forme che non si riferissero a codici noti), sia sul versante del restauro (si affermava la necessità di interpolare fEolo- gicamente i contesti degradati al fine di non sconvolgerne le modalità espressive): è chiaro che tale concezione è figlia della scienza filologica ormai affermata, e che il suo abban- dono sconvolgerebbe un siste- ma espressivo significante, con il rischio di portare all'incapa- cità comunicativa l'invenzione formale "rivoluzionaria". Restava quindi in piedi, a uso di architetti più colti degli attuali, la possibilità di recupe- rare all'architettura uno statu- to di arte colta piuttosto che di mero design "ingegnerizzato" dai tecnici (come avviene oggi), seppure sostenuta - nel campo sempre più importante del restauro - da una vena poe- tica indispensabile. Infatti, come diceva il grande Giorgio Pasquali, "il filologo deve esse- re anche poeta". Obbligo - quello di essere poeta - che incombe anche oggi all'architetto restauratore: non solo egli deve limitarsi a essere un conservatore (come lo vorrebbero quegli architetti che si vogliono sottrarre alla fatica fEologica), ma un archi- tetto colto, anzi: un architetto che voglia obbedire allo stile dell'architettura che riabilita, al fine della conservazione del significato di quella architettu- ra. La conservazione dei monu- menti, dunque, è la condizione che si consegue solo grazie al restauro filologicamente inteso: ecco il ruolo della storia dell'ar- chitettura (diceva Schlegel: "Ogni storico dev'essere un filologo") tra le troppe discipli- ne tecnocratiche che oggi ne affastellano l'insegnamento, allo scopo di giungere alla conoscenza di come fu fatta - ricordiamo Darwin - l'architet- tura. ■ marconi@uniroma3.it P. Marconi insegna restauro dei monumenti all'Università di Roma Tre Strisce bianche di Enrico Castelnuovo Giuliano Briganti AFFINITÀ a cura di Laura Laureati, prefaz. di Alvar Gonzdles-Palarios, pp. 290, €17, Archinto, Milano 2007 Molti anni fa, quando studiavo all'uni- versità, la storia dell'arte era aspra- mente divisa tra diversi partiti, c'erano i longhiani, cui fieramente appartenevo, i venturiani, i ragghiantei, per non parlare dei salmiani o salmisti, generalmente alleati con i venturiani. Che ci fosse una differenza tra i lea- der dei vari schieramenti e che tra questi pri- meggiasse di gran lunga Roberto Longhi non c'è dubbio, come non è dubbio che E potere acca- demico appartenesse ai venturian-salmiani. "Erano spesso 'di fé diversi' i nostri padri fon- datori, ma non erano davvero come 'i cavalieri antiqui', e 'i gran colpi iniqui' continuavano a darseli finché potevano". È Briganti che parla, e quale soUievo per un carattere come il mio por- tato alla distensione (Castelbuono! mi apostrofò un giorno Federico Zeri) incontrare un mio maggiore, di una decina d'anni, affermatissimo storico deU'arte amico e seguace di Longhi che sembrava poco impicciarsi deEe diatribe che dividevano fedeli e infedeli e che era dotato, oltre che di un occhio acutissimo e di una gran capacità di scrittura, di un fine sense of humour e di una qualità assai rara, la leggerezza. Tutto questo riappare ancora una volta nelle pagine lievi, beUe e profonde di Affinità dove, presentati da un testo intelligente e commosso di Alvar Gonzàles, sono raccolti ritratti di stori- ci deH'arte, artisti, architetti, scrittori, antiquari, pubblicati qua e là, su giornali, riviste, opere d'occasione, tracciati con una finezza e una forza evocativa che solo Giuliano era capace di avere. Ci sono maestri, amici, coUeghi e compa- gni di campi diversi, Longhi e Ragghiami, Carlo Volpe e Giulio Carlo Argan, Federico Zeri e Walter Vitzthum, André Chastel e E mercante londinese JuEus Weitzner, Pasolini e Flaiano, Guttuso e Chagall, Morandi e Bacon. C'è Roma, ci sono Londra e Parigi e anche Bologna, dove Morandi tornando verso casa e vedendo degli stradini intenti a dipingere le strisce di un passaggio pedonale dice a chi lo accompagna: "Vede Longhi. Questa sarà la fine della pittura, il suo punto d'arrivo: fare strisce; bianche. E così finiremo noi pittori come quegli uomini in tuta". C'è amarezza nella riflessione di Morandi (di una riflessione si trattava, non di una battuta), che, direi, trova un'eco in questi scritti di Giu- liano, che pure apparteneva a una generazione diversa, che era gaio, curioso dell'avvenire, gen- tile, generoso, sorridente, solare, ma che, specie negli ultimi anni, nascondeva una vena di malin- conia, di insoddisfazione che affiora qua e là negli scritti di questa raccolta più che altrove. Forse perché ha più spazio qui E ricordo di mae- stri e amici scomparsi, di un mondo che ormai è quello di ieri, forse perché l'immagine di Roma conservata neEa memoria cozza con queEa che gli si para davanti agli occhi ogni giorno. Era la Roma deEa Frascatana in vicolo del Mancino, dove un gruppo di giovani antifascisti intorno a Carlo Ludovico Ragghianti si ritrovava ogni sera, queEa della terrazza deEa bella casa di via Giulia, dove Giuliano con l'architetto Busiri Vici guardava passare in alto le fortezze volanti americane. Nostalgia forse è la parola, un velo ne traspare neEa nitida levità deEa scrittura. ■