N. 5 Idei libri del mese! 40 8ì So so so OD Kj GQ Ian Ferguson, Un villaggio di piccole case, ed. orig. 2003, trad. dall'inglese di Seba- stiano Pezzani, pp. 206, €16, Mattioli, Parma 2007 Premiata come migliore romanzo umori- stico canadese del 2004, quest'opera in bilico tra memoire autobiografia si appro- pria dell'ironia come marca stilistica domi- nante non solo per ribadire il distacco del- l'autore rispetto ai temi e agli eventi tratta- ti, ma soprattutto per rivelare quanto tale distacco sia sinonimo equivalente di profondo coinvolgimento e lucida parteci- pazione. Il "villaggio di piccole case", oltre a essere il cimite- ro delle tribù indiane del luogo, è anche il villaggio di Fort Vermi- lion, remota cittadina perennemente ghiac- ciata all'estremo nord del Canada e prossi- ma al circolo polare. In questo posto "lonta- nissimo", il protagoni- sta ha vissuto la sua infanzia negli anni sessanta e, dopo "moltissimo tempo" ed essersi trasferito, ha deciso di raccontar- ne tutti gli aspetti che hanno particolar- mente influito sulla sua formazione. Il resoconto, avvalendosi di una prosa flui- da e cristallina, sviscera quelli che potrebbero sembrare eventi non memora- bili, ma che invece si rivelano nodali nel corso del tempo. Ogni episodio, anche il più tragico legato alla miseria e al disagio familiare, sembra passato attraverso il fil- tro dell'ironia, una sorta di lente di ingran- dimento e, al tempo stesso, di rimpiccioli- mento, capace di enfatizzare ciò che in tempo reale sembrava futile e marginale, e di sminuire ciò che invece sembrava fondamentale nella percezione infantile. Come nella tradizione della letteratura iro- nica, l'esagerazione e il ridimensionamen- to sono i due binari stilistici, insieme alle figure compresenti di pathos e bathos, su cui l'autore fa scorrere la sua infanzia, il risultato è una serie di accadimenti che sanno di irreale pur sembrando estrema- mente vivi nella coscienza del narratore, tutti nostalgicamente rimpianti e, al con- tempo, dignitosamente presenti. La vita in povertà, la casa senza corrente, la felicità per la costruzione del bagno intemo, gli acerbi sentimenti di amicizia e la purezza delle emozioni incontaminate legate ai primi film visti al cinema o a un Natale semplice ma autentico: tutti eventi che solo il vero distacco spaziale e temporale ha potuto riportare così violentemente e poeticamente alla luce. Federico Sabatini Clare Clark, L'anima dei mostri, ed. orig. 2007, trad. dall'inglese di Isabella Zani, pp. 441, € 18, Neri Pozza, Vicenza 2007 È di nuovo Londra il cuore pulsante del secondo romanzo di Clare Clark. Il gusto per la ricostruzione storica e la vivida immaginazione dell'autrice di II ventre di Londra, ambientato nella marcescente rete fognaria della fosca città vittoriana, ricreano qui una Londra da poco riemer- sa dalle ceneri del grande incendio del 1666. La cupola della St Paul Cathedral giganteggia sull'inferno chiassoso di una città affaccendata e in continua trasfor- mazione, seppure ancorata ad antiche credenze e superstizioni. Così perlomeno ce la descrive Eliza, voce narrante inge- nua e eroina esuberante di un romanzo di formazione, a metà tra il Gothic Novel e il romanzo storico. Le vicende narrate in retrospettiva da Eliza si intersecano agli scritti di Grayson Biack, il sinistro spezia- le londinese che la ospita nella sua casa- laboratorio per effettuare i suoi misteriosi esperimenti sulle donne incinte. Il doppio piano narrativo crea una sorta dì ironia tragica e, allo stesso tempo, tiene viva la suspense: è efficace sul piano del coin- volgimento del lettore, ma svela, per così dire, le incongruenze del punto di vista. Chi racconta è infatti una Eliza ormai adul- ta e trasformata dalla sua drammatica esperienza di ragazza-madre che, oltre a perdere il bambino subito dopo il parto, ha assistito anche allo sfruttamento per scopi scientifici della ragazza demente a servizio presso i Black. Va detto però che queste discrepanze strutturali non si nota- no durante la lettura, piacevolmente scor- revole. Le descrizioni, sempre minuziosa- mente dettagliate, sono evocative e sine- stetiche e alcune scene, soprattutto quelle più truculente, sono di forte impatto visivo. I mercati, le strade affollate, gli spettacoli di saltim- banchi brulicano di vita mentre i perso- naggi comprimari sono assolutamente bidimensionali. Soprattutto Grayson Black, l'uomo dal volto deformato che vuole creare mostri, vessando le donne gravide in vari modi. Le teorie paramedi- che e pseudoscientifiche dell'epoca, secondo cui le deformità fisiche erano causate dagli shock subiti dalle madri in gravidanza, sono state studiate con cura dall'autrice, ma la figura del suo speziale è come irrigidita nelle stereotipie del vil- lain di tanta letteratura gotica. Più a tutto tondo è il personaggio di Eliza, che subi- sce una radicale metamorfosi nell'arco del racconto e, al modo di Moli Flanders, non lamenta le sue sventure, non suscita compassione e, soprattutto, non azzarda giudizi morali. Susanna Battisti continue digressioni, il passare a setaccio ogni minima situazione potenzialmente narrativa, appaiono oggi come finte di corpo che non disorientano più nessuno. Roberto Canella Donald Antrim, Il verificazionista, ed. orig. 2000, trad. dall'inglese di Matteo Colom- bo, pp. 180, € 12,50, minimum fax, Roma 2007 A conti fatti, La vita dopo ha segnato un punto di non ritorno per capire appieno la figura di Antrim e rivalutarne l'opera. Lo scrittore americano in quel libro (pubblica- to l'anno scorso da Einaudi) abbandonava la prosa funambolica e le trame surreali per raccontare una dolorosa storia familia- re attraverso il suo rapporto con la madre. Libro lucido e dolente come pochi, rischia di restare il suo migliore, al di là che dietro ci sia una storia vera, per l'inesausta volontà di guardare in faccia la verità degli affetti. Altro è l'Antrim romanziere, certa- mente non meno bravo, ma che, sia a livello formale sia sul piano dei contenuti, mostra una visionarietà che non di rado sfocia nel colpo a effetto. Tanto in Votate Robinson per un mondo migliore (mini- mum fax, 2002) che in Cento fratelli (mini- mum fax, 2004) fino a questo II verificazio- nista, il problema di fondo non è quindi l'e- silità della trama, ma l'esito finale. Parti riu- scite come quelle in cui Tom si ritrova per magia con Rebecca, la giovane camerie- ra, nel Bosco della Battaglia, o quelle in cui medita sul suo ménage matrimoniale fino ad arrivare al "risveglio" delle ultime pagine, vengono smorzate da una scrittu- ra spesso fuori controllo. Intendiamoci: Antrim è uno di quelli che come Foster Wallace è in grado di fare un periodo lungo una pagina senza batter ciglio, ma, come altri autori della sua generazione, ha una scrittura proliferante che oltretutto non ha niente a che vedere con l'affabuiazio- ne. Del resto il romanzo è stato pubblicato originariamente nel 2000, in un momento in cui era forse ancora possibile apprez- zarne quantomeno la concettualità. Ma i periodi interminabili (quando ci sono), le Jerry Stahl, mezzanotte a vita. La memo- ria di un uomo pericoloso, ed. orig. 1995, trad. dall'inglese di Marco Simonelli, pp. 397, € 18, Leconte, Roma 2007 Nonostante il pregiudizio per un tema sfruttato e spesso banalizzato come quel- lo della droga, il romanzo di Stahl sor- prende per la volontà di spingere la rifles- sione al di là del filone di una dipendenza autocompiaciuta e fintamente decadente e di presentare un'analisi attenta di mec- canismi psicologici più generali. Mezza- notte a vita è la storia della sua vita e, soprattutto, del suo mestiere di "scrittore americano" (all'inizio per riviste patinate e poi per la televisione). Un mestiere che lo porta a compensi inimmaginabili e a pre- stigiose collaborazioni, come quella con David Lynch per Twin Peaks. La tossico- dipendenza, insidiatasi nella prima giovi- nezza, lo conduce però alla rovina e a distruggere una vita per molti invidiabile. Da qui, una resa tagliente della cultura californiana, spesso sgradevole nella prosa cruda con cui l'autore descrive una meschinità codificata dagli imperanti det- tami socioeconomici. Los Angeles è infat- ti una location terrificante e raggelata, un paesaggio in cui gli alberi rigogliosi divengono piante carnivore e si mescola- no, nello sfondo, alle innumerevoli pile di sceneggiature che traboccano, quasi con tratto espressionistico, dagli uffici dei pro- duttori. Lo stile assume così un lirismo poetico quando il narratore specula sui meccanismi della vera scrittura, non quel- la economicamente fruttuosa, ma quella che esprime la realtà della vita umana. Nel contra- sto, la sua crisi di identità, alimentata dall'effetto della droga, si acuisce: né un vero tossico- dipendente sprezzante del sistema, né un vero borghese inserito nello stesso. Un uomo sensibile e poetico è dunque quello che traspare dalle parole sordide e disa- dorne di Stahl, un uomo che deve drogar- si per scrivere testi televisivi e che, per "scrivere veramente", affronta le difficoltà del processo di disintossicazione, ma anche quelle esistenziali legate alla (non) ispirazione letteraria, giungendo infine alla stesura di questo primo, notevole, romanzo. (F.S.) delle più suggestive immagini che cattu- rano l'uomo e lo scrittore nei momenti più intimi del quotidiano, così come durante la guerra e i numerosi viaggi che contri- buirono a crearne la leggenda. Il libro ripercorre cronologicamente la vita del- l'autore a partire dall'infanzia, si sofferma sul tormentoso rapporto con la madre che gli faceva indossare abiti femminili, e approda alle mirabili immagini dell'intenso periodo parigino, in cui Hemingway entrò in contatto con Joyce, Pound, Gertrude Stein. E poi ancora istantanee della guer- ra di Spagna, il periodo cubano, l'Estremo Oriente, le stanze in cui batteva a mac- china in piedi, le donne amate, i figli, i toreri, le battute di caccia in Africa, le serate passate a bere nei locali dell'Ava- na. Le immagini, corredate da una sinteti- ca ma puntuale didascalia, hanno il pote- re evocativo di farci rivivere quella vita che venne raccontata quasi in tempo reale e, nelle somiglianze tra lo stile asciutto e nitido dello scrittore e la vibran- te e cristallina limpidezza delle foto, il libro ha il merito di far scaturire nel lettore ulte- riori riflessioni sulle molteplici e sfaccetta- te modalità espressive che permettono di raccontare un'esistenza, di trasmetterla e, soprattutto, di fissarla e farla rivivere nel tempo. (F.S.) Album Hemingway, a cura di Eileen Roma- no, con un saggio biografico di Masolino d'A- mico, pp. 273, €15, Mondadori, Milano 2007 Album Hemingway nasce in seguito a una cospicua donazione dell'ultima moglie di Ernest Hemingway, autrice indi- retta di questo libro particolarmente pre- zioso: la biografia foto-iconografica di uno degli scrittori più popolari del Novecento, uno dei primi ad aver raggiunto con forza, e grazie anche al mezzo fotografico, quel- la visibilità, per molti eccessiva e morbo- sa, tipica della nostra era mediatica. Numerosi furono infatti i fotografi che ritrassero Hemingway in quella varietà di contesti e di situazioni che rispecchia la sua rutilante esistenza: il padre, appas- sionato di foto e autore delle prime e gra- ziose immagini infantili; l'amico Bill Smith, che lo ritrasse nelle innumerevoli attività sportive dell'adolescenza; Man Ray, con cui Hemingway instaurò un sodalizio negli anni parigini; l'amico Robert Capa, autore Thomas Pynchon, Un lento apprendista- to, ed. orig. 1984, trad. dall'inglese di Massi- mo Bocchiola, pp. 203, €11, Einaudi, Torino 2007 Proposti in una nuova traduzione, i cin- que racconti che compongono questo testo si presentano di sicuro interesse per gli estimatori dell'autore di romanzi fonda- mentali del Novecento come V e Gravity's Rainbow. Il taglio della raccolta è del resto, come annun- ciano sia il titolo in traduzione sia quel- lo, leggermente più autocritico e ironico, in lingua originale (Slow Learner), di dichiarata riconside- razione delle opere giovanili dell'autore alla luce dei suoi esiti più maturi. È questo anche il senso della lunga introduzione che Pynchon stesso offre ai lettori e che forse permette di fruire della raccolta come di una sorta di laboratorio di scrittura, ricco di indicazioni "rispetto a certe pratiche da cui forse ai giovani scrittori non spiacerà guardarsi". Lo sguardo di Pynchon su questi primi tentativi letterari è in effetti sospeso fra la critica impietosa e una certa tenerezza, e sincero nell'ammettere gof- faggini, falsificazioni e anche palesi errori dettati dall'entusiasmo giovanile e dalla ingenua osservanza del "motto 'fanne let- teratura'". Al di là di questo, i racconti sono ricchi di quegli spunti che Pynchon svilup- perà nei ben più articolati e compiessi impianti narrativi dei suoi romanzi, a parti- re dal fondamentale concetto di "entropia". Proprio a Entropia Pynchon riserva tuttavia le critiche più severe, osservando come il racconto parta dal presupposto sbagliato della dimostrazione di un'idea astratta, e rimanga per questo incapace di cogliere davvero l'elemento umano nella rappre- sentazione. Queste riflessioni, unite alla dura autocritica nei confronti di un lavoro sui linguaggio all'epoca ancora acerbo e impreciso, forniscono l'elemento più pre- zioso del testo, che dà modo di riflettere, con l'esempio concreto dei racconti, sul lungo processo che porta un autore al raf- finamento della propria tecnica. Pynchon ci ricorda infatti come, in opposizione ai ritmi frenetici della produzione, anche arti- stica, contemporanea, la scrittura debba inevitabilmente rimanere un processo lento e meditato di evoluzione. Teresa Prudente