Recitar cantando, 27 di Elisabetta Fava e Vittorio Coletti Wozzeck di Alban Berg e Trittico di Giacomo Puccini: ecco due frutti del primo Novecen- to, usciti da linee stilistiche diversissime, ma ugual- mente rappresentative, che anche questo mese ci hanno ricondotto alla Scala. Ci sono lavori così esemplari per forma, contenuto ed emozioni da diventare icone di un intero periodo stori- co, sintesi ideali di un modo di sentire e di comunicare. Il Wozzeck di Alban Berg (che abbiamo visto alla Scala a fine febbraio) rientra senza dubbio in questa catego- ria: è una perfetta Literaturoper, vale a dire un'opera composta direttamente sul testo originario, senza il pas- saggio intermedio dal libretto; e già questo aspetto incarna una tendenza sempre più insistita del teatro novecentesco. Il testo, poi, è quello del Woyzeck di Georg Biichner, che ai primi dell'Ottocento prodigiosa- mente presagì e sinterizzò tutto ciò che cento anni più tardi sarebbe stato inteso sotto il nome di espressioni- smo. E proprio questa esemplarità, unita a quel capolavoro di continuità drammatica e di tenuta formale che è la partitura di Alban Berg (in scena nel 1925), rischia paradossalmente con il tempo di apparire così legata a un periodo, così condizionata dalla sua temperie da escluderci quasi dalla vita- lità delle sue emozioni. La vicenda del soldato Wozzeck (Woyzeck nell'origi- nale, modificato non per ragioni foni- che, ma per un'erronea lettura della terribile scrittura gotica corsiva), uomo qualunque, anzi, uomo fragile, oppres- so dalla vita, tormentato dai suoi supe- riori, è di una disperazione senza usci- ta; non più facile la condizione di Marie, la donna che gli ha dato un bimbo, involontaria vittima delle fru- strazioni di Wozzeck, il quale alla fine, vedendosela poi portar via da un cini- co tamburmaggiore, perde la testa, la uccide e poi, impazzito, si uccide. Un vero caso di cronaca nera, vissuto però da dentro, partendo dalle allucinazioni dei personaggi, dagli incubi che li accompagnano e che finiscono con E deformare il pae- saggio stesso, sicché un tramonto non sarà poeticamen- te rosso come il fuoco, ma apocalitticamente rosso come E sangue. Da questo accumularsi di iperboli tragiche deriva la necessità di una direzione musicale lucida, tesa, che non lasci prevaricare ciò che all'epoca appariva moderno (anzi, scandalosamente rivoluzionario e fin "pericoloso"), ma porti a galla ciò che ancora di moderno noi oggi troviamo. Magistrale in questo senso l'impegno di Daniele Gatti sul podio deEa Scala (con la collaudata regia di Jurgen Flimm), in una lettura del Wozzeck attenta ai silenzi, alle afasie, ai tremiti interio- ri, più che al grido, all'esasperazione, che già il testo porta con sé per vie naturali e ineludibEi. E così resta- vano impressi soprattutto la dolcezza esEe e straziata della celesta, sempre unita a uno sguardo d'affetto verso il bimbo di Wozzeck e Maria, o il nervosismo insolito dello xilofono, che fa trapelare il senso di colpa e quasi di involontario fastidio con cui Maria si rivolge al bimbo dopo aver tradito E padre; o ancora quel sospetto di tensione che lascia i nervi a fior di pelle anche nei momenti di trasporto amoroso, sia fra i protagonisti, sia a maggior ragione con l'odioso tam- burmaggiore; o infine l'abbandono struggente dell'ul- timo interludio, quando, a tragedia ormai consumata, l'autore fa capolino con uno sguardo amoroso verso le sue creature e sopisce le tensioni in un impossibile gesto consolatorio. Se l'orchestra era un caleidoscopio di colori, di sfu- mature, di intensità variabili, con morbosa sensibilità, non da meno sono stati i protagonisti, specialmente la Maria di Evelyn Herlitzius, così tenera e selvaggia insie- me, capace di toni viscerali e di sussurri, e in scena brava e seducente come un'attrice purosangue. Attore senz'altro anche Georg Nigl, Wozzeck: più di tutto resta nella memoria E tono stupefatto con cui mormora: "Was woUen Sie damit sagen?", che cosa intende dire?, quando capisce da un'aUusione di essere stato tradito; o E gesto sgomento con cui si tappa le orecchie aE'osteria, per non sentire più quel vociare, pure in apparenza aUe- gro, ma per lui infernale. Insomma, quando le voci sono importanti, i movimenti ben curati e meditati sul testo e sulla partitura, sarebbero miUe i momenti da ricordare; e l'opera ci conquista proprio perché, al di là dei climax emotivi più risaputi, riscrive E dramma partendo da pic- coli gesti, commessure Et ombra, indizi dall'apparenza futile, ma carichi di senso. Le scene (Erich Wonder) erano meno persuasive, rispetto a una gestualità così curata: funzionali, ma senza quell'attenzione ai colori degli ambienti, al gioco di esterni e interni, di luce e ombra che sono così impor- tanti in Biichner e che Berg sottolinea (almeno la luna rosseggiante, con E suo simbolismo sinistro!). Buona l'i- dea di ricuperare durante gli interludi, in brevissime scene mimate, alcune parti del dramma che Berg si vide costretto a tagliare per ragioni di tempo e di proporzio- ni interne (E suo Wozzeck si compone di tre atti suddi- visi ciascuno in cinque quadri, nell'intento, riuscitissi- mo, di ottenere non solo efficacia drammaturgica, ma anche una compiutezza musicale autonoma); e così ci viene mostrato in un flash E momento cruciale in cui Wozzeck compra un colteEo; anche se E gusto di accompagnare gli interludi sinfonici con scene mimate rischia di svEirle a colonna sonora, e va quindi tenuto entro limiti rigorosi. (E. F.) Solo una manciata di anni divide E Wozzeck di Berg dal Trittico di Puccini (nel cartellone sca- ligero al mese di marzo). E non si creda che la tri- logia degli atti unici pucciniani sia tanto più retro o vecchia scuola dell'opera dell'austriaco di cui Sull'Indice di giugno, LìndicE della ScuolA 1 prossimi numeri usciranno a settembre e dicembre del2008 Scuola e Costituzione, riflessioni sul voto degli inse- gnanti, studenti tra internet cellulare e mode, la letteratura è in pericolo? Per abbonarsi: tel. Oli 6689823 - fax. 011 6699082 abbonamenti@lindice.com abbiamo appena parlato. Certo, è, diciamo, più suo coevo che contemporaneo. Ma non più antico o amica- to. È solo di una modernità meno d'avanguardia e più superficiale, o forse soltanto diversa, latina. È roba di scuola italiana, che poteva condurre l'opera al musical e a Bernstein, ma non ai grandi e terribEi atti unici tra- gici di Hindemith. Comunque E Trittico non è un resi- duo del passato. Non lo è nell'atto più intenso, il Tabar- ro (da un noir di Didier Gold, libretto di Adami) una sorta di "CavaUeria urbana e proletaria", con tanto di grido e di adulterio consumato e vendicato, solo che invece dei canti pasquali sicEiani risuonano suEo sfon- do i clacson delle automobEi che corrono sul lungo Senna dov'è ancorata la chiatta del miglior baritono di tutto Puccini (Michele, più intenso deEo stesso catti- vissimo Scarpia). Non lo è, opera di roba fuori moda, neppure neE'atto più debole, più povero di idee musi- cali, Suor Angelica (libretto di Forzano ispirato a una pièce di artisti di strada), in pieno stEe floreal-dannunziano, che neanche la straordinaria Svetla VassEeva sentita aUa Scala riesce a riscattare dalla inde- finitezza noiosa, ma che comunque riprende e rilancia le delicatezze nip- poniche della Butterfly. Men che mai 10 è nello straordinario Gianni Schicchi (ancora Forzano da un episodio deEa Divina Commedia), forse l'unico (con 11 Falstaff) seme di modernità piantabi- le in Italia, nel cui Novecento il senso della tragedia non mai trovato terreno favorevole. La direzione di Chailly, a Milano, ha ben mostrato le qualità dell'ultima (o quasi) scrittura pucciniana, capace da sempre di varietà stilistiche radica- li (Cavaradossi - Sacrestano in Tosca, Des Grieux - Lescaut in Manon) e qui intenta a situarle in tre quadri distin- ti e collegati proprio dalla varietà. Per il progetto Puccini aveva addirittura pensato al Gor'kij dei Racconti della steppa, ma poi si era accontentato di quello che gli avevano proposto i librettisti di casa. E i risultati non sono mancati, per- lomeno nel Tabarro e nello Schicchi, solidi e ben con- gegnati anche drammaturgicamente; e persino la sdolcinata Suor Angelica si difende sul piano musica- le, con squarci da poema sinfonico francese e punte di intensa drammaticità (duetto soprano-contralto). Il ruolo dell'orchestra è straordinario, nel Trittico, sia nel disegno degli ambienti (sottomondo cittadino moderno, convento secentesco, Firenze comunale), sia nell'autonoma funzione drammatica, nel Tabarro e in Suor Angelica, che, in Gianni Schicchi, nel ruolo decisamente ironico, teatralmente mosso (con il dop- pio e opposto registro dei due amanti e dei molti parenti, in un'opposizione alla Falstalff dei Fenton- Nannetta vs parentame e vicinato). Il pezzo meno fortunato e più spesso escluso dalla triade, del resto volentieri ridotta al solo Schicchi, Suor Angelica (che Ronconi ha trattato decisamente peggio di tutti e tre, mettendoci una statuona di orante sdraia- ta a far da scala e tappeto: e c'è chi ha lamentato che abbia avuto poche idee: era meglio se non ne aveva nessuna, come nel Tabarro)), ha dalla sua un cast solo femminile e un coro di voci bianche che insieme costi- tuiscono una scommessa vocale prebritteniana, anche se E latino delle litanie sa di Tosca e di Cavalleria, insomma di verismo torbido, tra incenso e palpeggia- menti, del tardo ottocento deEa provincia Italia. Certo da Berg può venir fuori Hindemith e E resto deU'espressionismo tedesco; mentre Puccini parla al XX secolo più con la Butterfly che con Suor Angelica. Ma lo Schicchi poteva ispirare anche i russi (si pensi a Mavra di Stravinskij o al Naso di àostakoviè) e poteva comunque costituire una scommessa sul futuro deH'o- pera aU'italiana, se non avesse rinunziato ad averne uno, seppellita sotto E suo ultimo capolavoro, la sua Turan- dot, E primo e ultimo e grandioso affresco postmoderno del teatro cantato. (V.C.) Segnaliamo che, nello scorso numero dell'Indice" que- sta rubrica era stata erroneamente numerata. Ce ne scu- siamo con i recensori e con i lettori.