N. 1 Idei libri del mese| 29 Classici Classici Poesia Letterature Comunicazione Lilosofia Politica italiana Internazionale Bernard Le Bovier de Fontenelle, La cometa, ed. orig. 1681, a cura di Alberto Musoni, pp. 100, € 9, il melangolo, Genova 2007 Il 26 dicembre 1680 tutta Parigi contemplò meravigliata il passaggio di una delle più grandi comete mai osservate: "La sua coda, che si vedeva fuoriuscire dai vapori all'orizzonte, era di un'estensione prodigiosa, e densa come un arcobaleno, di colore rossastro, larga all'incirca 2 gradi e 3 all'estremità". Era l'astro che avrebbe ispirato, tre anni più tardi, i Pensieri sulla cometa di Pierre Bayle. Fu l'occasione, per gli scienziati del tempo, di osservazioni, calcoli e dibattiti destinati a sgominare tutte le interpretazioni del fenomeno in chiave magica e superstiziosa. Il giovane Fontenelle, autore all'epoca soltanto di libretti d'opera e di una sfortunata tragedia, fu incaricato dal luogotenente di polizia La Reynie, da tempo impegnato in una lotta senza quartiere contro maghi e fattucchiere, di redigere il testo di una commedia d'impostazione razionalista e demistificante. Nacque cosi La cometa, commedia in prosa ispirata ai prototipi del teatro di Molière. Protagonista è un astrologo che, terrorizzato dall'apparizione della cometa, portatrice secondo lui delle peggiori sventure, rifiuta la mano di sua figlia Florice a Monsieur de La Forest, uomo di buon senso che vede nell'astro un semplice fenomeno naturale. I due giovani riusciranno a unirsi nonostante tutto, grazie all'aiuto dell'astuto servo Maturino. L'interesse della pièce, che all'epoca non ebbe alcun successo, sta soprattutto nella verve polemica contro gli ancora diffusissimi pregiudizi popolari e contro la venalità di astrologi e redattori di almanacchi. Molto informata ed esauriente l'introduzione del curatore e traduttore. Mariolina Bertini to finale, per difendersi pugnala, forse a morte, il suo oppressore. Come nota la curatrice, nonché traduttrice, siamo di fronte a un dramma in cui "l'estetica del sublime rivela appieno il suo potenziale sovversivo": istanze antitiranniche e ribellione femminile imprimono un orientamento nettamente libertario agli stereotipi del "gotico" trionfante e ormai in via di codificazione. (M.B.) Donatien-Alphonse-Frangois de Sade, La nuova justine ovvero le disavventure della virtù, ed. orig. 1797, trad. dal francese di Giancarlo Pon-tiggia, introd. di Lanfranco Binni, pp. 749, € 13, Garzanti, Milano 2007 La versione finale di Justine, di cui si ripropone qui una traduzione già apparsa nel 1978 presso Guanda, forma con l'Histoire de Juliet- Matthew Gregory Lewis, IL fantasma del castello, ed. orig. 1797, a cura di Giovanna Silvani, pp. 193, testo inglese a fronte, € 23, Bononia University Press, Bologna 2007 Nell'Inghilterra del 1797, la moda dei romanzi e dei drammi "gotici", ricchi di elementi sensazionali e ambientati in un medioevo immaginario, è nella sua fase più intensa. Matthew Gregory Lewis, che ha raggiunto la celebrità l'anno precedente, a soli diciannove anni, con il romanzo "nero" Il monaco, ottiene un altro clamoroso successo con questo dramma, meno trasgressivo e frenetico nell'intreccio, ma in gran parte fondato su temi simili e su un'analoga commistione di tragico e di comico. Gli ingredienti sono quelli già caratteristici dei fortunatissimi romanzi di Ann Rad-cliffe: in un castello ricco di passaggi segreti e prigioni sotterranee, il conte Osmond tiene prigioniera l'innocente eroina, Angela, per costringerla a sposarlo. Nel corso di cinque atti ricchi di peripezie, verranno alla luce i passati, sanguinosi delitti del villaine l'innamorato di Angela, il nobile Percy, riuscirà a portarla in salvo. Tra gli elementi che all'epoca segnarono il successo dell'opera, c'è la figura complessa e affascinante del malvagio, quasi una prefigurazione dei tormentati eroi byroniani, l'impressionante apparizione del fantasma di una gentildonna assassinata e la presenza di quattro giganteschi schiavi neri, animati da un feroce risentimento nei confronti degli europei che li hanno strappati alla patria e alle famiglie. Inoltre, la fanciulla perseguitata non ha un ruolo meramente passivo, ma nel concita- te ii grande dittico sadiano del 1797-98: un esperimento di scrittura totale in cui la fantasia romanzesca più sfrenata si intreccia alla riflessione filosofica (un radicale ateismo materialistico) e a forti tentazioni pedagogiche (già chiare nella Philosophie dans le Boudoir). Le scene di violenza e di sesso, le raffinate descrizioni di paesaggio e le peripezie narrative: tutto si unifica in nome di quell"'energia" che governa l'universo naturale e di cui la scrittura del romanziere è fedele riflesso ("Come! Vedete che, in natura, tutto è in movimento, e pretendete di affermare che la natura non ha energia!"). Il tema è caratteristico della cultura settecentesca, come quello ancora più antico della sensibilità e del piacere legati alle sollecitazioni dello "spirito animale" che circola nelle cavità dei nervi. Di questo naturalismo, tuttavia, Sade fornisce un'interpretazione estrema, portandolo alle ultime conseguenze sul piano morale e politico: nasce così la sua utopia, il suo sogno di un mondo e una vita assolutamente liberi, dove il "male" si trasforma paradossalmente nell'epifania della verità. All'utopia appartiene del resto il furore classificatorio sadiano, la sua mania di totalità, di chiudere il mondo in un perfetto catalogo: le perversioni e le manie (come nelle Cent vingt journées de Sodome), ma anche i volti e i paesaggi, i casi della vita e i generi letterari (come in Aline et Valcour). È un sogno di precisione che ispira in profondità anche il magnifico francese di Justine, l'eleganza ineguagliata di una lingua e uno stile, destinati a perdersi (irrimediabilmente) nella traduzione italiana. Rinaldo Rinaldi bati da un copista e da lui rivenduti, erano approdati nel 1852 alla Bibliothèque Nationa-le e di lì nelle mani di Sainte-Beuve, da sempre curiosissimo di tutti i retroscena della vita di Chateaubriand, della cui opera autobiografica aveva per primo messo in dubbio pubblicamente la veridicità. È proprio quella Confessione il testo che leggiamo in questo libretto: ma si tratta davvero di una confessione? Di una pagina - così la definiva ancora Sainte-Beuve - "strappata dalle memorie d'oltretomba"? La voce che racconta, in prima persona, è quella di un uomo ormai vecchio, che si trova di fronte all'offerta d'amore di una donna giovanissima. Tentato, straziato da un desiderio tanto violento quanto impossibile, finisce per respingerla: "Se mi dirai che mi ami come si ama un padre, inorridirò; se sosterrai di amarmi come un'amante, non ti crederò. In ogni uomo giovane vedrò un rivale che mi sarà preferito. Sai che basterebbe un certo tuo sorriso a mostrarmi la profondità dei miei mali come un raggio di sole che illumini un abisso?". Siamo davvero sul terreno dell'autobiografia (non mancarono, tra le ammiratrici dello scrittore ormai maturo, le fanciulle affascinanti), oppure Chateaubriand dà voce in queste pagine a un René invecchiato, resuscitando l'eroe del suo fortunato romanzo giovanile? Su questo si interroga Fumaroli nel bel saggio che chiude il volume, sottolineando anche il carattere peculiare del cristianesimo di Chateaubriand, fondato a suo parere su un'antiascetica "comunione dei peccatori". (M.B.) Francois-René de Chateaubriand, amore e vecchiaia, ed. orig. 1862, a cura di Marc Fumaroli, trad. dal francese di Ena Marchi, pp. 49, € 5,50, Adelphi, Milano 2007 Nel 1862, quattordici anni dopo la morte di Chateaubriand, Sainte-Beuve, il più autorevole critico del tempo, pubblicò un inedito dello scrittore, che intitolò Confessione delirante. Si trattava di un manoscritto che l'autore avrebbe voluto distruggere; i quattordici fogli, ru- Léon Daudet, Il viaggio di shakespeare, trad. dal francese di Donatella Dini, pp. 367, €18, Robin, Roma 2007 Uno Shakespeare ventenne, con la sola compagnia di un volume di Plutarco nella bisaccia, parte dall'Inghilterra alla ventura, per un viaggio che lo porterà, attraverso l'Olanda e la Germania dilaniate dalle guerre di religione, sino alla lontana Danimarca. A ogni tappa, qualche incontro significativo interverrà a destare nella sua mente i fantasmi delle sue creazioni future; la figlia di un oste olandese suicida per amore o un giovane contadino danese pieno d'odio per il patrigno, trasfigurati dall'immaginazione, daranno così origine a Giulietta e ad Amleto, sullo sfondo di un'epoca tormentata e violenta ma vitalissima, tra alchimisti, gesuiti, anabattisti, attori, pittori, mercanti, mercenari e cortigiane. Per apprezzare veramente questo romanzo fantasmagorico, è opportuno riconoscere nello Shakespeare che ne è il protagonista un alter ego dell'autore, il grande polemista reazionario Léon Daudet, figlio del romanziere Alphonse e grande amico di Marcel Proust, che gli dedicò / Guermantes. Daudet pubblica II viaggio di Shakespeare nel febbraio del 1896 (non c'è traccia di questa data nell'edizione italiana: il copyright rimanda all'edizione del 1929, la quarta di copertina tace). Pia ventinove anni. Un anno prima, convinto della colpevolezza di Alfred Dreyfus, ha assistito alla degradazione del capitano ebreo, e l'ha descritta in una pagina giornalistica di terribile efficacia. È probabilmente al ricordo di quell'evento che rimanda la ripugnante figura dell'ebreo Rabbas, sordido padre incestuoso di una splendida figlia, che incontriamo, con un certo disagio, nel quarto capitolo. Un'introduzione che presentasse senza reticenze Léon Daudet al lettore italiano e contestualizzasse storicamente questo sontuoso romanzo visionario sarebbe stata la benvenuta. (M.B.)