N. 1 Storia Forza visionaria di Daniele Rocca Alessandro Campi L'OMBRA LUNGA DI NAPOLEONE Da Mussolini a Berlusconi pp. 163, €11, Marsilio, Venezia 2007 In questo volume, frutto delle ricerche condotte per il convegno milanese del dicembre 2005 sul rapporto fra Napoleone, il bonapartismo e la cultura politica italiana, Alessandro Campi, docente di storia delle dottrine politiche a Perugia, già autore di uno studio sul ruolo occupato da Mussolini nell'immaginario storico degli italiani (.Mussolini, il Mulino, 2001), attraverso una ricca e preziosa documentazione si ripropone di spiegare, da un angolo di visuale inedito, la "tentazione ricorrente" del potere assoluto. Non si occupa dunque di quel "complesso di Napoleone" che qualcuno ritiene di incontrare in Putin o Sarkozy, bensì d'un certo tipo di mentalità: il napoleonismo mussoliniano e berlu-sconiano. Il punto di partenza viene individuato nel "fanatismo napoleonico" di Gabriele D'Annunzio, concomitante con una vera e propria moda che caratterizzò l'inizio del secolo scorso in Italia. Ne sono testimonianza le settanta pellicole con al centro la figura del generale di Francia girate fra il 1907 e il 1921, cioè già prima del fascismo. Al proposito, tra i fascisti non si registrò unanimità. Vi fu chi, spesso peraltro con lo sguardo rivolto a Giulio Cesare, paragonò Mussolini a Napoleone, giungendo a trovare fra i due numerose somiglianze fisiche e a vedere nel capo del fascismo l'erede storico dell'imperatore, in grado, beninteso, di superarlo con il proprio genio (come in Mussolini motore del secolo di Ugo D'Andrea); vi fu d'altro canto chi, ad esempio Paolo Orano, ritenne Mussolini così superiore a Napoleone da rendere ingiustificato e oltraggioso ogni accostamento, soprattutto alla luce della drammatica fine del secondo - e dire che proprio quest'ultimo aspetto, più d'ogni altro, seduceva in realtà lo stesso Mussolini, per il motivo romantico delle sventure toccate agli italici geni, da Dante a Foscolo (e Napoleone, ai suoi occhi come a quelli di molti altri, era un italiano). Nel 1928 Emil Ludwig impostò la questione in termini quanto mai netti. Egli scorgeva in Mussolini essenzialmente un politico, in Napoleone un militare; nel primo un mirabile creatore, nel secondo un fenomenale conquistatore (visione certo riduttiva nei confronti di Bonaparte). Peraltro, dopo la caduta del regime, Giuseppe Bottai, pur non arrivando a definire il fondatore del fascismo uno "pseudo-Napoleone" (Salvemini), giudicò un suo limite proprio quello di non essersi saputo adattare al contesto storico nazionale servendosi delle forze in esso presenti, invece che ostacolarle o reprimerle, e, dunque, di non essere stato un politico di rango. Anche la critica di Curzio Malapar-te, formulata già fra le due guerre, toccò un nervo scoperto del mussolinismo. Era stato Napoleone, scrisse l'autore di Tecnica del colpo di stato, a inventare quella "tecnica della divinità artificiale" che Mussolini avrebbe poi semplicemente fatto propria, allo scopo di prendere il potere e tenerlo in pugno: nessun genio, nessuna innovazione, solo un'abile imitazione. Da parte sua, Mussolini sentì sempre, nei confronti del generale corso, quella che Campi chiama una "perdurante fascinazione". Ravvisava in lui il politico capace di conservare al mondo le migliori conquiste della Rivoluzione, ponendosi come straordinario homo novus, e di avviare la rinascita dell'Italia. E non cessò mai di rispecchiarsi in quella grande figura del passato. Campi nota come, significativamente, il Mussolini del primo fascismo ammirasse in Bonaparte il legislatore, quello dell'impero il grande capo militare. Fermo restando quanto accennato sopra: "Della vita di Napoleone m'incanta l'epilogo", diceva. Cosicché non stupisce che collaborasse anche alla stesura di un'opera teatrale sui Cento giorni (Campo di maggio di Gioacchino Forzano, 1930). E gli antifascisti? Dal napoleonismo di Mussolini essi trassero spunto per una satira tesa a ridicolizzarlo, in particolar modo attraverso vignette satiriche; alcune delle più brillanti, all'epoca pubblicate sulla stampa estera o clandestinamente in Italia, vengono qui riportate. Nell'esaminare il rapporto fra Berlusconi, Mussolini e Napoleone, l'autore deplora come un'ampia parte della pubblicistica di sinistra abbia banalizzato tale interessante questione a fini meramente denigratori (pur non potendo negarsi, aggiungiamo noi, che al momento della sua "discesa in campo" Napoleone avesse, rispetto al suo illustre emulo di Àrcore, qualche conto aperto in meno con la giustizia). In Silvio Berlusconi viene riscontrata da un lato una "forza visionaria" che lo avvicina - si parva licet - all'imperatore corso, e che, oltre a suscitargli una sorta di "aspirazione bonapartista", unitamente al controllo di un "impero" televisivo ha molto giovato alle sue sorti elettorali nell'era della videopolitica; dall'altro un napoleonismo di fondo, nella cui ottica Napoleone costituisce il più perfetto modello storico di self-made man. ■ danroc!4@yahoo. it D. Rocca è insegnante e dottore in storia delle dottrine politiche all'Università di Torino Sclerosi crescente di Rinaldo Rinaldi Giuseppe Galasso CARLO V E SPAGNA IMPERIALE Studi e ricerche pp. 236, €48, Storia e Letteratura, Roma 2007 L5 immagine della Spagna "imperiale" fra Carlo V e Filippo IV è dominata ancor oggi da una "leggenda nera" che ne identifica le sorti con la stagnazione economica, l'immobilismo sociale, la repressione religiosa e politica. Ricordiamo tutti la seicentesca Milano spagnola di Don Rodrigo e del conte Attilio, ricordiamo l'eloquenza del podestà manzoniano sul conte-duca che è una "volpe vecchia", "con quella sua testa, con quelle sue strade coperte, con que' suoi fili tesi per tutto". I saggi raccolti nel volume di Giuseppe Galasso, grande specialista di storia spagnola e napoletana, mirano precisamente a ridimensionare se non a capovolgere questa leggenda, tracciando un profilo moderatamente "progressivo" dell'impero su cui - come si diceva allora -non tramonta mai il sole. L'applicazione del principio politico-giuridico che riconosceva uguale sovranità a tutti i domini della composita monarchia spa- CARI.OV E SPAGNA IMPERIALE gnola (no reconocer superiori permise a Carlo V e ai suoi successori di affermare la propria legittimità dinastica come un potere centrale gerarchicamente più elevato. Ed esso operò prima come guida e "strumento di pressione per mediare" e superare una crisi religiosa gravissima, poi per affermare gradatamente il ruolo dominante della potenza spagnola in Europa. È precisamente sulla natura "moderna" di tale progetto che il libro di Galasso insiste con energia, presentandoci Carlo non come l'erede della tradizione medioevale del Sacro romano impero, ma come "0 primo dei grandi sovrani intesi a conseguire, su una salda base di potenza, l'egemonia continentale". La posizione privilegiata della Castiglia e il fortissimo "ancoraggio" religioso della monarchia spagnola, pur salvaguardandone la laicità, gettarono le fondamenta di una progressiva "centralizzazione" decisionale e amministrativa. Questa, associandosi a un controllo crescente esercitato sull'aristocrazia, permise alla Spagna di recitare una parte di primo piano e di fungere da "pilastro portante nella storia della formazione dell'Europa", alla pari con la strategia anch'essa "imperiale" della Francia di Luigi XIV. Disegnando con mano sicura una simile prospettiva, lo storico non può negare che la po- Il diritto di punire STOMAElLTTMATVItA litica spagnola fosse "di conservazione", ma sottolinea l'esigenza di un giudizio più sfumato: riconoscere "la doublé face conservatrice e dinamica" di una vicenda lunga e complessa significa non solo aprire un nuovo orizzonte sul siglo de oro, ma anche ricostruire in modo approfondito la memoria europea dell'età moderna. Finale incarnazione di questo progetto egemonico di grande respiro, negli anni trenta del Seicento, fu la politica del primo ministro di Filippo IV, il famoso conte-duca Gaspar de Guzmàn y Pimentel. La vera "decadenza" della monarchia spagnola, ribadisce Galasso, non risale certo all'età gloriosa di Filippo II, ma solo al periodo successivo, segnato da una preoccupante crisi finanziaria e da una crescente "sclerosi" amministrativa che ridimensionarono il ruolo internazionale della Spagna. Il suo impero europeo e adantico sopravvisse comunque nell'immaginario collettivo, con luci e ombre, confermandone per sempre il profilo di temibile potenza. Come diceva Bortolo a Renzo nei Promessi sposi, con parole qui opportunamente ricordate: "Si tratta della Spagna, figliuolo mio; sai che affare è la Spagna?". ■ rrinaldi@unipr.it R. Rinaldi insegna letteratura italiana all'Università di Parma Ottavia Niccoli PERDONARE Idee, pratiche, rituali in Italia tra Cinque e Seicento pp. 238, € 18, Laterza, Roma-Bari 2007 Perdonare chi ci ha offeso è "un fatto totalmente personale e intimo", ma nello stesso tempo è "un processo totalmente sociale, perché concerne i rapporti fra uomo e uomo". Affrontiamo questa paradossale verità nella vita di ogni giorno, spesso ingigantita da clamorosi casi giudiziari o dall'eco di grandi tragedie storiche: nella questione della Shoah, per esempio, l'obbligo del ricordo è strettamente legato al problema del perdono. Ritrovare allora questo motivo, con i suoi risvolti religiosi e insieme giuridici, in un libro dedicato all'Italia tridentina, è la miglior dimostrazione di quanto ricca di sfumature e impreviste corrispondenze possa essere la ricerca storica: di quanto i comportamenti del passato abbiano contribuito a edificare il nostro presente. Ottavia Niccoli esamina innanzitutto le radici religiose del tema e il suo rapporto con il concetto di "dono" o "grazia": descrive una pratica giudiziaria alternativa a quella istituzionale dello stato, che si ispira alla misericordia divina con la mediazione della chiesa. Nasce di qui una fitta rete di pratiche giuridiche compensative che attraversano il medioevo e la prima età moderna, diventando veri e propri strumenti legali supplementari o "infragiu-diziari": "frutto di una scarsa formalizzazione" del diritto pubblico e spostati sul versante più arcaico dei comportamenti privati, in nome di una pace sociale garantita dai rituali della disciplina ecclesiastica. Non a caso, i capitoli più stimolanti del saggio, arricchiti da una preziosa documentazione originale, sono quelli dedicati alla "rinuncia" e alla "pace": procedure che comportavano entrambe il "perdono" delle offese ricevute. Se la "rinuncia" si riferiva a singole trasgressioni o episodi isolati, la "pace", più complessa, mirava a neutralizzare conflitti prolungati fra singoli o fazioni; perfettamente speculare alla faida e come quella espressione di meccanismi sociali arcaici, essa contemplava un'articolata sequenza di segni e rituali (come il bacio sulla bocca o la charta re-missionis et pacis) e perfino forme di controllo giuridico su ogni attività di mediazione (come l'Assunteria delle paci a Bologna). Che tali pratiche di pacificazione privata e collettiva fossero strettamente legate alla coscienza religiosa e al dovere cristiano del perdono risulta evidente dall'importante ruolo e quasi dal monopolio degli ecclesiastici (ma anche delle confraternite laiche) in questo campo. Pensiamo all'energica attività della Compagnia di Gesù fra Cinque e Seicento, sempre interessata alle componenti teatrali e scenografiche della conciliazione sotto il segno di una ritrovata concordia civile ("lo spettacolo del perdono universale"). Pensiamo al "senso forte della comunità parrocchiale come luogo della composizione dei conflitti" nell'Italia d'ancien régime, con un rinvio della responsabilità giuridica a un gesto di grazia nel quale si rendeva visibile (per così dire) la superiore giustizia della divina provvidenza. Un simile intreccio di religiosità e di antichi comportamenti, come ben sottolinea Niccoli, non andava certo nel senso della modernizzazione sociale. Solo più tardi, all'alba di un'era nuova, Cesare Beccaria avrebbe dichiarato con lapidaria chiarezza: "Il diritto di far punire non è di un solo, ma di tutti i cittadini". (R.R.)