N. 1 Idei libri delmese| Volitica Socialismo e barbarie di Roberto Barzanti Giorgio Ruffolo IL LIBRO DEI SOGNI Una vita a sinistra raccontata a vanessa roghi pp. 138, € 14, Donzelli, Roma 2007 Il colloquio che Ruffolo ha intrattenuto viene trascritto senza incuriosite domande o interrogative sollecitazioni, e quindi non si sa fino a che punto sia responsabilità dell'intervistato l'elegante tono di leggerezza, che vela ellitticamente occasioni mancate e sinceri rimpianti più che lumeggiare le ragioni profonde degli scontri o delle sconfitte. Finendo così per risolversi in un promemoria che parla, più che ai giovani, a quanti le vicende evocate hanno conosciuto e, magari, vissuto. L'espressione scelta allusivamente per il titolo fu coniata da Amintore Fanfani, nel 1964, per bocciare con grossolana ironia le linee di programmazione patrocinate dal ministro del Bilancio Antonio Giolitti. Il quale, per Ruffolo, è stato un punto di riferimento costante, fino alla candidatura del Midas, che nell'accidentata toponomastica delle tortuose strade del socialismo italiano, indica la votazione che segnò, il 12 luglio 1976, l'ascesa alla segreteria di Bettino Craxi. Su di lui Ruffolo detta un severo giudizio, di quelli che vale la pena ritenere. Anzitutto gli nega la qualifica di modernizzatore e gli rimprovera una visione della politica tutta incentrata sui rapporti di forza e la convinzione che "la forza fosse in primis potenza finanziaria": "L'illegalità - aggiunge - in tal modo diventava non un costo ma un profitto della politica". Anche su Riccardo Lombardi appare più aspro di quanto ci si attenderebbe: malgrado l'invocato pragmatismo, osserva, ebbe una visione "cazzottistica" -brutto neologismo - della politica, alimentata da un'assai ardita insistenza sulle "riforme di struttura" quali strumenti finalizzati allo scardinamento dell'assetto capitalistico. Del resto, anche chi pronuncia questa amara presa di distanza fu abbagliato dalle sirene del trotzkismo e quindi non fu da meno nel sognare un'alternativa di sistema. Sulla quale non manca di scherzare, tratteggiando con humour sagome e equivoci. Ernest Man-dei, inflessibile economista con tendenze al talmudismo, se n'e- ra tornato da Milano contentissimo, perché aveva letto sui muri un mucchio di scritte attestanti una sorprendente passione internazionalista. Senonché Inter non era abbreviazione per l'Internazionale. Di Cornelius Castoriadis rammenta il "cra-pone calvo e lucido". Davvero sintomatico il lapsus in cui cade - o è innocente svista dell'intervistatrice? - parlando proprio della rivista da costui diretta. La quale da "Socialisme ou barbarie" diventa "Socialisme et barbarie". Il tremendo errore fa emergere le ombre di un imbarbarimento che non ha riguardato soltanto i regimi autoritari di un socialismo che si pretendeva "reale". Da aggiungere che pseudonimo di Castoriadis non fu il musicale Pierre Boulez, ma Pierre Chaulieu e talvolta anche Jean-Marc (non Jean-Marie) Cou-dray e altri. Si sa che la memoria gioca di questi scherzi, ma il criterio teorizzato da Rossana Rossanda, secondo cui gli abbagli di cronologia e nominazione vanno salvaguardati come intangibili documenti è editorialmente più che discutibile. I quattro nipoti ai quali il volumetto è rivolto rischiano di incappare in evitabile confusione. E con loro molti lettori di queste oneste pagine di critica riflessione. ■ roberto.barzanti®tin.it R. Barzanti è stato sindaco di Siena ed europarlamentare Pei, Pds e Ds La doppiezza del Pei Francesco Caccamo JIRIPELIKÀN Un lungo viaggio nell'arcipelago socialista pp. 134, € 14, Marsilio, Venezia 2001 Iprofessionisti del gossip pseudostoriografico hanno menato gran scandalo perché hanno scoperto che Jin Pelikàn, prima di essere alfiere della Primavera di Praga e strenuo portavoce del dissenso cecoslovacco in Europa, fu un duro stalinista, allineato con le intolleranti posizioni di Gottwald, severo e scientifico epuratore. Purtroppo la biografia di Pelikàn, che Caccamo ripercorre con seria probità, non ha nulla di sensazionale. E quella di un giovane che a diciassette anni viene arrestato dalla Gestapo per la sua attività di comunista combattente contro il nazismo e poi milita nel partito ubbidendo alla ferrea disciplina di quella stagione. Pelikàn, nei suoi scritti autobiografici, sorvola su quel periodo buio e drammatico, allorché, dopo il colpo di stato del 1948, diresse "la presa degli istituti universitari e la loro ripulitura dagli elementi reazionari". Quale presidente, dal 1956, dell'Uis (Unione internazionale degli studenti) - era succeduto all'italiano Giovanni Berlinguer - intrattenne buoni rapporti con chi asssisteva ai lavori nelle vesti di osservatore, con Marco Pannella, ad esempio, e con Paolino Ungari, dando prova di un certo anticonformismo. Con Novotny, però, non fu un frondista: se no non sarebbe stato chiamato, nel 1963, a dirigere la televisione di stato. Dove promosse un giornalismo vivace e si beccò qualche censura. Ma fu solo nel 1968 che abbracciò la causa del riformismo dubeekiano. E da quella Primavera contribuì con l'energia dei tempi an- dati a sostenere in ogni sede una lotta che era stata anche la sua, fino a essere eletto, nelle liste del Psi, deputato al parlamento europeo. In realtà, il suo desiderio era di poter aderire al Pei, dal momento che per trent'anni, dal 1939 al 1969, era stato comunista, come scrisse a Sergio Segre in una lettera del novembre 1976. Era forse un modo per sentirsi partecipe finalmente di un comunismo quale aveva sognato da ragazzo, ossia di un "socialismo democratico dal volto umano". Ma le porte gli furono sbarrate. Pajetta gli disse esplicitamente che dopo quel passo si sarebbe dovuto occupare di politica italiana per un'infrangibile "questione di principio". Ciascun partito era sovrano a casa propria: cuius regio eius religio. Finì così ospite indipendente nelle file del partito di Craxi e proseguì la sua battaglia con il gruppo di "Listy", non rinunciando a stigmatizzare "la sostanziale doppiezza del Pei nei rapporti con l'Est". La sua è dunque una biografia tipica delle peripezie e delle delusioni affrontate da quanti hanno creduto - o tentato di credere - fino all'ultimo in un comunismo definitivamente emancipato dalle ombre e dalle ambiguità. Lo spauracchio del ruolo rivestito nel '48 e della furia inquisito-riale impersonata nelle "verifiche studentesche" lo paralizzava e gli impediva di andare in patria. Sembrava talvolta un ardente cavaliere senza cavallo, rispettato più che amato, seguito - o usato - più per quello che rappresentava che per una coerenza eroica di condotta. Ma anche questo è piuttosto ordinario. Scherzandoci su, Pelikàn finì per indossare ovunque le vesti dell'"esule indigesto", assai attaccato al potere del professionismo partitico, e per questo, tutto sommato, più Schweik che Jan Palach: con le sue pene, le sue rinunce e i suoi necessitati adeguamenti. (R.B.) Un cielo trapunto di stelle di Bruno Bongiovanni Edmondo Berselli ADULTI CON RISERVA Com'era allegra l'Italia prima del '68 pp. 180, € 16,50, Mondadori, Milano 2001 tea muli» i min mun-gg Ma sarà poi vero che quando Modugno nel 1958 "ragliava volare" gli italiani "capivano Autostrada del Sole", Fiat Cinquecento e Seicento, e addirittura "partecipazioni statali", Eni, Enrico Mattei, Giorgio Bocca, Sophia Loren, e, naturalmente, "fabbriche" e "addio al lavoro nei campi"? Duole, in questo contesto, esigere un po' di necessaria filologia. Cosa accadeva infatti al cantante "con i baffetti da figaro" (simpaticamente esaltato allora da Massimo Mila) che sognava una fanciulla (danese come la sirenetta?) con gli occhi "blu come un cielo trapunto di stelle"? D'improvviso veniva dal vento rapito e incominciava a volare nel cielo infinito. Quel che è certo è che, ascoltando l'esuberante Mimmone, gli italiani innamorati di una morale premoderna, assai più vicina a padre Pio che a papa Giovanni, volevano scappare da tutto quel che evoca Berselli. Forse non proprio da Sophia Loren (e come si fa?), ma certissimamente, mentre il mondo pian piano spariva lontano laggiù, volevano scappare da Enrico Mattei buonanima (lasciato in effetti solo e assassinato nel 1962 dalla mafia e dalle sette sorelle) e anche da Giorgio Bocca. In realtà questo libro sui "favolosi anni '60" è pesantemente condizionato, all'inizio del quarantennale del perverso Sessantotto, più dagli adrenalinici languori infantili e adolescenziali dell'autore - il quale non può dimenticare che la parola "Lollo" voleva dire "seno", "petto", "in sostanza un paio di zucche così" - che dalla ricostruzione delle straordinarie trasformazioni di un decennio. C'è però un'altra rivelazione che noi, insieme a lui, faremo fatica a dimenticare. Seduto sul vasino, Berselli, classe 1951, a tre anni snocciolava la formazione del Milan (era il 1954, l'anno della morte di un De Gasperi citato assai meno della metà di volte in cui viene citato Celentano), anche se poi lo stesso Berselli qualche anno dopo s'invaghirà delle malandrinate di Omar Sivori. Nessuno a questo punto esploda in un tonante "echissene-frega": sarebbe intollerabilmente troppo facile. E poi arrivarono, insieme alle canzoni di Achille To-gliani (che qualcuno apostrofava Achille Togliatti), "Blek Macigno", Mandrake e soprattutto gli "Albi del Falco", dove si pubblicava "Nembo Kid", divenuto poi più celebre e meno amato come "Superman". Siamo insomma davanti non a una traiettoria degli anni sessanta, come il libro in qualche modo si presenta, ma a un troppo lungo e pateticamente contorto "je me * EDMONDO BERSELLI ADULTI CON RISERVA _ » souviens" (con Mariolino Corso citato una volta di più di Gregory Corso), purtroppo lontanissimo dal capolavoro omonimo di Perec (1978) e distante anche da quello che tutti noi, over fifties o anche over sixties, senza pretese, e chiacchierando di sera tra amici, potremmo fare. Ed ecco allora Pepite che mostra il suo corazòn, plea-se, please me, un po' di hula hoop, cieli che appaiono nella stanza, l'assassinio di Kennedy bello e cattolico, Satisfaction, un po' di scontri sociali e politici, l'insuperabile Pelé, il miracolo economico (che pare interessare soprattutto perché così è stato definito dal "Financial Times"), il tanto atteso centrosinistra, giacchettine, fran-gettine, stivaletti, berrettini, musi-conzole gné-gné, chitarre, capelli lunghi, i cantautori, Diabolik e i "prolungati ludi erotici con Eva Kant". Poca letteratura, poca poesia, poca arte, quasi niente cinema. E invece lei, con il colpo al cuore (e forse anche ai polmoni) che procura, Mary Quant, la minigonna. Tutte cose che attendono ancora uno storico vero che le metta in fila, che le collochi negli anni non del disimpegno, come appaiono in questo libro, ma dell'Algeria, del Viet Nam, dell'America Latina, delle lotte operaie, del consumismo, della società dello spettacolo. Anni, certo, di formidabili cambiamenti, ma anche di deragliamenti e di indignazioni davanti alle guerre, al razzismo, alla pena di morte, all'oppressione delle donne, al cleri-calume per nulla pallido e assorto, allo stalinismo costantemente risorgente, alla strategia della tensione iniziata ben prima del '69. Anni che non vengono fermati dal Sessantotto, come pretende Berselli, ma che del Sessantotto costituiscono la premessa. Il Sessantotto è insomma la conseguenza di un decennio e non l'accartocciarsi del decennio stesso nella politica dura. Non è soprattutto la rivoluzione tetra che perverte e soffoca la rivoluzione allegra. Non vi è stata del resto nessuna rivoluzione, né prima né durante né dopo il Sessantotto. Il libro di Berselli è, invece, da questo punto di vista, identico ai nostalgici residui dell'estremismo panideologistico. E i suoi esibiti turgori adolescenziali fanno venire in mente le parole di Talley-rand messe all'inizio di un grande film di Bertolucci (qui mai citato), Prima della rivoluzione (1964): "Celuiqui n'apas vécu (...) avant la Révolution ne connaìt pas la douceur de vivre". La "douceur de vivre" è qui quel che precede il Sessantotto: un paio di zucche così e le gambe denudate da Mary Quant nella swingin' London. Cose viste in tutte le stagioni. E ora, con Corso che non gioca più dal 1973, "que reste-t-il de nos amours", come canterebbe non il grande Talleyrand, ma il lillipuziano Berlusconi? ■ bruno.bon ®1ibero.it B. Bongiovanni insegna storia contemporanea all'Università di Torino