La storia in vendita di Andrea Costa Con le primarie dello scorso 14 ottobre è stato ufficialmente fondato il Partito democratico, una formazione politica che intende affermare una radicale discontinuità rispetto al passato, a partire dalle proprie sezioni locali e anche dalle modalità di adesione dei militanti. Sarà un partito "senza tessere" e forse anche senza sedi, almeno quelle che per oltre sessant'anni hanno ospitato prima il Pei e infine i Ds. I beni immobiliari e artistici dell'ex Partito comunista sono stati integralmente trasferiti a una serie di fondazioni su base provinciale, le cui finalità non sono ancora state chiarite. Il responsabile di questo passaggio di proprietà, il senatore Ugo Sposetti, ha dichiarato di recente che "non dovrà essere buttato nemmeno un volantino, perché la nostra storia è anche lì" ("Corriere della Sera Ma-gazine", 8 novembre 2007) e ha parlato di una vasta opera di catalogazione. Se però ci si allontana dalle pagine dei quotidiani l'impressione sembra essere diversa ed è difficile non riconoscere in questo processo una forma nemmeno tanto nascosta di rimozione del passato. Molto spesso questa catalogazione appare in ritardo oppure potrà coprire solo una parte del patrimonio artistico e documentario legato al Pei, come le opere pittoriche e le sculture, mentre le architetture sono destinate a una dismissione che ne mette inevitabilmente a rischio la tutela. L'alienazione del patrimonio immobiliare sembra infatti essere il sistema più utilizzato per completare il rientro dei debiti del partito, non risparmiando nemmeno Case del popolo in piena attività, molte delle quali sono anche importanti esempi di arte impegnata. In via Volturno a Milano, davanti alla sede del Pei inaugurata nel 1964 da Togliatti, è ancora visibile, tra un graffito e l'altro, un mosaico di Luigi Veronesi. La sede è stata chiusa nel 2004 e i Ds si sono spostati altrove, lasciando però il mosaico dov'era, esposto all'abbandono. Lo stesso vale per la targa di pietra cpn l'insegna del partito. Era davvero impossibile trasferirli? Ancora più impressionanti sono i segni di questa rimozione nel cuore dell'Emilia rossa. A Modena i Ds hanno trasferito da tempo la direzione provinciale in un'anonima palazzina, lasciando la storica sede di viale Fontanella Un edificio costruito nel decennale della Resistenza, su disegno di Mario Pucci e Vinicio Vecchi, dedicato alla memoria di un caduto partigiano, Sandro Cabassi. Una sede abbandonata senza troppi rimpianti dal partito, lasciando spazio a un riuso di tipo universitario che l'ha parzialmente preservata. Una sorte peggiore è toccata alla Casa del popolo "Antonio Gramsci" di Vignola del 1949-50, progettata sempre da Pucci e Vecchi, con una spettacolare sala interna a doppia altezza dipinta da Aldo Borgonzoni, uno dei maestri del neorealismo pittorico. Uno spazio inaugurato nel 1951, dopo sei mesi di lavoro e di continuo confronto tra l'artista e quelli che definiva "i suoi committenti", operai, braccianti, contadini, mezzadri, che avevano collaborato alla costruzione dell'edificio e quotidianamente andavano a controllare lo stato di avanzamento dell'opera. Il giorno dell'inaugurazione si tenne un convegno nazionale dal titolo Arte e lavoro, al quale parteciparono tra gli altri Renato Gut-tuso, Carlo Levi, Mario Mafai, Giuseppe Zigaina. La sala interna venne demolita già nel 1958, mentre l'esterno è stato reso irriconoscibile pochi anni fa da un intervento che ha trasformato il volume razionalista in un falso di inizio Novecento. Analoga sorte ha rischiato di subire anche l'ultima testimonianza rimasta vicino a Modena, la Casa del popolo "Rinascita" a San Vito di Spilamber-to, costruita nel 1948-49 sulle ceneri di una cooperativa di consumo bruciata nel 1921 da una squadra fascista, ancora su disegno di Pucci e Vecchi. La realizzazione fu il risultato di una grande mobilitazione collettiva: "Tutti, uomini e donne, anziani e giovani, sottoscrissero il prestito necessario per acquistare i materiali. Ciascuno in ragione del- le proprie disponibilità economiche, ma tutti con la medesima convinzione di stare realizzando un'opera importante per la comunità di San Vito" (Stefano Magagnoli, L'isola dei ribelli, Centro di documentazione F. Borghi - Ds Spilamberto San Vito, 2003). La composizione razionalista della facciata principale è caratterizzata da un grande altorilievo dello scultore Veldo Vecchi, che rappresenta l'utopia di una nuova società fondata sulla Resistenza. Un'opera "realizzata in due giorni, di notte, con una tecnica difficile, quasi impossibile: una lavorazione fatta direttamente col cemento, come un affresco in rilievo", così raccontava Vinicio Vecchi (La città razionalista. Modelli e frammenti. Urbanistica e architettura a Modena 1931-1965, a cura di Laura Montedoro, Rfm Panini, 2004). L'edificio è stato messo in vendita nel corso del 2007 per fare posto a un nuovo insediamento residenziale. La mobilitazione di un gruppo di anziani militanti dell'ex Pei e l'intervento della soprintendenza sembrano però aver convinto la Fondazione Ds, proprietaria dell'immobile, a ripensare le proprie scelte e ad accettare la tutela della parte originaria della Casa del popolo. Un'ipotesi che tuttavia deve ancora essere precisata nei suoi contenuti progettuali. Quante case "Rinascita" sono state messe in vendita nel corso degli ultimi mesi? Quante rischiano di andare perdute invece che riutilizzate e valorizzate? Nel corso del tempo edifici come questi hanno assunto un significato storico e architettonico che sta oltre la loro appartenenza politica e sono diventati anche importanti luoghi di uso pubblico. È davvero difficile comprendere come un partito che si presenta come erede della tradizione resistenziale ponga oggi così poca attenzione alla salvaguardia di una storia materiale diffusa nel territorio italiano. Il Novecento continua evidentemente a essere una materia che divide, anche nella sua eredità costruita. Forse solo amministrazioni locali più attente all'architettura contemporanea (cosa molto rara in Italia) potranno fare qualcosa, mentre per ora l'unica forma di tutela è dovuta all'azione di gruppi di cittadini o alle "verifiche dell'interesse culturale" da parte delle soprintendenze. ■ andrea.cstdgmail.com A. Costa, architetto, è dottore di ricerca, in urbanistica allo IUAV di Venezia Un'idea di tutela di Laura Moro La Casa del popolo "Rinascita" a San Vito di Spilamberto è uno di quei casi emblematici che fanno discutere molto all'interno del Ministero per i Beni e le Attività culturali; non è raro trovare negli stessi funzionari delle soprintendenze posizioni divergenti, che anche le più appassionate discussioni non riescono a ricongiungere in una linea di pensiero prevalente. Questo perché la Casa del popolo "Rinascita", realizzata alla fine degli anni quaranta non è obiettivamente un edificio privo di interesse culturale, ma, al tempo stesso, non possiede nemmeno quei requisiti di rilevanza che la legge prevede debbano caratterizzare il riconoscimento dell'interesse storico artistico o etnoantropologico di un bene culturale; l'articolo 10 comma 3 del Codice dei beni culturali e del paesaggio prevede infatti che siano definiti beni culturali i beni appartenenti a soggetti privati che rivestono un interesse "particolarmente importante". E quella parola - "particolarmente" - che deve essere attentamente valutata; non vi sono criteri univoci per definirne la portata, né potrebbero esserci dal momento che, la stessa storia del restauro lo dimostra, ciò che era degno di poca considerazione solo qualche decina d'anni fa (l'architettura rurale, tanto per fare solo un esempio) oggi è oggetto di estrema attenzione come elemento rilevante del patrimonio culturale italiano. E una questione che non riguarda solo l'evoluzione della disciplina del restauro, e forse il concetto stesso di storia che si va formando nel tempo, ma ha a che fare anche il contesto culturale cui ci si riferisce: ciò che può essere secondario per il centro storico di Roma o Firenze può essere considerato una rarità o una vera e propria emergenza monumentale in un piccolo centro della campagna o dell'Appennino. Tuttavia, bisogna considerare che la legge non distingue, e non ha mai distinto, tra edifici più o meno rilevanti, tra tutela di serie A e tutela di serie B. Una volta che interviene la dichiarazione di interesse culturale, quando cioè viene apposto un vincolo, tutti i beni sono equiparati; in altre parole, se la Casa Rinascita venisse vincolata, faccio un esempio esagerato ma perfettamente verosimile, sarebbe per la legge uguale alla chiesa di San Vitale a Ravenna o alla basilica di San Marco a Venezia, tanto in termini amministrativi (ad esempio anche il minimo intervento di manutenzione dovrebbe essere autorizzato) quanto di obblighi per la conservazione, con tutto quello che ne consegue in termini di risorse finanziarie da impegnare; tema quest'ultimo non secondario e che spesso viene sottovalutato pensando che sia il vincolo in sé a garantire la tutela, mentre sono soprattutto le azioni di prevenzione e manutenzione accurata, attività per lo più onerose, che possono assicurare la conservazione di un bene. Questo ragionamento non vuole condurre alla dimostrazione che le opere moderne e contemporanee non possono o non devono essere oggetto di tutela da parte dello stato. Al contrario, il tema della conservazione delle architetture del Novecento è costantemente tenuto sotto controllo dalle soprintendenze. Recentemente, proprio in Emilia sono state vincolate diverse Case del fascio degli anni trenta di proprietà demaniale. Mi sembra però importante ricordare che ogni vincolo deve essere attentamente vagliato su un piano tecnico-scientifico, anche al di là, è necessario dirlo, dei fattori emozionali dovuti al valore che molti edifici del secondo dopoguerra hanno quali testimonianze delle radici culturali della nostra società, fatto questo che nessuno vuole mettere in discussione. Parrebbe piuttosto opportuno inquadrare la questione in un campo più ampio del concetto di tutela, che coinvolge anche le amministrazioni locali, che tanto possono fare attraverso gli strumenti urbanistici. Invocare il vincolo dello stato per scongiurare una demolizione, seppure di un edificio con un suo innegabile valore di testimonianza come la Casa del popolo, mi sembra forse un'"ultima spiaggia" di una comunità che non trova strumenti idonei per gestire il proprio patrimonio di memoria. La tutela non si può fare solo con le imposizioni per legge, sarebbe paradossalmente debole dietro alla sola forza della norma; va piuttosto ricondotta in un ambito di sviluppo consapevole del territorio, che da solo lo stato non può fare. Tanto più quando si tratta di tutelare il patrimonio "minore", il cui valore non è assoluto ma si costituisce in relazione alla comunità che in esso si riconosce; una responsabilità questa che dovrebbe essere condivisa tra una pluralità di soggetti, primi tra tutti quelli che hanno il compito di governare le trasformazioni del territorio, attraverso percorsi che non passano solo ed esclusivamente per il potere "censorio" dell'autorità statale. ■ lmorogbap.beniculturali.it L. Moro lavora presso la Direzione generale per i beni architettonici e paesaggistici