N. 7/8 10 da BUENOS AIRES Francesca Ambrogetti Se non fosse morto nella selva Boliviana, il 14 giugno scorso avrebbe compiuto ottant'anni: una ricorrenza che in Argentina, la patria di origine del "Che" Guevara è stata ricordata in molti modi. Nelle librerie, ad esempio, l'immagine del mitico guerrigliero argentino-cubano si è moltiplicata nelle copertine dei tanti libri che gli sono stati dedicati. Da uno dei primi, Mi amigo el Che di Ricardo Rojo, scritto nel 1968, a uno degli ultimi, Evocación, mi vida al lado del Che di Aleida March, la seconda moglie di Ernesto Guevara. I lettori hanno voluto ricordare la figura del Che in molti modi; alcuni hanno scelto racconti intimistici come quello scritto dal padre, Mi hijo el Che, o dal suo amico d'infanzia e compagno del secondo viaggio in America Latina, Carlos Fer-rer, dal titolo De Ernesto al Che. Altri invece hanno preferito i saggi sul suo impegno rivoluzionario, come quello recente El Che quiere verte di Ciro Bu-stos, compagno dell'ultima avventura in Bolivia e accusato da alcuni di averlo tradito. Tra le oltre venti biografie del guerrigliero, la più venduta è stata quella del giornalista americano Jon Lee Anderson Che Guevara, una vida revolucionaria, giudicata la più completa e documentata. Molto ricercato anche Con el Che por Sudamerica di Alberto Granado, che racconta il viaggio dell'autore con Guevara in vari paesi latinaoamericani e che ha ispirato il film I diari della motocicletta. Tra i titoli più curiosi quello del libro che la giornalista argentina Julia Constela ha dedicato a Celia la madre del Che, forse la persona che ha influito più di ogni altra nelle scelte di vita del guerrigliero. Naturalmente i lettori hanno cercato anche i libri di Guevara stesso: i racconti dei viaggi, i saggi sulla rivoluzione cubana e il diario scritto in Bolivia prima di morire. Tante visioni di uno stesso personaggio che continua ancora oggi dalle foto delle copertine a guardare lontano, e a sognare e far sognare un mondo più giusto. VILLAGGIO GLOBALE l'inventore del surrealismo. La scelta è appropriata: se c'è un autore nel quale l'immagine gioca un ruolo fondamentale, quello è proprio Breton. La sua opera è infatti un tentativo di conciliare i contrari, ovvero ricercare quel punto in cui il reale e l'immaginario si incontrano, fra passato e futuro, vita e morte. E quella che lui chiama surrealtà o realtà assoluta. E per spiegare come avviene questa conciliazione, Breton si affida all'immagine. Immagine poetica, di un quadro o di oggetti particolari: purché emerga quella luce particolare che chiamava "la luce dell'immagine". Per questo motivo l'Album Breton ha così tanto valore. Dall'iconografìa, scelta e commentata da Robert Kopp, si evince in maniera molto chiara che cosa significasse per Breton il surrealismo: non si tratta di qualcosa di estraneo alla natura, bensì alla manifestazione, "attraverso la trama del mondo visibile di un universo invisibile che tende a manifestarsi". In questo contesto la visione possiede un'anteriorità assoluta rispetto La striscia del Calvino, 12 Ancora su quelli che non hanno vinto da PARIGI Marco Filoni È arrivato il momento dell'A/-hum della "Plèiade". La prestigiosa collana dell'editore Gallimard pubblica ogni anno, in questo periodo, un volume fotografico distribuito come strenna (viene dato in omaggio a chi acquista almeno tre degli eleganti volumi rilegati). Ovviamente sono libri da collezione (la tiratura è limitata) e alcuni sono divenuti introvabili. Nelle librerie antiquarie, dai lati della Senna al resto del mondo, si possono trovare a cifre considerevoli (quelli degli anni sessanta arrivano a costare sui cinquecento euro). Quasi banale dirlo: i volumi sono tutti magnifici. Raccolgono immagini molto belle, manoscritti e lettere, fotografie inedite e inusuali, con il commento dei migliori studiosi di quell'autore o quell'argomento. Quest'anno, in occasione del quarto volume delle opere complete di André Breton nella "Plèiade" (gli Scritti sull'arte e altri testi), l'album è dedicato proprio ai- Due testi singolari (finalisti naturalmente) sono arrivati quest'anno al Premio, non a caso scritti da autori ricchi di vicende di vita: Gerico 1941. Storie di ghetto e dintorni di Igor Argamakow Argamante (classe 1928) e Una poca cosa. Troppe bugie su quella Leda del Buonarroti di Gabriella Repaci (classe 1941). Il primo, diciotto storie dell'epoca della shoa ricostruite sul filo della memoria (all'epoca dei fatti Argamakow, prima della naturalizzazione italiana, era un ragazzino polacco di buona famiglia) e della documentazione. Il luogo è la Lituania/Polonia (in particolare Wilno, ma anche Kaunas) degli anni bellici, che nel 1940 aveva subito l'occupazione sovietica, per poi passare sotto il controllo tedesco nel 1941 e tornare infine sovietica nel 1944. In questi frangenti, acre è la sorte degli ebrei, tra umori antisemiti ampiamente diffusi nel paese, politica di sfruttamento e sterminio attuata dai nazisti e paura/speranza nei confronti dei "rossi". Le storie, tutte di grande interesse, sono raccontate con secchezza, con una cifra di sarcasmo ironico che fa risaltare ancor più l'orrore. La risata sconcia dell'ufficiale dell'NKVD che nel primo pezzo (Antipasto, siamo nel 1940) racconta come le guardie confinarie russe sul fiume Bug ghiacciato -confine tra la Polonia occupata dai nazisti e quella occupata dai sovietici - risolsero la questione (fa va sans dire sparando sulle lastre-zattera: c'era un accordo da rispettare, quello tra i due figuri Molotov e Ribben-trop!) di un drappello di ebrei alla disperata ricerca di una impossibile via di fuga costituisce il rumore di fondo del libro. Argamante non si ritrae dinanzi agli episodi più ambigui, senza però alcun compiacimento; ci narra anche di comportamenti conniventi, nella comunità ebraica, biasimevoli da parte di noi spettatori al sicuro, ma la condanna per chi spinge l'uomo nel baratro si fa così inesorabile. Amara conclusione, la vecchiaia tutto sommato tranquilla nel dopoguerra del Caro zio Max, cioè di Max Pangus, funzionario civile tedesco in Lituania, organizzatore del lavoro schiavistico ebraico prima degli antri dell'oblio. L'autore ci aveva già offerto un saggio della sua peculiare prospettiva che fonde sarcasmo dello stile e sarcasmo della storia con Morte da cani: piccola storia stalinista, pubblicato dal Mulino nel 2000, dove, sulla base del dossier da lui ritrovato nell'archivio KGB di Vilnius dopo il crollo dell'impero sovietico, ricostruiva la vicenda del padre ufficiale, vittima non ribelle della fe- roce ottusità della burocrazia staliniana. Nei racconti di Gerico 1941 il sarcasmo della storia tocca temi ancora non cauterizzati: la connivenza tra sovietici e nazisti nella Polonia occupata e il collaborazionismo ebraico, per non parlare della popolazione lituana. Anche per questo turbano. Con Gabriella Repaci, fine studiosa di storia dell'arte, in particolare di iconologia, vissuta a lungo in Francia (dove ha, tra l'altro, studiato con Chastel, grande esperto di Rinascimento italiano), ci spostiamo caleidoscopicamente nel cronotopo della Francia del Cinquecento, anch'esso, a suo modo, denso di ombre. Una poca cosa è un breve romanzo, frutto di erudizione e piacere. Tutto ruota attorno al destino misterioso della Leda di Michelangelo, una tela andata persa e di cui si conoscono molte copie, non del tutto fedeli, la più famosa esposta alla National Gallery di Londra. Si tratta del mito di Leda e Zeus, che la seduce in forma in cigno. La fortuna del dipinto è probabilmente dovuta al sottile erotismo della scena, anche se è legittimo ipotizzare, da parte di Michelangelo, un'interpretazione di tipo filosofico, metafisico del mito. Repaci partendo da un episodio ricordato da Vasari e da Condivi intreccia la sua complessa trama al seguito della tela, che ci porta nella Francia di Francesco II (importatore dell'arte rinascimentale in Francia), tra Lione e Parigi e Fontana Belio, tra mercanti, e artisti emigrati, tra avventurieri e cortigiani, tra garzoni e poco di buono, tra amanti del Principe (Diana di Poitiers) e vecchie del popolino. Non mancano gli intrighi, i colpi di scena, le morti e le fughe, i veleni ed anche le torbide acque della Senna. La peculiarità del testo è di creare un intreccio complesso attorno a personaggi realmente esistiti, a episodi e ambienti testimoniati. Ciò che viene aggiunto ai dati noti sono sofisticate ipotesi, sottili varianti, tutte plausibili, anche se, ovviamente, nessuna accertabile. Un giallo che non è un giallo, fatto di possibilità, un saggio che non è un saggio per i suoi scarti dai documenti. Un ibrido riuscito, un gioco di intelligenza che ci immerge in un Cinquecento francese ancora "barbaro" agli occhi degli italiani. La narrazione è insieme pacata e concitata: un lento tourbillon. La lingua ha il felice e lieve aroma dell'italiano dell'epoca. Insomma, due testi su cui appuntare l'attenzione. Mario Marchetti al linguaggio. "L'occhio esiste allo stato selvaggio", scriveva Breton nel 1928. E per lui l'occhio è lo strumento per poter cogliere immediatamente il mondo. A distanza di molti anni da quell'esperienza artistica che ha fatto il suo tempo, superata e criticata da più parti, rimane il valore storico. Ma anche la considerazione, questa insuperata, di un'avventura artistica e intellettuale che prima di tutto era e resta un'interrogazione, una ricerca rivolta al mondo dell'individuo che fosse compatibile con il suo dirsi umano. Del resto, proprio Breton fece incidere sulla sua tomba "Je cherche l'or du temps". da LONDRA Pierpaolo Antonello Lo spirito e il sentimento apocalittico hanno una costante e periodica ricorrenza nella cultura occidentale, e con sempre maggiore insistenza sono riemersi in varie forme culturali nell'ultimo secolo, in campo sia filosofico che letterario o cinematografico. Del resto, di epocali episodi di distruzione e morte il secolo scorso ha fatto il pieno. Tra gli autori inglesi che si stanno interrogando al proposito, in questo momento c'è Ian McEwan, sempre più impegnato a raccontare il presente dopo la sua narrazione pressoché in diretta dell'11 settembre per le pagine del "Guardian" e il romanzo Saturday, dove le vicende personali di un neurochirurgo si mescolavano alle angosce collettive e epocali per la guerra in Iraq e per il terrorismo internazionale. Nelle scorse settimane McEwan ha congedato, sempre per le pagine del "Guardian", una lunga riflessione sul significato storico e attuale dell'apocalisse, sulle paure che vi sono connesse, sul rapporto controverso fra religione e scienza e sul paradossale ruolo che la scienza moderna ha nell'alimentare piuttosto che debellare queste paure stesse, in qualche modo assumendo un ruolo vicario rispetto ai grandi monoteismi che da sempre si interrogano sul significato della "rivelazione" ultima, sia questa violenta o meno. Se qualcuno si fosse chiesto il perché di questo improvviso interesse di McEwan per il pensiero e l'immaginazione apocalittica, una parziale risposta è venuta dall'edizione 2008 dello Hay Festival, il più importante e famoso festival di letteratura del Regno Unito, che si svolge da vent'anni, tra maggio e giugno, nella cittadina gallese di Hay-on-Wye, e che quest'anno ha visto la partecipazione, fra gli altri, di Gore Vidal, Salman Ru-shdie, John Irving, Will Self, Ju-lian Barnes, Jimmy Carter, Naomi Klein, Hanif Kureishi, James Ivory e, appunto, Ian McEwan. In questa occasione, lo scrittore inglese ha anticipato alcune pagine del suo nuovo romanzo, ancora senza titolo e in uscita non prima del 2010, e che avrà come tema centrale il glohal warming (il nuovo volto assunto dall'apocalisse postmoderna) e il tentativo da parte di un gruppo di scienziati di scongiurarne gli effetti nefasti. Le pagine lete da McEwan sono caratterizzate da una particolare e inedita vena comica, anche se, ha rassicurato lo scrittore, di comico il romanzo avrà poco, né sarà, per altro verso, un libro di carattere catastrofista o fatalista. Insomma, chi vivrà vedrà.