L'INDICE „ ■■dei libri del meseH " L'outsider e fc I * e SP CD CQ democratico di Nadia Venturini ben vedere, ha la figura del maratoneta: il profilo alto e sottile, il passo allungato, lo sguardo determinato. Che sia divenuto un maratoneta della politica non stupisce, in una biografia che non è stata avara di passaggi difficili, anche se Barack Obama insiste, come è caratteristico della cifra politica che ha prescelto, sugli aspetti positivi di ciascuno, sui messaggi incoraggianti ricevuti, sulle riflessioni che maturavano da esperienze complesse: una famiglia atipica con un padre keniota assente, ima mescolanza di radici culturali assai diverse, il brusco passaggio nell'infanzia da Hawaii all'Indonesia. D processo di riconoscimento di se stesso e il recupero della propria identità è centrale nel testo autobiografico I sogni di mio padre. Un racconto sulla razza e l'eredità (ed. orig. 1995, trad. dall'inglese di Cristina Cavalli e Gianni Nicola, pp. 460, € 18, Nutrimenti, Roma 2007), scritto originariamente nel 1995 e ripubblicato nel 2004, in occasione della sua candidatura al Senato degli Stati Uniti. Prima dell'adolescenza, Obama non aveva quasi una percezione distinta del proprio colore, e l'avrebbe maturata come una scelta determinata, rafforzata negli anni di college in California e a New York, e poi nel lavoro di coordinatore sociale a Chicago, prima di intraprendere gli studi di giurisprudenza con l'obiettivo di impegnarsi sul tema dei diritti civili e in politica. Il suo colore, forse più del suo messaggio politico, lo pone al centro di un dilemma politico inedito per gli Stati Uniti: il primo candidato presidenziale nero. Tuttavia, non essendo "storicamente" afro-americano, Obama ha posto la propria candidatura in termini post-razziali, sottolineando gli elementi che unificano l'esperienza degli americani e la necessità di superare barriere storiche per poter migliorare le condizioni di vita del paese. Questo tema, ricorrente nei suoi scritti e nei suoi discorsi, è stato enunciato nella forma più stringente nel discorso di Filadelfia nel marzo 2008, per frenare una campagna di attacchi su tematiche razziali: riconoscendo di non essere "un candidato convenzionale", Obama affermava che gli statunitensi non possono permettersi di ignorare la questione razziale, e che la nazione nel suo insieme è più che non la somma delle sue parti. I tre testi qui presentati possono aiutare a comprendere meglio il programma politico di Obama, e anche le ragioni di un successo che è parso sorprendente per molti commentatori, pur nel quadro di una scena politica logorata da preoccupazioni profonde e dalla stanchezza per il ripetersi di rituali usurati. Si tratta di testi diversi e complementari: Yes, We Can. II nuovo sogno americano (trad. dall'inglese di Bianca Lazzaro e Andrea Piccoli, introd. di Empedocle Maffla, pp. XVI-158, € 14, Donzelli, Roma 2008) è una raccolta di discorsi pronunciati negli ultimi anni, dalla presentazione della propria candidatura presidenziale alla questione irakena, affrontata in termini assai critici nei confronti dell'amministrazione Bush, pur se non pacifisti: Obama si aspetta che il ritiro delle truppe americane porti 0 governo di Baghdad a superare le divisioni interne, e si preoccupa di individuare strategie che possano rilanciare la leadership statunitense sulla scena internazionale. Anche L'audacia della speranza. Il sogno americano per un mondo nuovo (ed. orig. 2006, trad. dall'inglese di Laura Da-pelli, Lorenza Lanza e Patrizia Vicentini, pp. 367, € 1850, Rizzoli, Milano 2007), uscito nel 2006 dopo l'elezione al Senato federale, presenta una lunga riflessione su temi di politica internazionale, che evidenzia le ragioni per cui risulta gradito anche a una parte dell'elettorato conservatore: se riafferma la necessità di una responsabilità americana verso altri paesi, evita di analizzare gli specifici interessi economici degli Stati Uniti in altre aree del mondo, e nel contempo rivaluta il ruolo dell'Onu e il dialogo con gli alleati sulle strategie politiche e militari. I sogni e L'audacia pongono qualche interrogativo al lettore attento; sono testi abili, è possibile che il primo, in cui Barack parla di sé con disarmante e avvincente candore, costituisca già un annuncio di intenzione politica: la costruzione di un personaggio, destinata a essere riletta con maggior consapevolezza in anni successivi. Il secondo, un saggio politico-pro- grammatico, si è forse avvalso dell'esperienza dell'ottimo consulente per la comunicazione di Obama, David Axelrod. È parte di un progetto politico, per presentare Obama al pubblico americano alla vigilia dell'annuncio della propria candidatura alle primarie democratiche, avvenuto nel febbraio del 2007 nella capitale dell'Dlinois, Springfield, ai piedi della statua di Lincoln: il candidato fa ripetutamente riferimento al presidente della guerra civile non solo in quel discorso, ma anche nel testo di Audacia. Rilevante è il capitolo in cui espone le proprie riflessioni sulla Costituzione degli Stati Uniti, vista come strumento di dialogo piuttosto che come edifìcio rigido, e analizzata a partire dalla propria esperienza politica e da quella di docente di diritto costituzionale all'Università di Chicago. La parte più debole del testo appare forse quella sull'economia, che ben analizza una crisi drammatica nelle vecchie zone industriali del paese, ma offre come prospettiva un "nuovo consenso economico" che non appare risolutivo. Particolarmente interessante per il lettore italiano è il capitolo dedicato alla politica, che presenta un'analisi attenta delle motivazioni dei politici, dei condizionamenti esercitati dai loro gruppi di sostegno e del problema del reperimento dei fondi per campagne sempre più lunghe e dispendiose: a questo si collega un'analisi del ruolo dei media, che presenta molti spunti per comprendere alcuni fenomeni emergenti della nostra comunicazione politica, per la presenza invasiva dello spin, distorsione o presentazione parziale dei fatti. tn capitolo importante è dedicato al ruolo della religione nella vita pubblica americana, con osservazioni acute su una questione che appare assai più complessa di quanto sia sembrato nell'efficace manipolazione repubblicana degli ultimi decenni: Obama discute abilmente sulle difficoltà della politica liberal ad affrontare un dibattito su come conciliare la fede con una democrazia pluralista. Anche la questione razziale viene affrontata con abilità, uscendo dagli schemi consueti del dibattito americano: l'analisi del fallimento della lotta alla povertà intrapresa da Johnson riconosce il credito acquisito dai conservatori presso la classe operaia bianca sui temi dei valori e dell'impegno individuale, ma richiama un'analoga frustrazione in larga parte della comunità nera, che assiste a un crescente degrado dei quartieri poveri, non compensato dal successo di alcuni professionisti e imprenditori. Le ricette su cui Obama insiste maggiormente, e che spiegano il suo grande successo anche fra i liberal bianchi, sono incentrate sul rilancio della scuola pubblica, sulla creazione ili servizi di assistenza per i figli di madri lavoratrici e di un sistema sanitario pubblico efficiente. Il maggiore sforzo della sua campagna, e probabilmente dei mesi che lo attendono, è stato quello di sfuggire all'istanza identitaria, per lanciare a tutta la nazione un appello a un nuovo impegno: Yes, We Can riporta il cruciale discorso pronunciato a Selma nel marzo 2007, in cui invita a oltrepassare il ponte che divide l'America e completare il cammino intrapreso dai padri. nadia. Venturini*! unito. it N. Venturini insegna storia del Nord America all'Università di Torino L'importanza della Hillaryland di Giovanni Borgognone Che la candidatura di Hillary Clinton alla Casa Bianca fosse quella dell 'establishment democratico non era solo un argomento polemico dellowto-der Obama, sostenuto dagli intellettuali che auspicavano per il partito un rinnovamento di immagine. In effetti, dietro a Hillary si è mobilitata la possente "macchina" democratica: dalla ristretta sfera della Hillaryland (i suoi consiglieri) all'esercito degli opinion makers. Forse più della differenza di posizioni personali, che in ogni caso resta rilevante, è proprio il ruolo dei networks politici, dunque, a offrire un'adeguata chiave di lettura delle primarie americane. Spicca a tal proposito, tra i numerosi lavori dedicati a Hillary, il volume scritto dai giornalisti del "New York Times" Jeff Gerth e Don Van Natta Jr„ Her Way. The Hopes and Ambitions of Hillary Rodham Clinton (pp. 438, $ 29,99 Little, Brown and Company, New York 2007). Il "sistema Hillary" prende le mosse, ovviamente, dalla regia del marito Bill, il cui recente Dare di più. Come ciascuno di noi può cambiare il mondo (ed. orig. 2007, trad. dall'inglese di Maria Rachele Valsecchi, pp. 276, € 17, Mondadori, Milano 2008) riformula sapientemente in chiave progressista, attraverso la retorica del "dono", il "conservatorismo compassionevole" di Bush. L'entourage clintoniano, osservano Gerth e Van Natta, ha aderito a un ferreo codice di disciplina, lealtà, devozione e discrezione: tutti fattori per molti versi speculari rispetto al network che per anni ha circondato il grande nemico George W. Bush. Solo che la "macchina" democratica ha incontrato un ostacolo imprevisto nella candidatura di Barak Obama, presentata più come un rinnovamento generazionale che come una campagna presidenziale, dicono i due autori, proprio come seppero fare Bill Clinton e Al Gore nel '92. Obama ha saputo convertire la sua inesperienza a Washington in un fattore positivo, per cambiare gli "apparati", di cui Hillary è invece percepita quale membro a tutti gli effetti. Passando, poi, a una critica "da destra" a Hillary Clinton, come è, ad esempio, quella formulata da Bay Buchanan in The Extreme Makeover of Hillary (Rodham) Clinton (pp. 264, $ 27,95, Regnery Publi-shing, Washington 2007), la tesi di fondo è che Hillary, da sempre una liberal accanita, si sarebbe "rifatta" l'immagine, presentandosi come centrista e moderata, per avvicinarsi al voto repubblicano e conquistare il potere. Buchanan, pertanto, la accusa di aver provato a farsi eleggere per quello che non era: una sorta di Margaret Thatcher del XXI secolo. Al di là della polemica, ciò che conta sottolineare è come emerga, anche in questa prospettiva, l'importanza della Hillaryland nell'orchestrare l'intera operazione. La cosmesi preelettorale, secondo Buchanan, intendeva nascondere le idee liberal che in realtà hanno sempre animato Hillary, dal femminismo alla fiducia nell'onnipotenza dei governo. È anche vero, però, che al tempo della discussione sull'Iraq lei votò a favore dell'intervento americano, mentre Obama fu contro la guerra. Già allora, in effetti, Hillary era più vicina alla corrente maggioritaria dell 'establishment democratico. Tale corrente, negli ultimi anni, ha espresso costantemente l'esigenza di riplasmare il progressismo in una direzione che accolga le istanze diventate ormai da troppo tempo patrimonio quasi esclusivo dei repubblicani. David Callahan, ad esempio, in un volume dal titolo The Moral Center. How Prog ■essives Can Unite America Around OurShared Values (pp. 260, $ 15, Harcourt, Orlando 2007) ha rimproverato al Partito democratico una scarsa attenzione al tema dei valori, e ha auspicato il rilancio di un vero "patriottismo", compatibile con il progressismo perché opposto alla mera esaltazione degli "interessi individuali". Analogamente John Brenkman, in The Cultural Contradictions ofDemocracy. Politicai Thought sin-ceSeptember 11 (pp. 206, $ 29,95, Princeton University Press, Princeton-Oxford 2007), pur proponendo una "riconversione" degli Stati Uniti dall'"etica dei fini ultimi", che ha connotato l'amministrazione Bush, all'"etica della responsabilità", ritiene che, proprio su tali basi, si possa comunque giustificare la guerra al terrorismo come una "necessità", e si debba giudicare l'invasione dell'Iraq non tanto "immorale" o "illegale", quanto "mal consigliata" e "mal concepita". Infine, anche Alan Wolfe, uno dei maestri del pensiero liberal americano contemporaneo, nel suo volume Ritorno alla grandezza. Come l'America ha perso la consapevolezza dei propri fini e come può ritrovarla (ed. orig. 2005, trad. dall'inglese di Luisa Cetti, pp. 192, € 18, Utet Libreria, Torino 2007), condanna la politica di Bush, incentrata sull'esaltazione ossessiva della "bontà" americana, ma pone in primo piano la necessità di ripristinare quale valore guida della politica degli Stati Uniti la "grandezza", riprendendo la tradizione inaugurata da Theodore Roosevelt. Sono così entrate nel circuito mediatico, attraverso l'opera di diffusione da parte della folta schiera degli opinion makers, le principali linee direttive dell'apparato democratico, che fin dall'inizio hanno profondamente solcato la Hillaryland e oggi, peraltro, sono sempre meno disdegnate dagli stessi consiglieri di Obama, in funzione di una sua piena integrazione negli ingranaggi della "macchina".