N. 7/8 10 Cercando il fondamento di Alberto Casadei Giuseppe Balestrino LA MANCANZA DEI LIMONI pp. 154, €14,50, Neri Vozza, Vicenza 2007 Ibrevi racconti di Balestrino sono contraddistìnti da una tonalità di fondo sempre riconoscibile ma non priva di escursioni. E chiaro sin dal testo eponimo, collocato in a-pertura della raccolta, che il grottesco costituisce un ingrediente fondamentale: il protagonista dice di essere in viaggio e di mangiare fiori di zucca dopo aver ucciso il suo sindaco, del quale ha dovuto sopportare le malefatte, le bugie e la presunta incapacità di gestire le "corsie preferenziali" per l'arrivo di limoni nella sua città. Di gesti assurdi e comici come questi è ricca la letteratura novecentesca, senza dimenticare l'antecedente di Go-gol, cui sembrano direttamente ispirarsi alcuni personaggi dei tanti che affollano il libro, quasi a comporre, come nel russo, un quadro ampio e surreale. Tuttavia, il comico-grottesco, con punte degne di Campanile o Flaiano, viene spesso sostituito dallo stravagante-meditativo, che nasconde ima visione tutto sommato fragile del mondo. I protagonisti di Balestrino sembrano spesso sorreggersi proprio in virtù di un loro rapporto inusuale con la realtà che li circonda, privi di punti di riferimento sicuri e invece tutti intenti a risolvere questioni cavillose o affrontare casistiche del tutto improbabili. L'esempio più sublime di questa tipologia è costituito da uno dei racconti più lunghi (ma comunque solo di quattordici pagine), Pax inter pares, in cui, su uno sfondo da farwest non privo di riferimenti all'epoca beat (con tanto di citazione di The Age of Aquarius), si innestano vicende legate a varie sette americane e non, che conducono all'istituzione di un sinedrio dove far confluire rappresentanti di ogni orientamento religioso, dagli induisti ai musulmani ai copti. La ricerca di un effettivo fondamento spirituale si scontra con le regolamentazioni spesso esilaranti del sacro: ma alla fine il protagonista si ritrova comunque a vagare in un metaforico sertào analogo a quello del Rio-baldo di Guimaràes Rosa, citato alla lettera nella chiusa del racconto. La frequente riflessione parareligiosa non è dunque votata solo alla satira e alla parodia (comunque abbondanti), ma introduce componenti più complesse, per esempio una sorta di inquietudine da incompletezza, oppure una nostalgia per la faci- Giuseppe Balestrilo lità della fede, ormai riservata a pochi semplici. Vari testi, giocati in prima battuta sul comico-grottesco, fanno sentire progressivamente accenti più malinconici e perplessi: è il caso di un altro racconto lungo, per certi aspetti complementare a quello già ritato, Guerra civile permanente. Il protagonista, un generale dal nome platealmente gad-diano di Gonzalo Pirobutirro, inizia una lotta infinita assieme ad alcuni suoi commilitoni, e dopo vicende buffe e momenti più drammatici, dopo citazioni patetiche da Demis Roussos o altamente liriche da Jalal ai-Din Rumi, arriva ad affermare: "La verità sussiste eternamente, e trionfa infine dei suoi nemici, perché è eterna e potente quanto Dio stesso". Solo che questa affermazione forte e inequivocabile viene accolta con un "certo imbarazzo" da tutti gli amici del generale, dato che si inserisce in un contesto troppo prosaico e impreciso per avere un significato effettivo e non solo astrattamente filosofico-teologico. E dunque questo sostrato inquieto a caratterizzare molti dei racconti migliori di Balestrino. Si ricono- La mancanza di limoni ti H sce qui una vicinanza con Bellow o addirittura con Borges (depurato della visionarietà fantastica) o, per stare alle coordinate italiane, con il primo Landolfì oppure, fra i più recenti, con Scarpa e Galiazzo. Ma in realtà Balestrino impiega molti referenti letterari, spesso di grande levatura, da Shakespeare a Joyce a Musil, sempre conservando il gusto per la rielaborazione umoristica, a volte mirata a raggiungere un Witz conclusivo, a volte (e forse più spesso) adatta a introdurre proprio in conclusione una nota calante, quasi un abbandono, in senso scacchistico, della partita esistenziale che veniva giocata. E quanto alla struttura della raccolta, andrà notato che i racconti (in gran parte quasi novellette) si legano spesso l'uno all'altro, dato che affermazioni comparse in uno possono essere sviluppate e narrativizzate altrove. Per esempio, Dolore riporta una serie di frasi o slogan relativi al tema del titolo: alcuni sembrano incipit di lettere di cui non si capisce la funzionalità, sino a quando, nel successivo Il viaggio (I): solo andata, essi vengono ripresi e contestualizzati, grazie alle "voci" di personaggi anonimi, andati incontro a destini tragici incisivamente rievocati. Appunto nel far ri-suonare questi percorsi esistenziali privi di armoniche compiute sta forse la potenzialità migliore dei racconti di Balestrino che, tra eleganti allusioni e addirittura ammiccamenti (come quello, inserito con nonchalan-ce, alla recente polemica sull'autenticità del papiro di Arte-midoro), domande senza risposta o con risposte inaccettabili, dubbi irrisolvibili, forniscono un preciso diagramma del nostro tempo di mancanza. ■ alberto.casadei? ital.unipx.it A. Casadei insegna letteratura italiana all'Università di Pisa Narratori italiani Rugiadoso nulla di Andrea Giardina Goffredo Parise L'ELEGANZA È FRIGIDA pp. 169, €12, Adelphi, Milano 2008 F Nel 1980 Goffredo Parise è in Giappone. L'esperienza è descritta in una serie di reportage pubblicati sul "Corriere della Sera" tra il 1981 e il 1982 e raccolti poi in Ineleganza è frigida. Tra i suoi numerosi testi di viaggio, questi sono probabilmente i più coinvolti in un progetto di radicale cambiamento (di vita, innanzitutto, poi di scrittura), lo stesso che percorre le pagine del secondo Sillabario. C'è stanchezza in Parise, rifiuto dei luoghi da cui è partito — l'amorale paese della politica, intriso di pesantezza, malato di ideologia, avvelenato dal materialismo e dalla soffocante centralità dell'io - e desiderio di affrontare altre modalità di esistenza. Il Giappone rappresenta l'assoluto altrove, il "pianeta rotante nel silenzio e nella solitudine della volta celeste", popolato da persone "timide e infantili, curiose, paurose, estremamente attente e molto più emotive di tutti gli abitanti del mondo", persone "orgogliose della nazione", che nel loro ateismo morale sono già arrivate "a quel dopo dove gli uomini non sono affatto tutti uguali ma ognuno ha il posto che gli spetta". Cosa Parise voglia trovare in questo luogo capace di mostrare ai visitatori ignari una "colossale maschera occidentale", ben differente dal volto "fragile e sottile come carta dipinta" del Giappone vero, lo sappiamo — crediamo di saperlo - sin dalle prime pagine. L'indomani del suo arrivo, Marco (la voce narrante di evidenti e lontane ascendenze) vede un giardiniere al lavoro. È un vecchio, "con occhi simili a fessure", che, mentre si produce in un inchino "brevissimo" e "fulmineo", gli ispira "quasi soggezione". Ma quell'uomo nei suoi movimenti rivela "una educazione così alta e una così grande frequentazione delle cose dello spirito che Marco (pensa) subito a un artista". È il primo segnale di una "permanenza" destinata a segnare tutto il libro: il Giappone è il luogo dell'estetismo realizzato, dove l'arte - o la mentalità finalizzata al bello — è rintracciabile ovunque. Parise offre continui esempi. Camminando a caso per una via in salita di Tokio, Marco capita in un piccolissimo ristorante con il cibo esposto in vetrina. Ha fame e si siede all'unico tavolo, ordinando alcuni dei piatti in mostra. Mangiando, apprezza i sapori che gli ricordano tutti il mare, ma soprattutto è attratto dalla disposizione ordinata e pensata del cibo, L'eleganza è frigida che, a suo parere, è "frutto di estetismo". Un altro giorno nota che i minuscoli alberelli di Tokio sono circondati da quattro paletti tenuti insieme da un legaccio. D nodo è stato fatto a mano e, siccome le macchine avrebbero ottenuto più rapidamente lo stesso risultato, il motivo di questa scelta è innanzitutto estetico, ovvero la sua realizzazione dipende da "ragioni che dovevano rispettare al tempo stesso la tradizione, la materia dell'albero, che era vegetale, l'armonia tra materia e materia". È qui che Marco scopre che il Giappone è pieno di questo "genere di opere d'arte" non individuali, le cui caratteristiche sono "l'inutilità e il piacere". Appare evidente, insomma, che "il popolo giapponese nel suo insieme (è) produttore e consumatore di arte": artisti sono i sarti che realizzano i chimono e le loro cinture, artisti sono i lottatori di sumo, gli arcieri zen e la vecchietta che con gesti misurati versa il tè in una tazza minuscola. Ma c'è dell'altro. Come Parise nota, se da un lato questa ab-mb^b bondanza di "forma ed eleganza" impedisce "alla sensualità e alla sessualità" di prendere spazio (per cui, come ha scritto il poeta Saito Ryokuu, "l'eleganza è frigida", l'erotismo rimane prevalentemente confinato e compresso altrove, nelle opere di pittura o nelle pagine grandi scrittori, come e Tanizaki), dall'al- dei Kawabata tro paradossalmente (o conseguentemente) il collettivo esercizio dell'arte, il gusto del lavoro realizzato alla perfezione, lo snobismo popolare, che induce all'esasperata attenzione per il particolare, nascondono o sublimano quella consapevolezza dell'"inanità del tutto", che corrisponde al segreto più nascosto dell'animo giapponese, v E questo il secondo motivo che insistentemente accompagna Marco: una sensazione di morte che non si allontana e il tentativo di affrontarla in qualche modo. C'è un episodio decisivo. Un giorno, a Kio-to, da una terrazza del tempio di Ryoanji, Marco vede un giardino "limitato da un muro che pareva di creta impastata con olio e le rocce mostravano qualche ciuffo di muschio, immense e lucide pareti a picco su quello che si sarebbe detto un mare". Intorno alle pietre la "pettinatura era circolare, come avviene per le spume attorno a un'isola. Niente, non era niente di niente, eppure tutto conteneva assolutamente il segreto e l'essenza del pensiero filosofico Zen. Il suo nome era anche giardino del vuoto o del niente". È qui che il Giappone si svela, è questo il punto su cui poggia se stesso. Ed è qui che Parise intuisce la presenza di quel "rugiadoso nulla" che solo può azzerare dolcemente l'angoscia della fine. ■ giardinaandrea 8fastwebnet.it A. Giardina è crìtico letterario Un misterioso deposito di Gian Carlo Ferretti Ugo Dotti DL SOGNO DEL POETA pp. 230, € 15, Aragno, Torino 2007 A' utorevole studioso di letteratura italiana, Ugo Dotti torna alla narrativa dopo venticinque anni con una raccolta di racconti dedicata "alla memoria di Raffaele Crovi", l'intellettuale-editore che nella stessa Aragno ha concluso una straordinaria carriera personale e professionale. Nei racconti di Dotti colpisce anzitutto una scrittura colta, raffinata, anche ironica, intessuta di richiami ai classici e ai moderni italiani e stranieri: Machiavelli e Guicciardini, Flaubert e Proust, Cecov e Dostoevskij, Joyce e Borges. La pregnanza culturale di questi richiami e la voluta indefinitezza delle cornici e delle ambientazioni storiche, tra Milano e altri luoghi nel corso del Novecento, contribuiscono a rendere ancora più emblematiche e allusive le vicende private e pubbliche, di amore e di morte, via via narrate. Che si possono riassumere sommariamente così: un delitto incolpevole al limite della guerra, un'esistenza femminile frustrata, un fratello odiosamato, un padre sconosciuto, i destini diversi e tuttavia non estranei di un giurato e di un imputato, il tortuoso processo mentale di un intellettuale, i volti ambigui della "libertà" nella carriera di un vile conformista, le imprevedibili esperienze di un lettore, i fallimentari bilanci sentimentali e professionali di un pensionato, le possibili implicazioni (forse motivazioni) di un suicida illustre, Pavese, e così via. I problemi sottesi a queste storie, apparentemente scarne, invitano a diverse chiavi di lettura, che si alternano o intrecciano fra loro: la sottile capacità di analizzare e sciogliere complicati grovigli psicologici e sentimentali, o la rappresentazione critica e il giudizio morale su uno spaccato sociale borghese, o la tensione tra realtà vissuta e realtà scritta, che ora viene teorizzata esplicitamente dallo scrittore, ora affiora implicitamente dai suoi racconti, in una serie di citazioni che si rifrangono come in un luminoso prisma critico-interpretativo. Eccone un esempio: "Il dono insomma che il tempo e la memoria ci offrono è quello di trasformare l'immediatezza del presente (...) in un misterioso deposito che, continuando a vivere una sua propria esistenza dentro di noi, mentre ci impoverisce di ciò che fummo, ci arricchisce di quanto saremo". Si delinea così un'idea di racconto come passaggio dalla memoria del passato alla vita presente e a una prospettiva futura, come recupero di esperienze tanto vulnerabili quanto preziose. ■ gcferrettiStiscali.it G.C. Ferretti insegna letteratura italiana contemporanea all'Università di Parma