Fatti straordinari di Giovanni Falaschi Beppe Fenoglio TUTTI I RACCONTI a cura di Luca Bufano, pp. 601, € 15,80, Einaudi, Eorino 2007 In apertura una considerazione sui lettori di Fenoglio: questo scrittore ha dalla sua un'agguerrita e tenace pattuglia di studiosi che hanno prodotto lavori eccellenti (e Bufano è uno di questi) e un numero di lettori altrettanto appassionati ma finora troppo ristretto per quello che si meriterebbe. Un'edizione come questa, che raccoglie Tutti i racconti, è un bel regalo che l'editoria fa sia allo specialista che al lettore comune ma accorto. Se Fenoglio è uno scrittore "difficile" nel Partigiano johnny, lo è molto meno nei racconti. Semmai le difficoltà, in questo caso, non sono pertinenti alla lettura del testo, ma alla sua organizzazione e strutturazione in un insieme. Infatti: che vuol dire Tutti i raccontir? Già questo costituisce un bel problema, perché raccoglierli è operazione complicata, trattandosi di una materia alla quale Fenoglio in vita ha lavorato molto, senza però poterla compiutamente ordinare. Morto lui (1963), ecco Garzanti che pubblica Un giorno di fuoco, quindi altri racconti escono da Einaudi nel 1973 a cura di Gino Rizzo, poi viene l'edizione delle Opere a cura di Maria Corti e della sua équipe (1978), quindi ancora Rizzo (1982), e Dante Isella (Opere 1992, aggiornata nel 2001) e poi Bufano (2003). Ognuno di questi studiosi aggiungeva qualcosa, o anche molto, a quanto si conosceva già, recuperando - chi più chi meno - testi inediti o le pubblicazioni in rivista fatte da Fenoglio in vita, e quelle sporadicamente e casualmente edite qua e là lui morto. Questa storia accidentata non è dovuta però solo alla fine precoce dello scrittore, ma anche ai rapporti conflittuali fra Einaudi e Garzanti dopo il cambio di editore voluto dallo stesso Fenoglio. Infatti, il 27 febbraio 1961 (come si ricava dalle Lettere di Fenoglio curate dallo stesso Bufano nel 2002), Calvino gli propose un'edizione con tutti i suoi racconti da far uscire lo stesso anno; ma il 21 novembre Bertolucci gli propose per Garzanti la stessa cosa. Andò a finire che quel libro non lo pubblicarono né l'uno né l'altro, né in vita né in morte dell'autore. Insomma, c'era necessità che il materiale fosse raccolto finalmente tutto insieme e a parte. Operazione non facile anche per una questione che, nel caso specifico di Fenoglio, non è oziosa, e cioè: che vuol dire "racconti"? Infatti si sa che Fenoglio procedette a un lavoro incessante su diverse materie, ora scri- vendo un testo lungo e lavorandone a parte dei frammenti in modo che fossero cose autonome (racconti, appunto), ora direttamente selezionando un "fatto straordinario" mai scritto e lavorandolo subito come racconto; ora addirittura scartando di binario e aprendo finestre sul già scritto per puntare in direzioni diverse. E poiché non venne sempre a capo delle sue scelte, il curatore si trova di fronte a materiale in assestamento, a abbozzi di racconto, a stesure non definitive, e mai come per Fenoglio la discussione su cosa sia un romanzo breve o un racconto lungo, spesso condotta oziosamente, ha invece un senso. Insomma: una materia in movimento dalla quale Bufano, ben orientandosi, accoglie cinquantadue racconti, escludendone La malora (che però Fenoglio chiamava "racconto lungo"). Inoltre, riproduce in appendice il testo integrale del Diario, recuperando tre frammenti fra i più lunghi che i primi editori non erano stati autorizzati a pubblicare; e un breve racconto. Bufano si è trovato anche di fronte a un problema non da poco: come raggruppare questi racconti? Ce li dà in quattro sezioni: "racconti della guerra civile", "del parentado e del paese", "del dopoguerra" e "fantastici". È un'articolazione che per le prime tre trova riscontro esplicito nella citata lettera a Bertolucci, per la quarta in una lettera a Einaudi del 1959. E invece andato perduto il biglietto che Fenoglio, quando ormai comunicava solo per iscritto, dette a Chiodi, e che conteneva l'ordine in cui voleva fossero editi i racconti. È noto che Fenoglio non ha mai scritto nulla di teoria letteraria: tutto quanto ci resta è frutto di pratica artigianale e null'altro. Quindi quanto pertiene alle sue idee sull'epica, sulla resa letteraria dei "fatti straordinari", su "per chi" e "a causa di chi e di cosa" scriviamo è ricavabile da qualche affermazione extravagante (in inchieste, per esempio) o dai suoi testi letterari. Un racconto anepigrafo, non più ristampato finora dopo l'edizione di Corti, e intitolato da Bufano significativamente War can't be put into a hook, ci dà conto per esempio del problema che aveva attanagliato anche Calvino al momento di scrivere il Sentiero ("La mia storia mi pareva umile, meschina" di fronte a quella collettiva), e che Fenoglio enuncia appena, citando a memoria, e dunque con una leggera modifica, Whitman. Questi allude alla "sua" guerra di Secessione, ma il senso del limite si pone per gli scrittori di tutte le guerre. E Bufano nell'introduzione, saltando a piè pari la bibliografia teorica di narratologia, sceglie una strada molto più concreta, introducendo la voce di Fenoglio in un dialogare fitto e continuo con altri scrittori. Prima di tutto proprio quelli di guerra. Oltre a Whitman anche Maupassant. Raffronti testuali prodotti per la prima volta dal curatore, già nel suo libro fenogliano del 1999, mostrano chiaramente che il racconto eponimo di I ventitre giorni, proprio in quei punti sbrigliati e dissacranti che suscitarono scandalo nei critici-funzionari di Classici allora (1952), tiene ben presente Boule de suif dello scrittore francese: il passaggio dei soldati francesi in rotta attraverso Rouen nel 1870, l'incalzare dei prussiani e il comportamento dei borghesi sono vistosamente la fonte di alcuni passi di Fenoglio. Così Poe gli dà "suggerimenti tecnici", ma anche vere e proprie soluzioni testuali, come nel racconto fantastico Una crociera agli antipodi, dove Bufano individua qualcosa di A De-scent into the Maelstròm - oltre, direi, a Conrad, imprescindibile modello di ogni racconto di mare; e ancora gli offre 0 tema del "seppellimento anticipato". Lo stesso accade, com'è noto, con Hemingway per più di un racconto e, in generale, per la tecnica di quello asciutto e tutto fatti. E veramente i racconti a chiusura con botta secca - raffica, singolo colpo di pistola - o incidente sono molto diffusi negli scrittori dell'immediato dopoguerra: fra i coetanei certamente Fenoglio guardava a Calvino, e ne utilizza l'espediente per chiudere alcuni racconti, o romanzi altrimenti non finiti. Prendendo spunto dalla bella introduzione al volume (e dalle documentate schede ai singoli pezzi), per altro scritta in un italiano "civile", cioè non accademico, per il quale Bufano è forse aiutato dalla sua ottima conoscenza dell'inglese, isolerò due problemi che mi stanno a cuore e che vanno oltre l'introduzione e vogliono essere elementi di discussione. Il primo con i racconti c'entra poco: che fine avrebbe fatto II partigiano Johnny, che leggiamo ora con le due redazioni intersecate, se Fenoglio l'avesse terminato? Primavera di bellezza, da lui stampato in vita (1959) -e quindi da considerare un testo in veste definitiva - non è un gran libro; e delle due redazioni del Partigiano la più bella è la prima (è d'obbligo sulla lingua di Fenoglio citare Gian Luigi Beccaria). L'operazione di prosciugamento, di contrazione ecc. può rendere in un racconto, ma non nel grande romanzo. Inoltre, qual è il rapporto fra racconti e romanzo? Tecnicamente alcuni dei primi sembrano derivare dall'altro, ma esiste anche l'inverso: che i racconti sono già forme acquisite di un'epopea da scrivere (da I ventitre giorni a Johnny). E c'è anche il caso in cui si vada da romanzo a romanzo, come quando, nel più fitto del lavoro sulla storia di Johnny, viene fuori quella di Milton. Credo che questo inestricabile nodo ci costringa a individuare il terreno morale, storico, geografico e fisico precedente alla scrittura, e all'organizzazione in racconti e romanzi, e quindi loro momento genetico. Che vuol dire? Che l'epica è una condizione esistenziale e morale, e quindi Fenoglio non può che scrivere una lunga storia su Johnny perché è quella che conosce meglio (e interromperla perché è tipico della scrittura epica potersi cominciare a scrivere da quando si vuole e il lettore a leggerla da dove vuole). Siamo tutti postromantici, non è più possibile l'epica dettata dagli dei o come canti anonimi raccolti da un Omero non presente alla guerra di Troia, e certamente non compagno di Ulisse. Per lo scrittore moderno è diverso. Il documentarsi di Fenoglio sui parenti e sui fatti straordinari non ha nulla di ottocentesco (ecco l'errore di Vittorini lettore della Malora), ma è ancora una ricerca su Johnny, sul suo proprio sangue (nel Diario: "Io li sento tremendamente i vecchi Fenoglio" ecc.) e sui suoi/loro luoghi. L'input iniziale della scrittura è anche il punto d'arrivo: bisogna ammettere una Beatrice, una Laura, una Mimma-Fulvia motore di tutta la scrittura, la quale si rivela come un atto dovuto perché atto d'amore. Si veda il racconto L'incontro, qui in appendice, proprio sul primo incontro con Fulvia. Funziona come il capitolo I della Vita Nova e come il sonetto III del Canzoniere. Questa collana "ET Biblioteca" sta diventando di punta nelle edizioni einaudiane, dopo i racconti di Pavese, Primo Levi, Rigoni Stern e questo volume. Si aspetta per il prossimo anno II teatro di Fenoglio a cura di Elisabetta Brozzi. ■ G. Falaschi insegna letteratura italiana all'Università di Perugia L'altro volto del dionisiaco di Guido Baldi Franco Picchio ARIOSTO E BACCO DUE Apocalisse e nuova religione nel "Furioso" pp. 479, € 30, Pellegrini, Cosenza 2007 Vi sono studi critici che rivoluzionano la fisionomia di un classico, dopo i quali la sua opera non può più essere letta come prima. Ciò o è il prodotto inevitabile di un mutamento dei codici culturali di una data epoca e dei relativi strumenti esegetici, oppure deriva dall'individuazione di chiavi di lettura più vicine all'originale intentio auctoris, che con il passare dei secoli è divenuta inaccessibile. E questo il caso del libro di Franco Picchio, in realtà la seconda parte di uno studio unitario, la cui prima parte, Ariosto e Bacco. I codici del sacro nell'"Orlando furioso" (Paravia Scriptorium, 1999), nonostante la forte carica innovativa delle sue tesi, a suo tempo non aveva ricevuto l'attenzione che meritava. L'auspicio è che la riceva ora questo nuovo volume, in cui la ricerca trova il suo compimento. Il punto di partenza di Picchio è che il racconto ariostesco è impostato su più livelli e che l'immagine del Furioso cara alle interpretazioni modernizzanti attualmente più in voga, quella di un poema laico, intriso di incredula ironia, oraziano ed epicureo, non è che la scorza esterna, gestita da un narratore sottilmente inattendibile, che nasconde una "midolla" più segreta e autentica, un discorso simbolico criptato, destinato agli iniziati in grado di decodificarlo. Questo livello segreto può emergere solo se il poema viene inserito pienamente nella cultura del suo tempo, cioè viene messo in relazione con le correnti platoniche ed ermetiche dell'Umanesimo quattrocentesco, in particolare quello fiorenti- no, che continuano ad agire lungo tutto il Cinquecento, sino agli inizi del Seicento. Innanzitutto, lo studioso osserva che le avventure di tutti i personaggi, cristiani come pagani, seguono lo stesso modello morfologico dei riti di passaggio, presentando le stesse funzioni nello stesso ordine di successione. Il cammino esteriore del personaggio è "l'involucro narrativo che racchiude costantemente un cammino interiore di perfezionamento morale e di conversione spirituale" a Dio. Alla base delle fabulae ariostesche si può quindi scorgere l'adesione del poeta alle dottrine della prisca theologia e della perennis religio proposte dal platonismo fiorentino. La serie di itinerari dei personaggi non dà luogo però a una semplice somma di avventure individuali: esse vanno inserite in uno schema esplicativo più ampio, anch'esso sacro. In passato si è sostenuta l'assenza di un piano provvidenziale nelle vicende del Furioso e si è proposta l'interpretazione del poema come di una rappresentazione della follia degli esseri umani, che si agitano spinti dal caso all'inseguimento di mete delusorie. In realtà, afferma Picchio, si può scorgere un preciso piano provvidenziale che sovrintende agli avvenimenti narrati: tutti i personaggi negativi sono chiamati a rispondere delle loro colpe. Non il caso, dunque, governa il mondo del Furioso, ma un piano provvidenziale divino che interviene sistematicamente a ristabilire la giustizia, a punire i reprobi e a premiare i giusti. Ma questa punizione si rifà a una prospettiva eterodossa, di ascendenza origeniana, che concepisce la pena in funzione medicinale, finalizzata solo alla correzione e alla redenzione del peccatore. E la salvezza non è riservata ai soli cristiani, come esige la prospettiva della chiesa, ma può essere elargita a tutta l'umanità, indipendentemente dalla fede professata.