In primo piano In occasione dell'ultima edizione del Festivaletteratura che si è tenuta a Mantova lo scorso mese di settembre, lo scrittore libanese Elias Khuri è intervenuto sul rapporto tra il racconto di guerra e quello d'amore. Dopo l'evacuazione diparte dei territori palestinesi, ecco alcune sue riflessioni. Le parole per dire la vergogna Intervista a Elias Khuri Romanzo fuori da ogni schema, La porta del sole è stato definito "epico". Nella prima parte lei stesso fa dire a Khàlil di essere andato incontro a "una nuova Odissea palestinese". E proprio a questo proposito è citato il poema di Mahmud Darwish. Che cosa significa, alla luce della sua esperienza di scrittore, il concetto di "erranza"? Concetto che è sotteso alla struttura stessa del suo romanzo, che non a caso termina con l'immagine di una corda tesa fra terra e cielo a indicare un nuovo cammino. Avere a che fare con un poema o con un romanzo impone scelte molto diverse. Il poeta deve fare i conti con la sua disposizione d'animo, mentre lo scrittore, quello puro, scrive degli altri e non di se stesso. La prima ricerca, la prima erranza, è quella della scoperta degli altri. Per me scrivere è cercare di scoprire ciò che prima non conoscevo. Ho scritto questo romanzo proprio per conoscere la Palestina: è stato il-mio viaggio in luoghi dove non sono mai stato. Buona parte del romanzo si svolge in Galilea, che non ho mai visitato. I principali personaggi del romanzo si muovono proprio come me, alla ricerca degli altri, per conoscerli meglio. Ho cercato di costruire il loro modo di parlare, la loro lingua, all'interno di una storia d'amore più profonda. Quindi il vero obiettivo che mi sono posto è non tanto di scoprire la Palestina, ma di scoprire l'amore. Dopo quello che Lukàcs ha scritto sull'epica, ogni romanzo può essere considerato una forma epica. Questa però è un'epica fatta di individui, su come ricordano, su come, mentre ricordano, immaginano. Non c'è alcun confine tra immaginazione e ricordo. Ecco perché le storie all'interno del mio romanzo sono riscritte due, tre volte in diverse forme. Si tratta dunque di creare l'affresco di un insieme di vicende individuali che potrebbe essere definito memoria collettiva. Il mio vero progetto, però, era quello di raccogliere delle storie e di imparare a metterle insieme. Domanda solo apparentemente semplice. Che cosa sono per lei le parole? Lungo il romanzo ne dà diverse interpretazioni: parole come punte di coltello, parole arrotondate, parole come storie, parole come silenzio, parole come acqua nella quale lavare "le piaghe coi ricordi". Quanto potere attribuisce dunque alle parole e quanto al linguaggio? La lingua non sembra essere l'ostacolo, lo spiega molto bene Nahfla quando sostiene che l'ebraico sia una lingua facile da imparare... L'arabo e l'ebraico sono simili. Come l'italiano e lo spagnolo. Hanno la stesso origine, per un ebreo sefardita è molto facile imparare l'arabo. E significato di "parola" in arabo classico si trova declinato al passato del verbo parlare, e significa "ferita". La parola in sé è dunque uno strumento, uno strumento di morte. Puoi uccidere qualcuno con le parole. Come esseri umani noi viviamo attraverso il racconto di storie. Quasi metà della nostra vita si consuma nel racconto di storie. Ricordare ciò che è stato è il nostro modo di vivere: quando siamo innamorati di qualcuno la prima cosa che facciamo è raccontare storie. Ricreiamo noi stessi at- traverso le storie che-raccontiamo. Questa è la storia di persone completamente distrutte, persone cui è stato negato anche il diritto di avere un nome. Prima degli anni settanta non era scontato che' la Palestina esistesse, pur esistendo i palestinesi, che erano chiamati arabi. Io ho raccontato di persone che avevano perso le parole, e perso la loro terra. Il primo passo per restituire loro la terra è restituire loro le parole. La "rivoluzione" palestinese, la prima intifa-da, nasce proprio riguadagnando il nome Palestina. L'invasione della Palestina è stata fatta in nome di un libro, è stata mitizzata. Il mito è diventato storia. Anzi, l'unione di due miti, la Bibbia e la civilizzazione, ha funzionato come giustificazione universale. Per combattere questa ambiguità è molto importante la memoria dell'esatto significato delle parole e il corpo che è la sede della memoria. Le donne nel suo romanzo sono la componente propulsiva. Agli uomini il compito, inedito, di ricordare e di narrare. Sono donne imprendibili e fortemente legate alla storia della loro terra, più ancora che ai propri figli e ai propri uomini. Perché questa scelta? Sinceramente non lo so. È venuto fuori così. Lo dico come lettore non come scrittore. Lo scrittore ha un margine di manovra abbastanza relativo: è il romanzo che scrive mentre tu lo scrivi. Non puoi manipolare troppo i tuoi personaggi per forzarli ai tuoi scopi, allora è meglio scrivere un saggio. I personaggi principali sono Nahila e Shams; se devo ricordare qualcuno del mio romanzo ricordo soltanto loro, nessun altro. Gli uomini sono solo ombre, sono le ombre delle donne. E cercano di raccontare storie di donne, non le loro proprie storie. Dopo il tradimento, Shams diventa una fedayn, Nahila rifiuta di andare in Libano con il marito semplicemente perché non lo ama. Agiscono così, molto semplicemente. Solo le donne sono in grado di dare la vita, gli uomini hanno problemi di natura psicologica con la questione della vita, non capiscono che cosa vuol dire. Nahila è tutto questo, mentre Shams è la donna in rivolta, la donna della nuova generazione. Tutte le altre piccole storie ruotano intorno a queste due donne. Sherazade raccontava la storia di un uomo, qui invece è un uomo che racconta la storia di una donna. Mi sorprendo anco- ra a rileggere il mio romanzo, come il marito di Nahila che alla fine le offre un bicchiere di arak e lei rifiuta perché non lo ha mai bevuto: capisce di non sapere nulla di lei. E infine l'amore che si consuma nella lontananza, nella separazione fisica. Come se la vita del profugo fosse inesorabilmente lontana da qualsiasi idea di comunione. O invece pensa che davvero "tutti gli innamorati sono uguali: diventano la storia di un amore che non si compie. Come se l'amore non si compisse mai. Come se ne avessimo paura, come se non sapessimo parlarne - e questo è peggio - come se non sapessimo viverlo". In tutta la letteratura, universalmente, le storie d'amore sono storie di separazione. Non esiste storia in cui due amanti stanno insieme. Credo che questo dipenda dal fatto che il linguaggio non riesce a catturare l'amore. Il linguaggio ha dei problemi nel-l'esprimere i sensi. Abbiamo moltissimi termini che indicano le diverse sfumature dei colori, ma abbiamo solo quattro parole per dire i sensi. L'amore fa parte di questo dominio dove il linguaggio perde piede. È molto difficile scrivere d'amore. I miei amanti sono separati perché concretamente e metaforicamente sono costretti a esserlo. Come nella realtà. Il mio vero grande sogno è di scrivere un romanzo in cui gli amanti non siano separati, vorrei inventare una lingua appropriata a questo tipo d'amore. In questo romanzo ci ho provato, in alcuni casi, ma non credo di esserci riuscito. Uno dei problemi principali che mi pongo come scrittore è di dare le parole ai sensi. Mi hanno colpita alcune parole assai ricorrenti: ebrea, storia, corpo, segreto, malattia, figli, bellezza, vecchiaia. La forza con cui lei le usa sembra indicare la necessità di dover costruire un nuovo vocabolario, ma non per un eventuale pace, ma piuttosto per evitare nuovi motivi di conflitto. Quasi che lei volesse dire siamo arrivati a questo punto, non andiamo oltre. E così? Se voglio scrivere di pace scelgo di scrivere un articolo. Ho scritto molto in questo senso. Se invece decido di fare letteratura non so a che cosa andrò incontro. Fare letteratura vuole dire, prima di tutto, innovare la lingua. L'arabo ha bisogno, più di altre lingue, di essere modernizzato. Non possiamo più scrivere come seicento anni fa. Le parole devono essere riviste, riutilizzate secondo nuovi significati. Altrimenti sarebbe un dialogo con il passato, con i morti. La catastrofe palestinese non era mai stata raccontata. Non ci sono romanzi che ci abbiano provato. Questa storia andava raccontata. È molto difficile perché è una storia che continua, che non è ancora finita. Per i palestinesi raccontarla è una vergogna perché è stata una totale disfatta. Essere un profugo vuol dire essere una persona che aspetta di tornare indietro, che quindi non accetta ciò che è accaduto. Quando la memoria ritorna attraverso il racconto allora è possibile separarsi dal passato. Qualcosa di nuovo accade. Non è così ovvio scrivere di madri che nella fuga lasciano indietro i propri figli nei villaggi. Solo le parole possono lavare la vergogna. ■ a cura di Camilla Valletti