Politica Una revisione necessaria Al di sopra del quotidiano di Michele Sisto GIAIME PINTOR E LA SUA GENERAZIONE a cura di Giovanni Falaschi pp. 366, €26 manifestolibri, Roma 2003 i £ Z' apisci che non è tanto V_Mnquadrabile", sbotta a un tratto Luigi Pintor, e pare di vederlo allargare le braccia, mentre a distanza di cinquantanni cerca di raccontare alla giovane intervistatrice che cos'è stato suo fratello. In effetti la personalità e la vicenda di Giaime Pintor (1919-1943), antifascista e critico letterario, mettono a dura prova il modo corrente di intendere l'antifascismo e la critica letteraria. Il ricco volume dedicato a Giaime Pintor e la sua generazione raccoglie quattro saggi storici (Gianpasquale Santomassimo, Maria Cecilia Calabri, Angelo d'Orsi, Luca La Rovere) e tre letterari (Hermann Dorowin, Giorgio Falaschi, Isabella Nardi), corredati in appendice da dodici conversazioni con amici e familiari di Giaime (da Norberto Bobbio ad Aldo Natoli, da Luigi Pintor a Edgardo Sogno): saggi e conversazioni che dialogano tra loro, si integrano a vicenda, talvolta si contrappongono. E proprio per questo riescono a restituire il contraddittorio profilo di un giovane passato alla storia, nell'immediato dopoguerra, come antifascista, comunista, eroe della Resistenza e modello di un'intera generazione, ma che prima delì'8 settembre aveva goduto di buone entrature politiche nell'élite culturale fascista, aveva scritto sul "Primato" di Bottai, partecipato ai Littoriali e ancora nel '42 aveva assistito, in veste ufficiosa se non ufficiale, al congresso degli scrittori nazisti di Weimar. Non fosse un termine in sospetto d'eresia, si direbbe che si compie-qui una revisione: un'onesta e necessaria revisione, quasi tutta interna alla cultura di sinistra, dell'immagine tràdita e tradita di Giaime Pintor, che del resto è già stata sottoposta a svariati ritocchi e restauri, almeno a partire dalla pubblicazione del Doppio diario a cura di Mirella Serri (Einaudi, 1978) e dalla lacerante recensione che ne fece Franco Fortini ("Quaderni piacentini", 1979, n. 71). Se i saggi di Santomassimo, La Rovere e Calabri - quest'ultimo anticipando una ponderosa biografia, Il costante piacere di vivere, in pubblicazione presso Nino Aragno - ricostruiscono con chiarezza la vicenda di Pintor, collocandola sullo sfondo degli anni '30, l'interpretazione più audace e suggestiva è senz'altro quella di Angelo d'Orsi, che attraverso il paragone con il più anziano Leone Ginzburg e con altri coetanei, rende ben evidenti i limiti e i meriti dell'esperienza di Pintor: se da una parte egli non possiede la coscienza di un Ginzburg, che sacrifica prima la libera docenza quindi la libertà e la vita all'imperativo politico e morale dell'antifascismo, dall'altra subito dopo l'8 settembre abbandona l'esercito per unirsi alla Resistenza, e con questo "la sua scelta fu fatta, a differenza di un Pavese, di un Cajumi, di un Bobbio, dello stesso Carlo Levi, pure decisamente antifascista da sempre". Si tocca qui il nodo problematico dello statuto degli intellettuali e del loro rapporto con il potere: gli intellettuali della generazione di Pintor - osserva d'Orsi - erano "accomunati tutti dal bisogno di fare cultura, prima di tutto, e solo raramente [erano] pronti a rischiare un ruolo sociale a cui ambivano e che certo meritavano". L'anteporre il lavoro culturale all'azione politica, spesso considerata uno sporcarsi le mani, era caratteristico di un ceto che si sentiva al riparo dalle vicissitudini della storia, e poteva ostentare, come Pintor faceva, un "suo modo di stare al di sopra della vita quotidiana" (Natoli), uno "spirito azegliano" (Sogno), uno "snobismo da intellettuale" (Bobbio). Questa ambiguità dei "ceto di potere e di opposizione" non viene meno con la fine del ventennio: ancora nel 1979 Fortini attacca provocatoriamente "quelli della razza di Giaime Pintor" come i suoi "veri avversari", perché non avevano saputo o voluto rinnegare la propria appartenenza a un ambiente sociale "i cui modelli (di spregiudicatezza, realismo politico, senso del potere e dei rapporti di forza ecc.) erano nelle grandi borghesie europee conservatrici e reazionarie". E tuttavia quando, come nel caso di Pintor (e di Fortini, in questo a lui assai affine), l'ambiguità viene riconosciuta ed esplicitata, il "ceto di potere e di opposizione" esprime il meglio di sé: esplora i propri limiti, si porta in un tale stato di tensione che il suo lavoro culturale può a ogni istante trasmutare in militanza. Proprio questo è l'itinerario del Pintor saggista e collaboratore einaudiano. Rileggendo con Dorowin gli scritti germanistici raccolti in II sangue d'Europa (Einaudi, 1950) si rimane ancor oggi stupefatti dall'assoluta disinvoltura di un venti-ventiquat-trenne che già si sente parte pienamente attiva e responsabile del sistema culturale italiano: Pintor non esita a stroncare senza appello scrittori affermati (i poeti del nazismo, e dopo lunga esitazione anche l'amato Ernst Junger), riconosce con sicurezza testi di interesse documentario (I Proscritti di von Salomon) o portatori di un nuovo paradigma letterario (Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remar-que), non si sente tenuto alla reverenza nei confronti dei classici (come il Werther) e dà prova di saper distinguere, più finemente di quanto avrebbe fatto pochi anni dopo Lukàcs nella Distru- zione della ragione, i "frutti buoni" del romanticismo da quelli velenosi, recuperando KÌeist, Nietzsche, Rilke. A evitare la tentazione, piuttosto forte, di interpretare Pintor con il senno di poi, mettendo tra parentesi il lungo travaglio della cultura italiana dal dopoguerra fino all'89, per farne un precursore del nostro tempo post ideologico in cui Nietzsche convive pacificamente con Benjamin, Dorowin si attiene saldamente al paradigma di un Pintor illuminista. Risulta così ancora una volta che la sua posizione antideologica, la sua reticenza a confrontarsi con la società di massa e la sua vicinanza, per questo motivo, più al-l'azionismo che al comunismo hanno le loro radici in un'educazione liberale, risorgimentale, comunque elitaria e proveniente dal passato piuttosto che proiettata nel futuro. La 'cultura di Pintor, che abbraccia Nietzsche, Rilke, Junger e von Salomon ma esclude Kafka, Brecht, Dò-blin, Musil, Roth e Kraus, è la cultura egemonica negli anni trenta: la sua eccezionalità sta nello sforzo di trascenderla, salvando ciò che in essa era salvabile o, come lui scriveva, "utile". Analogamente, e in anticipo di parecchi anni su un percorso comune a molti intellettuali nel dopoguerra, Pintor, che pure si era incluso in una "generazione senza maestri", si affranca gradualmente da un maestro grande e scomodo: Benedetto Croce. Lo fa in letteratura, come mostra molto chiaramente Nardi, individuando una linea non crociana che va da Jahier a Vittorini; lo fa in filosofia, contaminando lo storicismo crociano con fermenti vicini al vitalismo di Ortega y Gasset e ancor più all'esistenzialismo di Sartre; lo fa in politica, abbandonando l'antifascismo formale dei vecchi liberali per prendere parte alla guerra partigiana. Superato in questo modo Croce, Pintor resta davvero "senza maestri", e nella necessità di costruire in proprio dei punti di riferimento per sé e per la sua generazione. In questa svolta, che si compie nell'arco di un triennio, dal '40 al '43, va forse rintracciata l'origine e il definirsi del suo modo di intendere il lavoro culturale: le recensioni insofferenti, il "saper gridare" contro le opinioni letterarie correnti, la predilezione - ben evidenziata da Falaschi - per il saggio inteso come "forma d'intervento militante" e per una linea editoriale basata su "volumi brevi, di forte impatto formativo". Prima di diventare lotta partigiana, la militanza è intesa da Pintor come lavoro di selezione, rigoroso e tutt'altro che indolore, delle acquisizioni più feconde e immediatamente utilizzabili della cultura europea in decadenza. Lo si vede bene nelle sue proposte editoriali per Einaudi: dopo la traduzione di una scelta molto personale di poesie rilkia-ne e la riproposta del Saggio sulla Rivoluzione del Pisacane, Pintor cura un'edizione delle Considerazioni sulla storia di Nietzsche. Nietzsche gli serve per assestare un colpo a una certa accezione dello storicismo, allora dominante nella cultura italiana, che a suo parere si risolverà in "ossequio e passività di fronte a ogni 'potenza storica'"; a questo scopo egli fa tradurre solo la seconda delle Inattuali, che accompagna con un'introduzione (unico suo testo importante non incluso nel Sangue d'Europa), in cui cita per esteso il passo che più gli interessa: "Chi ha imparato una volta a curvare la schiena e a chinare il capo di fronte alla 'potenza della storia', risponderà con un gesto meccanico di assenso, con un gesto alla cinese, a ogni potenza, si tratti di un governo, di un'opinione pubblica o di una maggioranza numerica e si muoverà secondo il ritmo con cui quella potenza tirerà i fili". Il volume esce nell'aprile 1943. A chi si rivolge Pintor: solo a se stesso e alla sua generazione? ■ dedalus76@libero.it M. Sisto è dottorando in letterature comparate all'Università di Torino Catallassi spontanea di Maurizio Griffo Stefano Cercanti, Salvatore Vassallo (a cura di) COME CHIUDERE LA TRANSIZIONE Cambiamento, apprendimento e adattamento nel sistema politico italiano pp. 411, €26 il Mulino, Bologna 2004 Peppino Calderisi, Fabio Cintoli, Giovani Pitruzzella (a cura di) LA COSTITUZIONE PROMESSA Governo del premier e federalismo alla prova della riforma pp. Ili, €4, Rubbettino, Soneria Mannelli 2004 Gli osservatori del nostro sistema politico si dividono tra catastrofisti, che giudicano il paese a un passo dalla dittatura, e denigratori delle ataviche tare italiche, per i quali il paese sarebbe inadatto a un ordinato reggimento. Minoritari sono quanti cercano di interpretare i processi in corso. Per far crescere il loro numero consigliamo la lettura di questi libri, a cui occorre aggiungere II premierato nei governi parlamentari, a cura di Tommaso Edoardo Frosini (pp. 207, € 16,50, Giappichelli, Torino 2004). La tesi di fondo che accomuna gli autori è che il sistema italiano, seguendo una spontanea catallassi, si è riorganizzato come una democrazia immediata, nella quale le elezioni politiche decidono quale fra due schieramenti dovrà governare per una legislatura. Il volume curato da Ceccanti e Vassallo offre un panorama dell'evoluzione nell'ultimo quindicennio e suggerisce una possibile soluzione. Nei fatti è mutata la forma di governo. L'elettore al momento del voto elegge sì un parlamentare, ma al tempo stesso dà un'indicazione per il governo. Si tratta ora di formalizzare questa prassi. Cosa possibile perché le proposte avanzate dalle due parti politiche si somigliano. Il centro-destra ha abbandonato il presidenzialismo e si è convertito al premierato, riprendendo in sostanza le proposte formulate in precedenza dal centro-sinistra. Insomma, al di là del polverone polemico quotidiano, esiste una complementarità fra le riforme ipotizzate, e non più un'incompatibilità, come avveniva venti anni addietro. Molti saggi del volume dettagliano specifici aspetti di questa dinamica. Il volume curato da Calderisi, Cintoli, e Pitruzzella ha un profilo più tecnico. In esso viene analizzato il progetto di riforma costituzionale recentemente licenziato dal Senato. Contrariamente a quanto lascerebbero pensare le polemiche che hanno accompagnato quel voto, i problemi che emergono non sono legati a un eccessivo potere del premier, ma soprattutto al senato federale che, svincolato dal voto di fiducia ma dotato di una troppo ampia facoltà legislativa, renderebbe quasi impossibile la governabilità. Un carattere maggiormente accademico contraddistingue il volume curato da Frosini. Nei contributi in esso raccolti si dimostra che il premierato non è una escogitazione astrusa di giuristi in libera uscita, ma un adattamento del sistema britannico a diverse condizioni. E ovviamente esso non ha niente a che fare con la formula sperimentata con scarso successo, e presto abbandonata, in Israele. Insomma, a leggere questi studi si può essere ottimisti sul futuro della democrazia italiana, anche se la cronaca ci presenta un forte rigurgito partitocratico. Certo, la subcultura centrista dei governi deboli potrebbe anche prevalere, ma questo significherebbe relegare l'Italia al ruolo di contennenda cenerentola d'Europa.