N. 7/8 12 □ Il male non si spiega di Massimo Cappitti Antonio Scurati IL SOPRAVVISSUTO pp. 370, € 16, Bompiani, Milano 2005 Il 18 giugno 2001, giorno di esami orali, Vitaliano Caccia, studente "difficile" e già ripetente, stermina, inesplicabilmente, la commissione di maturità, risparmiando solo Andrea Marescalchi, insegnante di filosofia, "unico superstite lasciato indietro a contare i morti e a maledirsi per non essere nel loro numero", salvato dall'assassino quasi che questi gli avesse affidato il compito di "trovare la ragione di un gesto incomprensibile forse persino al suo autore". Dell'irruzione del male e del tentativo di Andrea di venirne a capo, a prezzo della propria integrità psichica e sopravvivenza fisica, racconta II sopravvissuto, l'ultimo bellissimo romanzo di Antonio Scurati. Male presentito dal protagonista dapprima come vago malessere di fronte a un futuro di cui teme l'avvento, poi come riverbero di una "pestilenza vaporosa ancora sospesa" che avvolge, "incipiente e inesorabile", uomini e cose come un miasma. Eppure, contro e nonostante questa presenza maligna che intride l'esistente, Andrea vuole capire, affinché la morte non abbia l'ultima parola. Del resto egli sa che la violenza non è mai strumento di "rivelazione" alcuna né consente uno sguardo più perspicuo sul reale, ma è sempre solo dolore senza nome e, per questo, tanto più insopportabile. Stretto allora fra la straziante impossibilità di scovare un movente e la necessità, comprendendo, di risarcire le vittime, Andrea accetta la sfida dell'omicida, tentando di trasformare la grazia maledetta della vita risparmiatagli in un'opportunità di comprensione. Per questo motivo sceglie di scavare dentro di sé dove, forse, si annida la sua complicità con Vitaliano. Pertanto, anziché "accomodarsi tra le vittime", senza indulgenze e reticenze, decide di percorrere a ritroso la propria vita alla ricerca di una spiegazione introvabile, perché il male, comunque, "non si spiega", bensì "si compie", accade. Le spiegazioni degli esperti, ad esempio, si susseguono, come chiacchiere vacue di "turistidel dolore", senza sfiorare la verità del massacro, attribuito da qualcuno alla solita "scomparsa dei valori", da altri imputato a una sorta di guerra civile, combattuta, ora sordamente ora clamorosamente, tra vecchi e giovani. Spetta allora ad Andrea U compito di ricomporre il senso infranto del gesto di Vitaliano. Accompagnato da timore misto a soggezione, Marescalchi è stato fi sopravvissuto m destinato dalla sua mancata esecuzione ad abitare quella zona di indecidibOità, dove vita e morte sono così prossime da sfumare, indistintamente, l'una nell'altra. Spogliato, quindi, di ogni identità o ruolo definiti, il protagonista sa che a nulla sarebbe approdata la sua ricerca qualora avesse continuato a "ripercorrere analiticamente l'infinita catena dei nessi causali". Occorre invece "fiutare il momento singolare e fatidico" nel quale "il concepimento del crimine era misteriosamente avvenuto nella copula" tra la sua mente e quella di Vitaliano, dove, cioè, la parola di un insegnante può acquistare una forza persuasiva impensabile anche per chi l'abbia pronunciata e diventi, per chi l'ascolti, parola che si fa carne, che pretende di inverarsi in una pratica. In questa solidarietà profonda e conturbante risiede, forse, il movente del massacro: non certamente nelle mediocri esistenze di insegnanti "bruciati dalla vita". Vitaliano, d'altra parte, non può incarnare neppure il ruolo dell'"angelo sterminatore" incaricato di estirpare, con una punizione esemplare, la "radice della colpa", la vita stessa, cioè. Se così fosse, la strage del giovane sarebbe inscritta nell'ordine delle cose e pertanto giustificata. Andrea, invece, accetta di farsi carico della propria responsabilità perché riconosce di essere la "zona grigia" dove viene meno la distinzione tra chi fa il male e chi permette che avvenga, espressione entrambi della "colpa metafisica che ognuno di noi porta in sé per il male causato dall'uomo all'uomo". La discesa del protagonista nell'abisso per cercarvi "la risposta che continuava a sfuggirgli sulla terra ferma" comporta allora il pericolo mortale della definitiva frantumazione della sua identità. In lui, all'improvviso, si ricapitola tutto l'orrore della storia umana, consegnato inoltre alla sua tragica insignificanza dall'incapacità e impotenza divine a tener fede alle promesse di redenzione, da un lato, e, dall'altro, dalla "spietata neutralità" e dalla "volgare indelicatezza" della natura che continua, indifferente al dolore umano, a proseguire il suo corso arbitrario e feroce. Andrea, finalmente, ritorna alla piena presenza di sé, pur segnata dalla consapevolezza dolente di una solitudine inconsolabile come la passione del Cristo sulla croce. Ma, nel contempo, ritornano anche lo stupore ammirato per la vita che, nonostante tutto, si ripresenta nei volti degli studenti che gli si fanno incontro e la disponibilità a misurarsi nuovamente con "l'insondabile mistero dell'educazione". Disponibilità a rinnovare, cioè, il corpo a corpo che, fatalmente, accompagna il succedersi delle generazioni, il rapporto tra i singoli e, probabilmente, quello con noi stessi e che costituisce l'unico senso della vita attingibile, quello tragico, appunto. ■ M. Cappitti è insegnante Narratori italiani Non è intimidito di Cristina Bracchi Sensibile al fascino delle voci inascoltate, Vittorio mi regalò Cassandra, di Christa Wolf. Era il 1984, avevo diciannove anni, tu ventisei. Raccontare Vittorio a Vittorio. Questo voglio fare, e lo faccio a partire da me. Ma chi narra, vuole essere narrato? Svelato? Le mie parole saranno una biografia data solo per accenni. Allora, soggettivamente, scelgo: la tua formazione umanistica all'Università di Torino e la formazione politica fuori dall'Università; il lavoro in ferrovia che muta col tempo per mansioni, incarichi, responsabilità e la dimensione di studioso, che legge e interpreta la critica antinobiliare e anticlericale dei versi clandestini di Ignazio Avventura, che segue le imprese del misterioso avventuriero Giambattista Boetti. Passioni settecentesche, in relazione con l'estetica del contenuto e la concezione laica della cultura, prassi esistenziali di fedeltà a sé. E la scrittura? Narrativa, creativa, letteraria. Tra inclinazione e studio. Un lusso di cui avere cura in economie di vita come le nostre, qui e ora, che poco hanno da concedere ai sogni e ai desideri, minacciate da tendenze regressive in atto e da analfabetismi di consapevolezza, di critica e di progettualità variamente diffusi. Hai scelto l'agire della scrittura, perché hai gusto di narrare e di sorprenderti nell'esplorazione del sé e nella riprogettazione dell'identità che invita a fare, ma non solo quale divertissement curioso e intrigante con cui trastullarti. L'agire a cui penso interviene in una rete di relazioni umane senza diventare comportamento. La sua imprevedibilità è condizione della libertà nelle regole e produce con- seguenze non calcolabili in anticipo. . i Quanto ab- L'INEblTO biamo discusso su Hanna Arendt e la filosofia dell'agire. Rischio e adrenalina, come le pratiche di scialpi-nista a cui ti dedichi, libere dall'agonismo, dense di fantasia. Seduttive. Come il sapere, le sue rappresentazioni, la sua trasmissione. Dietro lo studioso, il bibliofilo, attento a reperire prime edizioni di opere amate nei mercatini di provincia. Come, di recente, La bufera e altro di Montale. Dissenso propositi- Ili viaggio vo rispetto a un contesto dato non a propria misura. Ecco il circolo virtuoso che si genera dal libro, dalla scrittura, dalla letteratura, dalla narrazione. Favretto - qui faccio una pausa dalla tensione affettiva -con la sua scrittura lo rende dinamico e si mette in gioco. La perdita di sé di In viaggio è solo uno dei momenti narrativi in cui l'autore movimenta generi e linguaggi per appropriarsene con l'autorevolezza di chi dal narrare non è intimidito, perché è consuetudine relazionale, oralità del racconto ereditata dai luoghi d'origine, tra Grave-re e Bussoleno, nella media Val di Susa. Mi piace la franchezza di pensieri e atteggiamenti di un io che si perde perché si è messo in discussione. Mi piace pensare ad una maschilità che è consapevole della propria differenza sessuale. Mi piace ricordare la relazione, anche politica, che la reciproca consapevolezza di sé ha reso possibile tra Vittorio e me nella costante, faticosa differenza. ■ bracchi@cisi.unito.it C. Bracchi è studiosa di letteratura italiana di Vittorio Favretto ...Ui j na birra da Angelita, giù al vecchio porto. Angelita è stata una bella donna. Era la più bella di tutto il porto. Nella sua Cantina, la sera, si riunivano i pescatori a raccontarsi delle burrasche, dei mostri marini, delle pescate favolose, delle donne... Ora Angelita è vecchia e la sua casa è molto più vecchia di lei. Il porto del pesce non esiste più. L'unica memoria è l'immenso pontile che si allunga nell'oceano. Le travi rose dalla salsedine lasciano ampi spazi sotto i piedi che, incerti, avanzano sperando che le assi non cedano. I giganteschi paranchi arrugginiti servono solo da scenografia ai voli dei gabbiani, cormorani, sule, pellicani, che si sono riappropriati dello spazio; quello di terra, il cielo è sempre stato loro. Ora il pontile è un lungo dito nero puntato sull'orizzonte, utile solo a scaricare i piccoli cesti di pesce che solitari pescatori strappano faticosamente al mare. Angelita a volte esce dal suo caffè. Fa scivolare fuori il corpo rinsecchito e guarda in fondo alla strada. Tutto il mondo alla fine del suo mondo. Il suo sguardo vaga attento nella luce caliginosa del tramonto che avvolge le vecchie case di legno dalle pareti schiodate. Angelita ha un brivido. Si chiude il golfino rosso al collo e lancia un ultimo sguardo miope al fondo della via, poi, rientra nella sua vita. Non so perché ti racconto di Angelita. Forse perché anche lei mi è sembrata persa. Lì in quel posto dismesso. Persa, senza mai uscire dal suo mondo. Persa a poco a poco, insieme alla vecchiaia, alla solitudine che, sempre più spesso è andata a visitare la sua osteria. Trovandosi così bene da non abbandonarla più. La prima volta che mi sono perso, trovare Angelita è stato come una boccata d'aria fresca. E stato come ritrovare una vecchia amica. Perché, vedi, la prima volta non mi sono perso così, su due piedi; in fondo ho anche cercato di spiegare. Ho lasciato delle tracce. Non è poi così facile perdersi. Ho capito che mi sarei perso il giorno del nostro arrivo. Sì, perché eravamo in due, io e lei. Da quel momento le ho scritto una lettera al giorno. Le scri- vevo mentre dormiva o era uscita o non eravamo insieme per qualche altra ragione. Lei le avrebbe lette tutte al suo ritorno. Le ho scritto come a una persona troppo vicina. Proprio nel momento in cui eravamo solo noi. Sapevamo entrambi che con la fine del viaggio sarebbe terminata anche una parte della nostra vita. Il viaggio era stato solo una scusa di cui ci eravamo serviti per salutarci. Spedii le lettere di nascosto, durante le sue assenze, in cui pregustavo il veleno della nostra definitiva lontananza. Come nei nostri film, che finivano quando davvero era finita. Due vite che si biforcano. Due sassolini trascinati lontano dalla corrente e modellati dallo stesso fiume in modo diverso. Forse fino a non riconoscersi più. Per me è stato come raccontarle un viaggio che aveva già fatto. Per lei, forse, leggere il suo viaggio con gli occhi di un altro.. Un mondo letto in due modi completamente diversi. Due mondi. Le due facce della vita. Sarei curioso di leggere la sua versione, non solo di quel viaggio, ma di tutto il tempo passato e vissuto insieme, ma ora è tardi, troppo tardi. Poi un giorno, uno qualunque, ho conosciuto gli amici di cui ti parlavo prima e poi c'è stato l'ultimo carico. Avevo nascosto la borsa con i mitragliatori vicino a un cactus san pedro. Lo so. Era stata una pazzia attraversare la città con quella borsa a tracolla. Ma, dopotutto, era un rischio calcolato. Anche se tutte le vie erano presidiate, difficilmente fermavano un turista per perquisirlo. Ora però viene il bello. Dovevo trovare un passaggio. Impensabile usare l'autobus. Non sarei mai passato indenne dai posti di blocco che controllavano tutti gli accessi alla capitale. Dovevo trovare un'altra soluzione. Entrai di nuovo in città. La periferia non era ancora circondata da baraccopoli come ora, ma non era comunque un posto dove sentirsi tranquilli. Non potevo far esplodere un casino per un semplice tentativo di rapina ai miei danni per quel-