L'INDICE 7 ■■IDEI LIBRI DEL MESE ' cubani Harvard Moscato Era noto che la guerra del 1898, che anche in Italia si continua a presentare come "ispanoamericana", in realtà era stata una guerra di indipendenza cubana e filippina, di cui avevano approfittato gli Stati Uniti, dopo una lunga campagna di intossicazione dell'opinione pubblica condotta dai due grandi gruppi che dominavano l'informazione, quello di Hearst e quello di Pulitzer, in apparente concorrenza tra loro prima nel drammatizzare ed esagerare i crimini delle truppe spagnole, poi nel fare sparire completamente il ruolo della resistenza. Il libro di Alessandra Lorini (L'impero della libertà e l'isola strategica. Gli Stati Uniti e Cuba tra Otto e Novecento, pp. 336, € 23,50, Liguori, Napoli 2007) affronta tuttavia questa vicenda da un'ottica insolita, concentrandosi sulle trasformazioni nella società statunitense venute alla luce nel corso di quella guerra, in particolare sull'affermar-si di una "coscienza imperiale". Certo, nel corso di tutto il XIX secolo gli Stati Uniti avevano fatto più di un centinaio di interventi in paesi anche molto lontani, ma in genere con l'obiettivo contingente di assicurarsi la "libertà di commercio" o di "punire un affronto", più che di annettere territori. Lo spostamento della frontiera verso ovest e verso sud era stato concepito solo come una "naturale" estensione del territorio per "portare la civiltà in terre disabitate e barbariche". Perfino quando alla Repubblica messicana, tutt'altro che consenziente, furono strappate un milione di miglia quadrate (su un totale di 1.700.000). I progetti su Cuba, invece, erano motivati in termini diversi: prima di tutto gli Stati Uniti avevano superato la Spagna nel commercio con l'isola fin dall'inizio dell'Ottocento, e avevano acquistato la maggior parte delle terre coltivabili, costruendo grandi e moderni impianti di trasformazione della canna, introducendo contemporaneamente su larghissima scala il lavoro schiavistico: tra il 1816 e il 1867 a Cuba erano arrivati 595.000 africani, più di quanti ne arrivarono negli Stati Uniti in tutto il periodo della tratta (523.000). Nella prima metà dell'Ottocento, a Cuba si era formata una forte corrente che chiedeva l'annessione agli Stati Uniti; erano prevalentemente latifondisti, terrorizzati dal pericolo di una grande rivolta di schiavi sull'esempio di quella di Haiti e inquieti per la debolezza dell'impero spagnolo. Il loro obiettivo era quello di unirsi agli stati schiavisti del sud. La conclusione della guerra di Secessione aveva però indebolito fortemente il partito annessionista: non a caso la prima rivoluzione cubana comincia appena tre anni dopo la sconfitta degli stati del sud, e il suo principale animatore, Carlos Manuel de Céspedes, aveva cominciato la lotta liberando e arruolando i propri schiavi. Successivamente, almeno tre presidenti degli Stati Uniti avevano tentato di acquistare Cuba dalla Spagna, come avevano fatto in passato con la Louisiana dalla Francia e la Florida dalla stessa Spagna, trovando un certo interesse a corte, ma senza riuscirci per la reazione sdegnata dell'opinione pubblica spagnola. L'apporto principale del libro della Lorini è però soprattutto l'interpretazione del significato che assume l'impresa in una società attraversata da tensioni profonde. Trent'anni dopo la guerra di Secessione, era in corso una riconciliazione tra i bianchi del Nord e quelli del Sud, che cancellava l'apporto dei soldati di colore all'esercito nordista e stabiliva un'intesa in chiave razzista. Era necessario ricostruire un esercito permanente, che era praticamente inesistente: il tentativo di formare delle unità di soldati di colore (nell'illusione che resistessero meglio degli altri alla febbre gialla di origine africana) aveva portato a gravi incidenti razziali in Florida. Alcune incredibili violenze di volontari bianchi dell'Ohio, ubriachi, che avevano perfino fatto il tiro al bersaglio con un bambino nero, aveva scatenato la reazione di un gruppo di soldati di colore, che distrussero anche i saloon e i caffè hi cui erano stati rifiutati. I quattro reggimenti di colore, rigorosamente comandati da ufficiali bianchi, rappresentavano appena il 5 per cento dei volontari arruolati. Il grosso era rappresentato da avventurieri del West, a cui Theodore Roosevelt aveva voluto aggiungere un pugno di indiani Cherokee e Creeks, già sperimentati durante le guerre ai "selvaggi" per la conquista della frontiera. Agli studenti universitari volontari si garantivano i crediti accademici anche se si assentavano dai corsi. Teddy Roosevelt celebrò l'impresa cubana dei suoi Rough Riders in un libro apologetico, ma l'aveva preparata con discorsi e articoli che la presentavano come una necessità assoluta per un paese che da trent'anni non aveva combattuto nessuna guerra: "Darei il benvenuto a qualsiasi guerra -aveva detto - perché credo che questo paese ne abbia bisogno. Se perdiamo le nostre qualità virili, mascoline e sprofondiamo in una nazione di meri faccendieri, allora davvero saremo in una condizione peggiore di quella delle antiche civiltà negli anni della loro decadenza". Era questo, d'altra parte, il "destino manifesto" degli Stati Uniti, concetto formulato fin dal lontano 1845 da John Sullivan, in rapporto alla questione dell'annessione del Texas ed entrato profondamente nell'opinione pubblica: bisognava espandersi su tutto il continente e moltiplicarsi, grazie al favore della Provvidenza. Salvo preoccuparsi della presenza di gente di colore nei territori conquistati, e discutere seriamente della possibilità di deportare verso l'Africa i neri "eccedenti"... II razzismo si intrecciava a tutta la preparazione della guerra: i "maschi americani" dovevano combattere i "selvaggi" ed "effeminati" spagnoli che opprimevano i poveri cubani. Pochi mesi dopo venivano presentati come barbari i cubani, di cui si era scoperto con orrore che erano quasi tutti di colore, anche tra gli ufficiali superiori dell'esercito di liberazione. Il loro apporto fu taciuto e dimenticato e l'amministrazione civile incorporò subito - accanto agli statunitensi - un gran numero di spagnoli. Il libro di Lorini dedica poche righe agli altri paesi che furono oggetto delle mire statunitensi, in particolare Portorico (rimasta fino a oggi sotto il dominio di Washington) e le Filippine, che per liberarsi hanno dovuto combattere per mezzo secolo. Analizzare le forme diverse della dominazione iniziata in quei paesi nel 1898, e diversificatasi a seconda del tipo di risposta incontrata, può fornire qualche elemento in più per la comprensione del carattere consapevolmente ed esplicitamente imperialista della politica di Washington nel corso di tutto il Novecento. Ma la scelta di approfondire l'analisi delle relazioni degli Stati Uniti con la sola Cuba offre spunti di riflessione estremamente interessanti. Ad esempio, emerge chiaramente che per motivi diversi, tra cui il timore di un afflusso troppo forte e rapido di elementi di "razza negra", si consolidarono a Washington tendenze ostili all'annessione vera e propria. Un emendamento Teller impegnava gli Stati Uniti a rinunciare a qualsiasi intento di esercitare il controllo o la sovranità sull'isola. Era la linea caldeggiata dal magnate dell'acciaio Andrew Carnegie, che rifiutava di trasformare il proprio paese in "un aggregato disperso di razze aliene", non quella del generale Wood, il governatore che puniva severamente ogni manifestazione nazionalista, al punto di destituire bruscamente il sovrintendente delle scuole pubbliche dell'isola, Alexis Frye, discepolo di Dewey, che aveva organizzato nel 1900 un viaggio di formazione di 1.273 maestri cubani ad Harvard, consentendo l'esibizione di bandiere cubane sulle navi e nell'università e, peggio ancora, aveva annunciato al ritorno il suo fidanzamento con una maestra di Càrdenas. Era il fallimento del progetto di "americanizzazio-ne", e la rinuncia allo scontro frontale con il nazionalismo cubano. Due anni dopo nasceva la "repubblica dipendente", con l'emendamento Platt che garantiva in ogni momento la possibilità di intervento militare diretto, mentre una capacità egemonica ben più forte della stessa presenza militare trasformava profondamente la società cubana. ■ antonio.moscatoSunile.it A. Moscato insegna storia contemporanea e storia del movimento operaio all'Università di Lecce Una stagione ' u neokennediana? di Boris Biancheri Con esemplare scelta di tempo, proprio nel momento cruciale delle primarie più emozionanti che gli Stati Uniti abbiano conosciuto da molti anni e in vista di elezioni presidenziali altrettanto incerte, usciva il bel libro di Maurizio Molinari Cowboy democratici. Chi sono e in cosa credono i liberal che vogliono conquistare la Casa Bianca e cambiare il mondo, pp. 169, € 15, Einaudi, Torino 2008. E tutt'altro che un libro confezionato su misura per cogliere un momento di curiosità e di interesse, destinato a essere dimenticato a elezioni avvenute. Molinari vive a New York da molti anni, conosce la politica americana perfettamente e ne scrive con intelligenza. Il suo libro è una carrellata sulle recenti vicende del Partito democratico e sui suoi protagonisti, frutto di studi, indagini e interviste come pochi se ne vedono anche nella letteratura specialistica di area anglosassone. Per orientare il lettore in una costellazione democratica dove nomi ben noti si alternano ad altri che sono poco conosciuti a un europeo, Molinari ha raggruppato i suoi personaggi per tendenze, distinguendo i liberali più intransigenti dai nuovi verdi, dai ferventi religiosi e così via. Ma ci si sbaglierebbe a voler tracciare delle analogie tra queste partizioni e il tipo di correnti, correntine e correntoni che animano la vita dei partiti di casa nostra. La lotta politica americana non si svolge tra correnti ma tra singole individualità, e prevale di regola non chi ne aggrega altre attorno a sé ma chi riesce ad affermare con chiarezza la propria. Possono evidentemente esservi tra loro affinità di estrazione sociale, di pensiero o di programma, ma non si traducono poi in consorterie e raramente in centri di potere. Il termine "cowboy democratici" è stato inventato per designare coloro che hanno ispirato e condotto la clamorosa rivincita dei democratici nelle elezioni congressuali di mezzo termine del novembre del 2006, dopo la disastrosa sconfitta di Kerry contro Bush di due anni prima. "Cowboy" perché hanno abbandonato il terreno familiare delle battaglie democratiche del passato, fondate su una radicale contrapposizione ideologica al credo conservatore, per avventurarsi in un terreno finora inesplorato e proporre non tanto ciò che li differenzia dai repubblicani, quanto uno spirito unitario basato sia sul desiderio del nuovo che sui valori tradizionali di libertà e religiosità che hanno dato vita alla nazione americana. Questa definizione si attaglia in parte a entrambe le figure che hanno dominato le primarie democratiche, Barack Obama e Hillary Clinton, pure così diverse tra loro. L'uno e l'altra, almeno inizialmente, hanno impostato la loro campagna non sulla differenziazione ma sull'unità, non sulla polemica ma sulla riconciliazione. E significativo, per esempio, quanto poco la politica dell'amministrazione Bush sia stata evocata negativamente nei primi discorsi dei due candidati. Vi sono, in questa scelta, anche delle ragioni tattiche, oltre che obiettivi di lunga - c'è chi direbbe "storica" - portata. Sia Obama che Clinton miravano infatti a catturare una parte dell'elettorato repubblicano rimasto disorientato dall'estremismo di George W. Bush. Per far ciò occorreva presentarsi con ideali innovatori e con fedeltà alle radici spirituali e religiose del paese, non con il radicalismo liberal del passato. E ciò, appunto, che Obama e Clinton hanno cercato di fare. L'uno, prospettando la forza di un'immagine e di un sogno, l'altra presentando la rassicurazione della professionalità e dell'esperienza, ma entrambi al servizio di un medesimo progetto. Il libro di Molinari non fa previsioni sull'esito della battaglia per le elezioni presidenziali di novembre. Ma, oltre a darci una bella galleria di ritratti e a intrattenerci con una lingua lucida e precisa, ha individuato l'emergere nel Partito democratico di una stagione che potremmo quasi dire neo-Kennedyana, nella quale confluiscono personalità così diverse. ■ B. Biancheri è presidente dell'ANSA ed è stato ambasciatore italiano a Washington, Tokyo e Londra «a e o CQ ré* Maestri r. ''*■". [f_ mùri? • • •, » in visita a di Antonio