□ N. 12 Idei libri del mese 11 Libro del mese Poiché, tuttavia, ora la situazione sociale, unita a una disastrosa politica estera, è divenuta del tutto insostenibile negli Stati Uniti, secondo Krugman una decisa "rivoluzione sanitaria", che con poche misure essenziali introduca la copertura sanitaria universale negli Stati Uniti e colpisca, per finanziarla, le classi più ricche, limitandosi a far scadere i grandi benefìci fiscali introdotti per loro dal George W. Bush fino al 2010, può essere l'equivalente moderno del New Deal, conquistando un livello di consenso talmente forte e stabile da far mollare per qualche decennio almeno la presa che i neocons hanno ottenuto sul Partito repubblicano e sull'intera società americana. Come ho detto sopra, il libro di Krugman è stato pubblicato nell'autunno del 2007 e scritto nell'estate di quell'anno. Krugman si mostra estremamente fiducioso, dopo i risultati delle elezioni di metà mandato del 2006, sull'effettiva possibilità di un ribaltone politico nelle presidenziali. Il suo ottimismo è stato confermato dai fatti ma, bisogna affrettarsi ad aggiungere, per motivi che forse danno in parte ragione a David Kennedy. Fino a quando, infatti, il motto dei liberal come lui restava "It's the politics, stupid", parafrasando opportunamente la frase con la quale Clinton aveva vinto le elezioni del 1992, McCain e suoi supporter avrebbero probabilmente vinto. Ma il disastro finanziario che i repubblicani sono riusciti a scatenare, prima con la loro politica di assoluto laissez-faire nei confronti delle istituzioni del credito e della finanza e poi, a crisi scoppiata, con misure di contenimento della medesima del tutto inappropriate, mal congegnate e perfino folli, come il fallimento della Lehman Brothers, ha condotto a una situazione economica, in coincidenza con le elezioni, che ha rimesso in voga la versione originale del detto clinto-niano, restituendo quel primato all'economia che da solo ha permesso a Obama di prevalere. Ci sono altre considerazioni che un economista può fare sul libro di Krugman. La prima che viene in mente è che nell'analisi del neo premio Nobel nessun ruolo è assegnato alle trasformazioni industriali che hanno squassato gli Stati Uniti per la crisi del cosiddetto modello fordista, e cioè proprio della produzione di massa di beni di consumo durevole mediante catena di montaggio che, ai suoi tempi migliori, ha permesso alle industrie americane di pagare ai propri dipendenti salari sufficienti a proiettarli nella classe media. Anche perché tale modello produttivo andava insieme a una situazione di oligopolio negli stessi settori industriali, in cui, come chiarito da Paolo Sylos Labini e Joe Bain negli anni cinquanta, l'aumento dei profitti permesso dalla capacità di controllare i prezzi e dal progresso tecnico poteva essere diviso tra imprenditori e operai. Anche Krugman ricorda, inoltre, che la chiusura del mercato americano alle importazioni e in particolare la superiorità tecnologica americana dei primi decenni postbellici, unite alla chiusura della immigrazione che valeva dal 1924, avevano contribuito a creare condizioni di favore per produttori e lavoratori americani. Condizioni che si sono affievolite con il tempo, perché gli stessi prodotti hanno cominciato a essere importati da altri paesi a salari inferiori e anche perché gli imprenditori americani dei settori a maggiore intensità di lavoro, fuggendo il potere dei sindacati nel Nord-Est del paese, si sono trasferiti prima negli stati del Sud, dove, con l'aiuto delle autorità locali, hanno impedito ai sindacati di esistere, e poi hanno delocalizzato la produzione in paesi europei e in segui- man ha deciso di ignorare completamente la dimensione monetaria e finanziaria, perché gli premeva sostenere il primato della politica e delle istituzioni nella spiegazione di ciò che è accaduto alla società americana. Facendolo, si è esposto alle critiche dei suoi colleghi economisti e a quelle di politologi e storici. Ma il messaggio che invia è chiaro e in tutto simile a quello contenuto in una storica frase di Roosevelt: "L'unica cosa di cui aver paura è la paura". Se il popolo si muove, le cose possono cambiare e cambiare in fretta. Scrivendo nell'estate del parte importante, negli otto anni della presidenza Clinton, nel non opporsi alla polarizzazione in corso nella società americana e nel far fallire, ad esempio, il tentativo clin-toniano di riforma sanitaria. Se poi Krugman avesse rivolto la propria attenzione anche a banca, finanza e moneta, avrebbe dovuto necessariamente notare quanto la leadership democratica clintoniana abbia attizzato il fuoco che alla fine ha devastato il sistema finanziario americano, propagandosi a quello mondiale, con il rischio di riportarci, dopo settant'anni, a una depressione economica di lunga durata. stema si assesta su un assetto condiviso (e di successo) fino ai tempi di Nixon. La rivincita degli ultraconservatori avviene, secondo Krugman, con la presidenza Reagan negli anni ottanta, ma viene preparata con cura prima: Krugman parla di un "grande complotto", che è il frutto dell'alleanza politica tra la destra repubblicana, nutrita dell'ideologia di alcuni gruppi religiosi e segregazionisti, il mondo delle imprese (soprattutto mediopiccole) terrorizzate dai sindacati, gli elettori bianchi ancora dominati dal pregiudizio razziale, economisti e sociologi di destra, fanatici del mercato e dell'individualismo, nazionalisti anticomunisti. La rivincita della destra utilizzò anche le preoccupazioni per le proteste giovanili e i disordini razziali, ma decisiva fu la rottura della coalizione che aveva favorito il New Deal che si ebbe sulla questione razziale, con i democratici del Sud che passarono ai repubblicani dopo le leggi di Johnson che eliminavano la segregazione. La nuova destra prese il controllo del Partito repubblicano, sconfiggendo la leadership moderata tradizionale, riuscì a vincere le elezioni con Reagan e cominciò ad attuare il suo programma che consisteva, in sostanza, nel riportare gli Stati Uniti alle condizioni economiche e sociali precedenti al New Deal. Inizia così la "grande divergenza", basata sulla deregolamentazione, sull'ideologia mercatista, sulla sconfitta dei sindacati, sul taglio della tasse (soprattutto per i ricchi) e della spesa pubblica. Il nuovo potere si basa anche su un'inedita aggressività politica, sull'intimidazione della stampa e degli avversari politici, sulla diffamazione sistematica e sugli attacchi personali, sui brogli elettorali, sulla corruzione e sul nepotismo. I militanti neoconservatori sono inoltre tutelati da una rete di organizzazioni in grado di assicurare posti ben retribuiti, protezione e solidarietà. I risultati non tardano a prodursi: la distribuzione del reddito si polarizza, i salari stagnano, i guadagni di produttività del nuovo boom economico legato alla globalizzazione e allo sviluppo delle nuove tecnologie affluiscono pressoché intermente ai manager e alle im- prese, e la diseguaglianza toma ai livelli degli anni venti del Novecento. In sostanza, secondo Krugman, la "grande divergenza" non è altro che la "grande compressione al contrario". L'analisi di Krugman è accurata e documentata: per quanto la sua posizione possa apparire a prima vista ideologica e unilaterale, essa è argomentata con cura, con un'abbondante evidenza empirica e con solide argomentazioni di teoria economica. Per il futuro Krugman è ottimista. Vede il ritomo dei democratici e la possibilità di ricostruire una coalizione politica vincente, grazie anche agli errori dell'amministrazione Bush, alla guerra in Iraq e al desiderio della maggioranza della popolazione di evitare lo smantellamento di quelle istituzioni del New Deal che i repubblicani non sono ancora riusciti a distruggere ma solo a indebolire (la previdenza sociale e il medicaid per gli anziani). Il libro è stato scritto nell'estate del 2007, quindi prima della grande crisi finanziaria, ed è in effetti singolare che Krugman non dedichi particolare attenzione al funzionamento dei mercati finanziari, alla speculazione e alla finanza. Molte pagine sono invece dedicate alla necessità che i democratici, una volta tornati al potere, completino il sistema di welfare americano secondo modelli europei, soprattutto introducendo un sistema sanitario di tipo universale. Si tratta di un libro di parte, di un libro politico che esprime posizioni e giudizi molto netti, anche se alla fine le proposte di Krugman non appaiono particolarmente radicali, ma certamente sono in sintonia con il nuovo ciclo economico politico che si apre con la presidenza Obama. Non si sa se Krugman - che appoggiava Hillary - avrà un ruolo nella nuova amministrazione, sicuramente rappresenta oggi l'ala sinistra della coalizione democratica che si batterà per evitare che Obama sia troppo condizionato dall'ala centrista. In sintesi un buon libro, una lettura interessante che sarebbe di grande utilità anche per tutti i politici della sinistra italiana (e non sono pochi) che hanno confuso (e confondono) la moderazione con il moderatismo. to nel Terzo mondo, alla ricerca di salari inferiori. Dopo aver letto il libro di Krugman, sia un politologo che un economista possono concludere di non aver appreso nulla o quasi sulla società americana che già non sapessero, essendo i contenuti del libro un'intelligente sintesi dei risultati di ricerche condotte negli ultimi decenni. Questa, tuttavia, è una conclusione del tutto indebita. Il libro del neo premio Nobel, infatti, non è destinato ai professionisti dell'economia, o di altre scienze sociali, ma a un pubblico assai vasto di persone che cercano una spiegazione ragionevole a eventi che hanno portato gli Stati Uniti a soffrire una redistribuzione del reddito e della ricchezza di portata gigantesca nel corso degli ultimi trent'anni, che ha riportato la società americana ai livelli di disuguaglianza degli anni venti. Krug- 2007, con in mente i risultati delle elezioni del 2006, gli è sembrato che il popolo avesse cominciato a muoversi, che lo strano dominio dei repubblicani sul Sud stesse divenendo socialmente insostenibile, che la classe media spossessata avesse raggiunto i limiti della sopportazione e fosse pronta a cambiare cavallo. Il suo ottimismo era ragionevole, come hanno provato la vittoria di Obama prima alle primarie e poi alle presidenziali. Ma anche questa volta "It was the economy, stupid", gli si potrebbe obiettare. Senza la crisi finanziaria, Obama non avrebbe vinto. Ora, tuttavia, dopo il risultato elettorale, si può temere che le "armi di distrazione di massa", che Krugman tanto efficacemente descrive nel suo libro, siano usate anche da quella parte déB'establishment democratico della quale ha scelto di non parlare, ma che, come nota Kennedy, ha avuto una Resta però il fatto incontrovertibile denunciato da Krugman: nonostante la collaborazione di una parte importante dell 'establishment democratico, e malgrado la rilevanza delle trasformazioni economiche che non sono dovute all'azione dei politici, la polarizzazione della società americana l'hanno voluta e perseguita i neoconservatori della destra repubblicana. Speriamo, con Krugman, che opporsi a loro, e restituire alla società americana parte delle caratteristiche dei decenni più positivi della sua storia, sia la vera politica, e non solo il programma elettorale, di un presidente che rappresenta, con la sua elezione, il riscatto dalla parte più tragica di questa storia. ■ m.dececco®sns.it M. De Cecco insegna Storia delia finanza e della moneta alla Scuola Normale di Pisa Lorenzo Caselli, GLOBALIZZAZIONE E BENE COMUNE. LE RAGIONI DELL'ETICA E DELLA PARTECIPAZIONE, pp. 166, €11, Edizioni Lavoro, Roma 2008 Una cattiva abitudine del giornalismo e dell'editoria vigente nel nostro paese è quella di odiare tutto ciò che anticipa i tempi dell'attualità più scontata. Questo libro, precedendo il crollo delle borse di un anno, mentre ha già attirato l'attenzione di studiosi e addetti ai lavori, corre il rischio di non diventare ciò che merita di essere: una sorta di guida a un tempo tecnica e morale nel paesaggio socio-economico, disastrato ma ricco di opportunità, in cui oggi viviamo. A questo proposito consiglierei all'editore di riproporlo in libreria con una fascetta che ne stabilisca le credenziali, ovvero la rara qualità di costituire a un tempo un compendio critico dell'economia oggi in crisi, nella sua versione globale come in quella locale, e dell'ideologia che, in maniera precipitosa, arrogante e pressoché incontrastata, l'ha sorretta, grosso modo dall'epoca della presidenza Reagan (1981-1988). La critica è lucida, mai preponderante, talora addirittura implicita rispetto alla proposta alternativa che l'autore, di volta in volta, formula, perché è sulla pars construens dei suoi densi ragionamenti che egli è più interessato a impegnare il lettore. La chiave interpretativa è in qualche maniera inscritta nella storia personale di Lorenzo Caselli, studioso di teoria e gestione dell'impresa, oggi docente di etica economica e responsabilità sociale delle imprese presso l'Università di Genova. Perché è proprio una valutazione etica a far saltare il verrou di un'ideologia, quella liberista, che in nome di una presunta oggettività nutriva la pretesa di non essere tale. Il filo conduttore del lavoro di Caselli, collaudato studioso dell'impresa, consiste nello sforzo di dimostrare come l'eticità dell'impresa, o di una politica transnazionale, sia non solo compatibile, ma non di rado condizione per l'innovazione e, in ultima analisi, per una maggiore competitività. Che si tratti della molteplicità di scelte che riguarda il rapporto tra progresso scientifico e sviluppo economico, o quello tra dimensione locale e globale, o delle responsabilità dell'impresa (al di là del profitto di romitiana memoria come sua unica finalità), Caselli offre in forma sintetica, solitamente per punti, ma sufficientemente argomentata, una fenomenologia dell'esistente con le sue contraddizioni non solo di ordine etico, a cui corrispondono altrettante ipotesi di lavoro alternative, a partire dalle condizioni che le sottendono. I valori che ispirano i ragionamenti dell'autore sono quelli della solidarietà e del rispetto della persona, della partecipazione e della formazione come strumenti fondamentali individuali e collettivi, ispirati ma tutt'altro che dogmaticamente dedotti dalla dottrina sociale della chiesa, con un robusto retroterra culturale di studiosi vicini alla Cisl (la prefazione è firmata da Pier Paolo Baretta, vicesegretario generale di quel sindacato). In un'eventuale seconda edizione, particolarmente auspicabile dati gli sviluppi recenti della crisi, alcuni passaggi meriterebbero di essere spiegati in maniera più distesa a un più vasto popolo alla ricerca di rette vie nella confusione attualmente regnante. Gian Giacomo Migone