N. 12 «V /"« Le sfide della nuova presidenza Franklin Delano Obama? di Ferdinando Fasce Esattamente mezzo secolo fa lo studioso conservatore Clinton Rossiter, uno dei più importanti politologi statunitensi di tutti i tempi, nel riesaminare il prototipo fondamentalmente wasp dei presidenti eletti sino a quel momento, faceva la rassegna dei soggetti che viceversa, per le loro caratteristiche sociali, culturali ed etnorazziali, parevano assolutamente privi di speranze nella corsa alla Casa Bianca. In fondo alla lista, dopo i "pazzi", gli "strani", i cattolici, gli ebrei e le donne, c'erano i neri. Basta questo riferimento a dare la misura della natura epocale dell'evento consumatosi nella notte elettorale che ha portato nello studio ovale il senatore Barack Hussein Obama. Riconoscendo la specificità della sua condizione multirazziale e delle sue esperienze cosmopolite, giustamente si sono evocate figure chiave del movimento nero e della sua lunga marcia sulla strada dell'inclusione a pieno tito- _ lo nella cittadinanza statunitense, come Martin Luther King e Fannie Lou Hamer, ma anche organizzatori militanti di quartiere di gruppi etnorazziali in vario modo discriminati come Yuri Kochiyama e Dolores Huerta. E si sono evocati anche bianchi anglo come i due presidenti-chiave della travagliata storia afroamericana, l'antischiavista Abraham Lincoln e Lyndon B. Johnson, l'uomo della decisiva legge del 1964 sui diritti civili. Ma, una volta stabilita l'eccezionalità di queste elezioni, come possiamo collocarle nella lunga storia elettorale di massa degli Stati Uniti? A che precedente ci si può rifare? Sono elezioni di riallineamento, cioè di profondo e durevole spostamento dei rapporti di forza tra schieramenti, forze sociali e politiche sviluppate dal personale di governo? Sono, per restare in casa democratica, un nuovo 1932, l'anno di Franklin Delano Roosevelt e dell'avvio di un'egemonia durata sino al 1968? Oppure sono elezioni come quelle del 1992, l'anno di Bill Clinton e di un'effimera prevalenza, destinata a sciogliersi in Congresso a soli due anni dalle elezioni e a trascinarsi poi stancamente per un'altra legislatura, nonostante le indubbie doti politiche del leader dei cosiddetti "nuovi democratici", tra le secche dell 'impeachment? Per il momento è difficile, evidentemente, rispondere a questo interrogativo, in attesa di un quadro completo su dati fondamentali, ancora oggetto di analisi, quali l'effettivo livello di partecipazione. Quest'ultima sembra attestata attorno al 62 per cento, decisamente al di sopra di quattro anni fa (55 per cento), a conferma inoltre di una costante crescita di presenza alle urne nel corso delle ultime tre tornate. E che costituisce un incoraggiante segnale sulla salute della sfera pubblica d'oltre Atlantico. Non meno interessante è il fatto che la vittoria di Obama ha coinvolto una maggioranza assoluta dell'elettorato, con il 52,7 per cento, la migliore prova per un democratico dai tempi di Lyndon Johnson (che sfiorò il 62 per cento, più del Roosevelt da record del 1936), la prima maggioranza assoluta dall'epoca di Jimmy Carter. E ancora più importante è lo spettro della composizione socioculturale, generazionale e territoriale dell'elettorato democratico. Obama ha vinto nei suburbs e nelle aree metropolitane, specie tra i giovani e quanti votavano per la prima volta e tra le minoranze, quella nera, ma anche e soprattutto quella, in costante crescita, degli ispanici, tra gli uomini e le donne. E ha strappato ai repubblicani ben nove stati in aree da tempo ormai saldamente collocate nel campo avverso, come Nevada e Colorado nel West, Ohio e Iowa nel Gentilezza e crudeltà Questo è un libro speciale: riporta il testo del discorso che Barack Obama [Sulla razza, ed. orig. 2008, trad. dall'inglese di Nicolina Pomiiio, pp. 75, testo inglese a fronte, € 10,50, Rizzoli, Milano 2008) ha tenuto a Filadelfia, nel cuore della battaglia per le primarie democratiche, il 18 marzo scorso, il discorso sulla razza ha assunto un valore politico centrale nella sua campagna elettorale, e per questo alla Rizzoli va il merito di averlo tradotto e reso disponibile in Italia per il grande pubblico. Nel pieno della polemica sulla sua amicizia con il reverendo nero Jeremiah Wright, che in alcuni sermoni aveva invocato la "dannazione sull'America" per la condizione inflitta agli afroamericani, Obama doveva soprattutto evitare che il tema della razza diventasse elemento di divisione nella campagna elettorale. Con questo intervento Obama ha trasformato la questione razziale da elemento potenzialmente critico in fattore strategico nel cammino verso la vittoria. Espressione delle finezza intellettuale del personaggio e persino della radicalità delle sue posizioni, il discorso aiuta a comprendere chi sia e che cosa abbia in mente il nuovo inquilino della Casa Bianca. Obama contesta a Wright le sue dichiarazioni più aggressive, ma non può rinnegarlo, come non può rinnegare la comunità nera, perché in Wright e nella sua chiesa c'è tutta "la gentilezza e la crudeltà, le lotte e le vittorie, l'amore e, certo, l'amarezza e il pregiudizio che fanno parte dell'esperienza dei neri in America". Tra gli afroamericani "la rabbia è reale, è potente", avverte Obama, "e limitarsi a ignorarla, a condannarla senza cercare di comprenderne le ragioni, rischia solo di ampliare 0 baratro dell'incomprensione che oppone le diverse razze. D'altro canto, secondo Obama, la cifra distintiva dell'esperienza americana, della sua promessa, è la disponibilità al cambiamento, al miglioramento, testimoniata dall'impegno inscritto nella Costituzione a "costruire un'unione più perfetta". L'errore del reverendo Wright è proprio quello di credere che "la nostra società sia statica", mentre l'America è un'unione "forse non perfetta, ma che ha dimostrato generazione dopo generazione di poter essere perfezionata". Secondo Obama, i bianchi dovranno capire che "il male della comunità afro-americana non è solo un parto dell'immaginazione dei neri; che l'eredità della discriminazione è reale e deve essere affrontata"; al tempo stesso, dice Obama rivolgendosi alla comunità nera, "dovremo insistere per una giustizia autentica in tutti i campi della vita del paese", essendo tuttavia capaci di "legare le nostre personali richieste - di una sa- alle ritratto di Giovanni Levi nità, una scuola, un mondo del lavoro migliori più ampie aspirazioni di tutti gli Americani". In alcuni settori della società bianca, infatti, cova la stessa rabbia che si ritrova all'interno della comunità nera. "Molti bianchi del ceto medio" che "hanno lavorato duramente per tutta la vita", spiega, "hanno perso il lavoro poiché le industrie si sono trasferite all'estero e le pensioni sono andate in fumo dopo una vita di fatica". La rabbia dei bianchi e quella dei neri distolgono l'attenzione "dalle vere cause del malessere delle classi medie" . Invece, prosegue, "il vero problema non è che qualcuno con una pelle diversa possa rubarti il lavoro, ma che a rubartelo sia l'azienda per cui lavori, per trasferirlo all'estero, solo per aumentare il profitto". Non a caso la campagna di Obama si è concentrata, e con successo, in alcuni stati chiave del Sud e dell'Ovest che, negli ultimi decenni, avevano votato repubblicano. Stati con ampie aree rurali, nei quali negli ultimi quindici anni un'economia postindustriale ha indotto nel tessuto sociale più cambiamenti di quelli intervenuti nel precedente mezzo secolo. Conquistare quei territori, come ha osservato l'International Herald Tribune lo scorso 19 ottobre, aveva un'importanza matematica, ma soprattutto simbolica. La sfida di Obama alle strutture del potere economico e sociale che hanno alimentato la disuguaglianza razziale sembra riecheggiare l'epopea del movimento populista degli anni novanta dell'Ottocento. In un clima di intensa conflittualità sociale legata all'impoverimento delle campagne del Sud, i populisti tentavano di contrastare in modo interrazziale il dominio delle élite bianche nella finanza del Nord e nell'agricoltura del Sud. Furono sconfitti dall'ideologia della supremazia bianca e dallo spettro della "dominazione nera", agitati dalla classe dominante per minare l'unità del movimento e salvaguardare la continuità dell'ordine esistente. Più tardi, con l'emigrazione degli afroamericani verso le città del Nord, il razzismo penetrò tra i lavoratori che, timorosi di perdere posizioni e salari acquisiti, negavano ai neri l'accesso ai sindacati, relegandoli in ruoli meno qualificati e retribuiti. Un conflitto simile su base razziale si è riprodotto nell'ambito dell'assistenza sociale. Il superamento dell'attuale ordine socio-economico, per Obama, parte dalla capacità dei singoli di cercare alleati nella lotta contro l'ingiustizia. Si tratta di un processo di identificazione dei propri bisogni nei bisogni degli altri, delle proprie speranze nelle altrui speranze. "In sé", conclude Obama, "questo momento di identificazione (.. .) non è sufficiente", ma "è da qui che la nostra unione trova la sua forza". Antonio Soggia Mid-West e, soprattutto, Virginia, North Carolina e Florida nel Sud. Per contro, i repubblicani rischiano di diventare un partito quasi-regionale, concentrato nel Sud, negli stati di confine tra Nord e Sud come il Kentucky, e nelle grandi pianure, in aree rurali e non in crescita, sul piano demografico e dell'innovazione economica e tecnologica. Eppure il successo al Congresso, dove, soprattutto al Senato, il predominio democratico non è arri- vato alla soglia (60 seggi) che consente di bloccare l'eventuale ostruzionismo repubblicano, induce una certa cautela prima di parlare di un vero e proprio riallineamento. La maggioranza, solida, ma non forte come sperato dai democratici più ottimisti, potrebbe infatti creare loro dei problemi sul piano della tenuta governativa. Tanto più a fronte di una serie di sfide tremende che davvero giustificano l'analogia con il 1932, un'analogia sottolineata da diversi rotocalchi di metà novembre con un'immagine di Obama esemplata su quella celeberrima di Roosevelt dopo la vittoria di tre quarti di secolo fa. Sfide che vanno dalla grave crisi finanziaria ed economica, ancora in attesa di chiare politiche antirecessione, alle due disastrose guerre aperte in Iraq e in Afghanistan. Per continuare con un sistema sanitario al collasso, con la necessità di porre mano a una politica energetica innovativa e di al-_____to profilo e con la condizione di infrastrutture e servizi fortemente segnati dai tagli di spesa del quarantennio repubblicano e soprattutto dei due ultimi mandati bushiani. Senza contare che la nuova amministrazione dovrà molto lavorare sul terreno della ricostruzione istituzionale, cioè dei pesanti cocci lasciati da George W. Bush e dal suo influentissimo vice Dick Cheney, in termini di stravolgimento delle prerogative e degli equilibri tra i poteri. L'uso indiscriminato del "privilegio esecutivo", cioè del segreto di stato, le ripetute violazioni costituzionali e procedurali che hanno preceduto l'intervento in Iraq, con l'acquiescenza del Congresso, le liberticide politiche di sicurezza nazionale interna sono altrettante ferite aperte. Dire se e come Obama riuscirà a sbrogliare una matassa tanto aggrovigliata non è compito degli osservatori dell'oggi. Restano comunque tre fatti inoppugnabili. Il primo è la capacità di leadership e di rapida presa di decisioni da lui rivelata in un'estenuante campagna elettorale, contro avversari, interni ed esterni al partito democratico, di provata abilità ed esperienza. Il secondo è il potenziale di mobilitazione inaudita manifestato dalla nuova emergente maggioranza che ha sostenuto il neopresidente. Il terzo è l'enorme corrente di sostegno e di "simpatia" che la nuova amministrazione e soprattutto il suo leader hanno raccolto e suscitato nell'opinione pubblica, nazionale e internazionale, attorno all'ipotesi di una rinnovata attenzione alla dimensione pubblica e sociale interna e di una visione meno unilaterale, aggressiva e miope dei rapporti internazionali. ■ nando.fasce@unige.it F. Fasce insegna storia contemporanea all'Università di Genova K «N C3 e e o k Cj « So CO