N. 10 12 Sindacato Il popolo lavoratore di Marco Galeazzi Giuseppe Di Vittorio LAVORO E DEMOCRAZIA Antologia di scritti 1944-1957 a cura di Francesco Giusi e Fabrizio Loreto, pp. 830,2 voli, €30, Ediesse, Roma 2008 ^ ' Tl^ortunato quel popolo JL che non ha bisogno di eroi". L'aforisma di Brecht appare adatto a un paese come l'Italia, nel quale il fragile tessuto unitario e il complesso rapporto tra stato e società civile si sono spesso fondati sul carisma dei leader politici. Fra questi, Di Vittorio, alla cui "figura centrale del Novecento italiano", accanto alla "memorialistica agiografica", sono stati dedicati numerosi lavori che ne hanno messo in luce l'originalità della proposta politica, volta a nazionalizzare la classe operaia e a fornire risposte strategiche alla ricostruzione economica e sociale del paese, e l'autonomia di giudizio, che gli valse l'isolamento nel suo stesso partito. Agli anni 1944-1957 appartengono gli scritti raccolti nei due tomi, che forniscono un importante contributo alla ripresa degli studi sul movimento operaio dopo il declino degli anni ottanta e dei primi anni novanta, in gran parte spiegabile con il "vento di destra" e con il populismo mediati-co, alimentati dal consenso di un'Italia "gaudente e volgare" e miranti a svuotare di significato l'antifascismo e la stessa Costituzione repubblicana. Nell'esperienza di Di Vittorio acquistava notevole rilievo il linguaggio "vigoroso e generoso", "semplice e nello stesso tempo rivoluzionario", che "poneva al centro il riconoscimento della dignità umana". Lo stesso Di Vittorio, rievocando con passione orgogliosa la propria umile origine, replicò ai "filistei", che gli rimproveravano "di essere ignorante, sgrammaticato, zotico", che "era finito il tempo nel quale la scuola e la cultura erano appannaggio di pochi" e che esse erano ormai "un bene di tutto il popolo ed in particolare del popolo lavoratore che produce". Fin dal 1944 Di Vittorio fondò la propria azione politica sull'"equazione tra nazione e lavoro, tra unità nazionale antifascista e unità sindacale". In un itinerario che lo aveva portato dal sindacalismo rivoluzionario all'adesione al Pei, egli svolse un costante ruolo di contenimento delibazione diretta delle masse" ed ebbe la piena consapevolezza che solo con il prevalere dell'interesse generale del paese sarebbe stato possibile consolidare una democrazia debole come quella italiana del dopoguerra. Sebbene non mancassero in lui elementi di intransigenza, che determinarono un "braccio di ferro" con De Gasperi nell'elaborazione dell'articolo 39 della Costituzione, Di Vittorio seppe sempre difendere l'autonomia del sindacato, suscitando le critiche di Togliatti. Il rapporto con il segretario del Pei sarebbe stato spesso conflittuale, come hanno notato nei loro lavori Maria Luisa Righi e Adriano Guerra, sino a determinare un dualismo interpretativo della realtà italiana, "con Togliatti schierato su posizioni più pessimistiche e timorose di possibili rigurgiti fascisti, e Di Vittorio sorretto da una maggiore fiducia nel popolo". Fondamentale fu il ruolo del leader pugliese nei difficili anni della ricostruzione, come dimostra la sua tenace battaglia in difesa dell'unità sindacale nel 1947-48. Uno sforzo di sintesi nel quale egli non pose mai in primo piano l'identità di classe, ma il carattere nazionale del "popolo lavoratore". Di qui la formulazione di un programma politico fondato sul lavoro e sul progresso, come ha notato Trentin, e culminato nel Piano del lavoro del 1949. I suoi articoli sono percorsi da un profondo slancio unitario che, se da un lato mostra la consapevolezza che "ricchi e poveri non sono eguali", dall'altro appare legato all'eredità gramsciana, nella determinazione a combattere le tendenze economicistiche e corporative di alcuni settori della classe operaia e del pubblico impiego e a rivendicare l'egemonia del sindacato non in chiave ideologica, ma come "espressione degli interessi vitali e delle esigenze di sviluppo e economico e di progresso civile di tutta la Nazione". Gli obiettivi dello sviluppo produttivo e della piena occupazione erano realizzabili, secondo Di Vittorio, sia con la disponibilità dei lavoratori ad "accollarsi nuovi sacrifici" sia con la rinuncia del mondo finanziario e industriale alla propria "politica di classe", in un disegno riformatore basato su uno "sforzo collettivo" che riconoscesse il primato della dignità umana. Malgrado le tendenze autoritarie e involutive degli anni del centrismo, nei quali "la Repubblica fondata sul lavoro" continuava a "contare i morti in conflitti con la polizia", fu anche grazie all'opera tenace del segretario della Cgil che potè realizzarsi una "prima significativa stagione riformatrice", con l'approvazione, al principio degli anni cinquanta, di alcune significative misure proposte dal governo. Ma se in quella fase il Piano del lavoro perdeva di attualità e se la Cgil avrebbe dovuto registrare un forte indebolimento nel 1954-55, nondimeno Di Vittorio continuò a battersi contro la chiusura del sindacato e del Pei "su posizioni di critica intransigente". La difesa dei diritti individuali e sociali era inseparabile, nella sua concezione, da un rinnovamento profondo della cultura sindacale. Il diritto di sciopero era valido sia nell'Italia democristiana e atlantica sia nelle società dell'Est. Entrambe le realtà dimostravano la limitata conoscenza delle "condizioni reali dei lavoratori", come riconobbe lo stesso Di Vittorio, convinto che la democrazia fosse un valore universale, in nome del quale egli combatté, e perse, una battaglia solitaria e profetica nella direzione del Pei, tornato all'arroccamento di fronte alla crisi polacca e alla repressione sovietica della rivoluzione ungherese, dopo le speranze del XX congresso. Pur non intendendo "far apparire le divergenze come una linea contrapposta a quella di Togliatti", egli non rinunciò a "insistere sulla 'lezione' da trarre dai tragici fatti ungheresi", puntando ancora il dito sugli errori profondi commessi dai comunisti ungheresi. Quando Di Vittorio morì, nel 1957, il paese era "più che mai incerto sulla via da intraprendere", come qui ha sottolineato Giasi. Facile, e inopportuna, l'analogia con l'oggi. Nel mondo globalizzato, il tramonto del sistema taylorista-fordista, i flussi migratori e l'esplodere del precariato rendono improponibile la categoria tradizionale dell'operaio e del lavoratore tout court. E a gettare luce su tale drammatico processo contribuiscono, forse più di molti saggi storici, le arti visive, dai testi di Ascanio Celestini e Paola Cortellesi al film di Riccardo Milani e allo splendido documentario Fabbrica di Francesca Comencini. In tale contesto, molte delle analisi di Di Vittorio appaiono inevitabilmente datate, sebbene la difesa del diritto di sciopero, anche dei dipendenti pubblici, contro ogni regolamentazione dall'alto, senza con ciò negare il senso di responsabilità dei lavoratori nel farvi ricorso, il rifiuto intransigente dei sindacati corporativi e filogovernativi, l'esame attento e problematico del tema dell'emigrazione conservino una rilevante quanto drammatica attualità. Resta la certezza che i diritti, le libertà, l'interesse generale propugnati da Di Vittorio sono ancora vivi e imprescindibili, unico antidoto alla paura e alla solitudine che sembrano imprigionare le coscienze dei contemporanei in un presente privo di speranza. ■ marco_galeazzi@libero.it M. Galeazzi è insegnante e studioso del comunismo europeo La guerra di Bruno Le nostre e-mail direttore@lindice. 191 .it redazione@lindice.com ufflciostampa@lindice.net abbonamenti@lindice.net di Roberto Barzanti Bruno Trentin DIARIO DI GUERRA (settembre-novembre 1943) trad. dal francese di Adelina Galeotti e Alessia Piovanello, pp. 226, € 16, Donzelli, Roma 2008 DALLA GUERRA PARTIGIANA ALLA CGIL a cura di Iginio Ariemma e Luisa Bellina, pp. 290, € 15, Ediesse, Roma 2008 LAVORO E LIBERTA a cura di Michele Magno, pp. 358, € 16, Ediesse, Roma 2008 Le annotazioni che Bruno Trentin, non ancora diciassettenne, vergò giorno dopo giorno dal 22 settembre al 15 novembre 1943 sono una di quelle letture folgoranti che attestano con meravigliosa freschezza il primo insorgere di una personalità e l'esordio di una lunga battaglia. Stavano racchiuse in una vecchia agenda finora ignota, ed è valsa davvero la pena averla data alle stampe con la cura editoriale che si deve a una reliquia: riproducendo il ritmo dell'impaginazione, le sottolineature con matita rossa e blu, i ritagli di giornale che via via venivano scelti e incollati. Bruno inizia il Journal de guerre poco dopo il suo rientro in Italia -avvenuto il 6 settembre - a fianco del padre Silvio Trentin, eminente protagonista dell'antifascismo in terra di Francia. L'urgenza della scrittura deriva dalla coscienza di vivere un momento cruciale, sia nelle esperienze personali, sia nelle vicende di una patria immaginata a distanza. L'8 settembre Bruno si trova a passeggiare nella piazza principale di Treviso ed è lui a correre trafelato per comunicare la notizia dell'armistizio al padre, che a casa dei suoceri sta discutendo con alcuni amici. Il commento che gli sente fare è una chiamata al coraggio: "E la guerra che comincia". Lo trascrive aggiungendo: "La guerra vera per l'Italia vera". Parole che esprimono con piglio giacobino un'idea di Resistenza che coniuga sentimento nazionale, volontà di riscatto, lotta popolare non priva di accenti classisti. Sotto la data del primo ottobre, accanto a un breve articolo sulle "tragiche giornate di Napoli", Trentin osserva compiaciuto come fascisti e tedeschi siano indotti a riconoscere che "vi sono dei veri patrioti attivi in Italia". A colpire, in questo che resterà uno dei testi eccelsi della moralità partigiana, non è solo la strabiliante precocità, ma la consapevo- lezza dell'internazionalità del conflitto: portato sicuro della cultura degli ambienti frequentati negli anni dell'esilio. Luisa Bellina, nella relazione che aprì il convegno trevigiano su Trentin del dicembre 2007, a pochi mesi dalla scomparsa, insiste sulla lungimiranza di un giovanissimo già dotato di carismatica autorevolezza: "Il fascino di Bruno era anche il suo cosmopolitismo (...) che avvinceva, e intimoriva questi ragazzi che erano cresciuti nel mondo chiuso e provinciale del fascismo e avevano fame di conoscere altri mondi". I fitti riferimenti del diario agli eroici sacrifici del "popolo sovietico" fanno parte di questa visione di largo respiro. Non inducono tanto a meditare sulla felix culpa di "avere combattuto il nemico giusto in nome dell'ideale sbagliato" (Luzzatto), quanto sulla funzione mitica di avvenimenti percepiti a distanza e mediati da un'unilineare interpretazione propagandistica. La libertà viene prima di tutto per Trentin, che anche in questo tema resta fedele a una lezione ineludibile: "Del federalismo del papà Silvio e della 'rivoluzione delle coscienze' di Carlo Rosselli (con l'istruzione generalizzata come sua leva decisiva) serberà più di una traccia", sottolinea Michele Magno. E lasceranno il segno nella sua indipendenza di giudizio l'ardore anarchico di un Kro-potkin, la riflessione sul Marx dei Grundris-se non meno che l'incontro con leader come Di Vittorio, con i lavoratori interpellati e ascoltati nel corso delle lotte. C'è sempre il rischio di leggere frammenti eccezionali - è il caso dell'agendina ritrovata -quali incunaboli di un destino e di un carattere: qui di una singolare "fusione di utopia e concretezza" (Pavone). Eppure un rapporto di continuità sussiste tra la passione acerba di quel settembre e il filo rosso di tutta una vita, dall'iniziale impegno in Giustizia e Libertà alla militanza, dal 1949, nel Pei. Iginio Ariemma è stato incaricato di coordinare, in seno alla Fondazione Di Vittorio, il gruppo preposto a studiare l'opera e la figura di Trentin: i primi libri usciti fanno ben sperare nei programmi a venire. Sarebbe errato imprigionare Bruno Trentin dentro un fumoso ingraismo. Sia nel partito che nella Cgil la sua presenza fu quella di un "ricercatore al servizio di un movimento", non di un eretico attratto da prospettive palingenetiche, ma di un riformatore accanito fino al recupero di un europeismo - ne è prova il Manifesto per l'Europa del novembre 2003 -non dimentico del nesso tra progetto di costituzionalizzazione e modello sociale. ■ roberto.barzanti @ tin. it R. Barzanti è studioso di storia e politiche contemporanee