N. 1 Come si evolve il genere fantastico I colori del nero di Franco Pezzini o o • Kà H^ co e HO SÌ .e Che la cifra del fantastico nero non si consumi in un titillare i peggiori istinti dei lettori è, o dovrebbe essere, un dato acquisito: e con tale consapevolezza merita scorrazzare nella produzione di autori degli anni ultimi o penultimi, italiani e non, apparsi in vetrina in tempi recenti. Tra le voci più significative, eleganti e originali del panorama nostrano sul fantastico va senz'altro citato lo scrittore e psicoanalista torinese Alessandro Defilippi, in catalogo per Passigli con vari romanzi: a partire da Locus Animae (1999), riedito nei "Gialli" Mondadori (pp. 222, € 4,50, 2007), dove la progressiva alienazione o "mutazione" di un biografo, che rivive l'esperienza dell'autore studiato (tale Kastner allievo di Freud) trova un punto di forza nella china di un'ambiguità perturbante, in quella crepa sottile nella realtà che costringe al confronto con il male e, in fondo, caratterizza le migliori prove del fantastico moderno. Più avanti Passigli aveva pubblicato dell'autore il febbricitante Angeli (2002), che nella Torino alle soglie del secondo conflitto vedeva muoversi grandi e allucinati esuli delle gerarchie celesti: e ora per lo stesso editore appare una sorta di bellissimo preludio, Le perdute tracce degli dei (pp. 269, € 18,50, 2008). A un primo livello si presenta come vivido romanzo storico sull'Abissinia dei primi anni della conquista italiana: ma a combinarsi, attraverso un tessuto narrativo di visionaria eleganza, sono motivi fantastici (le steli radioattive), suggestioni sui cardini del nostro linguaggio simbolico (l'imitazione di Cristo di un profeta locale della lotta anticoloniale), riflessioni dolorose sul rapporto con la storia e la trascendenza. E le quest parallele di un ufficiale geologo fascista e un gesuita-antropologo turbato dal rapporto tra Dio e il male conducono, tra rivolte armate, eventi mondani e pellegrinaggi in un'Africa assorta e insanguinata, a un'apocalisse più conturbante di tante classiche storie d'or- Attenzione merita poi senz'altro una delle leve giovani dell'horror nostrano: Davide Garberò, classe 1987, nella raccolta Zombi takeaway (per l'attivissima Alacran, pp. 140, € 9,80, Milano 2008) rivisita le icone dei mostri classici con taglio originalissimo e una ferocia sorretta dal convincente registro stilistico. Lo splatter cannibalesco ha fatto un po' il suo tempo, ma Garberò lo giustifica attraverso una riuscita, graffiarne contestualizzazione nella nostra "estrema" Italia contempo- ranea. Passando al panorama straniero, la Gargoyle di Roma propone opere di alcuni autori cardinali del romanzo orrifico odierno. Così, a fianco del delizioso pastiche Sherlock Holmes contro Dracu-la "a cura" di Loren D. Estleman (l'autore sarebbe ovviamente John H. Watson, ed. orig. 1978, trad. dall'inglese Paolo De Crescenzo, in-trod. di Paolo Zaccagnini, pp. 247, € 13, 2008) e del divertente Le stagioni del Maligno di J. C. Chaumette (ed. orig. 2000, trad. dal francese di Paolo De Crescenzo, postfaz. di Elissa Piccinini, pp. 207, € 12,50, 2008), giungono titoli di riconosciuti maestri del genere come Robert R. Mc-Cammon e Dan Simmons. Il primo è un bravo e co rore. Sempre per l'Italia, si impone il richiamo all'opera dell'attivissimo Danilo Arona, tra i padri nobili del fantastico nostrano contemporaneo. Molti dei suoi scritti vedono l'azione svolgersi o trovare ricadute a Bassavilla, un'Alessandria-Twin Peaks luogo di disvelamento degli spettri della grande storia e di quelli indefinitamente frantumati di minime storie personali: e l'io narrante è in genere l'Arona studioso di leggende metropolitane, o meglio di quell'inquietante specchio di sogni e pulsioni collettive con cui la realtà quotidiana sembra trovare strane rifrazioni. Tale è il caso di Melissa Parker e l'incendio perfetto (pp. 125, € 10, Audino, Roma 2007), affascinante esempio di romanzo-saggio con un nuovo tassello della saga di Melissa, entità invasiva e risacca di identità che scopriamo svelare addirittura legami con le salamandre della tradizione occulta. A rendere più raggelante una storia di possessioni spettrali e arcane combustioni è lo stile piano di cronaca: e tra ambiguità ed eroismi, ad affrontare Melissa (e magari soccombere) non troviamo esorcisti ma laici psichiatri, tra i quali, forse non casualmente, un brillante Defilippi. Elogio della follia di Vittoria Martinetto Ci sono tre regole per scrivere un buon libro - ha detto Somerset Maugham. - Purtroppo n U. nessuno sa quali siano". Questo aforisma, tra i molti con cui Alberto Manguel, raffinato e insaziabile bibliofilo, alimenta questa raccolta di saggi dedicati all'esperienza letteraria (Al tavolo del cappellaio matto, ed. orig. 2006, trad. dall'inglese di Ilaria Rizzato e dallo spagnolo di Barbara Cavallero, pp. 321, € 20, Archinto, Milano 2008), potrebbe riassumere l'indagine di fondo che anima la pluripremiata opera saggistica dello scrittore argentino. L'elogio della genialità artistica — che è una specie di elogio della follia - più volte celebrato dal poligrafo argentino nella sua ormai vasta opera nasce dalla constatazione che la maggior parte delle opere vitali per la salute del nostro pensiero non hanno fatto altro che sfidare regole e istituzioni grazie al prezioso stimolo della pazzia e all'indispensabile supporto rappresentato dalla complicità dei lettori. Ed è proprio il rispetto pagato al lettore e al suo ruolo di completamento del gesto letterario uno dei temi cari a Manguel, che sembra essere d'accordo con Borges - al quale, in gioventù, funse da lettore a voce alta - nell'affermare il ruolo vicario della scrittura rispetto a quello della lettura, per non dire della rilettura ("Non ci si immerge mai due volte nello stesso libro", è la sentenza di sapore eracliteo che si legge fra le altre). Dopo aver celebrato le virtù della lettura in diverse opere saggistiche - fra cui Una storia della lettura (Mondadori, 1998) e Diario di un lettore (Archinto, 2006) - e averle testimoniate con il suo instancabile lavoro di traduttore e di compilatore di antologie, Manguel stila qui un sagace elenco delle qualità che definiscono il lettore ideale. Fra queste ci piace menzionare come il lettore ideale sia per lui "lo scrittore appena prima che le parole prendano forma sulla pagina", sia quello che ricrea una storia, prendendovi parte; sia il traduttore - con buona pace della sua invisibilità - poiché in grado di sezionare un testo fino al nocciolo restituendo "un essere senziente del tutto nuovo" e ancora colui che "sa quello che lo scrittore intuisce soltanto" e che "non da' per scontata la sua parola" o un lettore per così dire ipertestuale, che legge tutti i libri come se fossero "opera di un unico autore etemo e fecondo". La lezione borgesiana si legge un po' ovunque in controluce scorrendo le brillanti pagine di Manguel: nei parallelismi fra l'attività letteraria e quella cabalistica, nella tentazione di scrivere un'autobiografia - e alcuni brani del libro ne sono espliciti abbozzi - basata solo sui libri che per lui sono stati importanti, nella paradossale difesa della liceità delle falsificazioni in forza del loro spirito rinnovatore. Anche l'eterogenea galleria di autori, di personaggi storici e di artisti noti e meno noti, su cui l'autore riflette nella seconda metà del testo, rimanda a certe bizzarre tassonomie che costellano l'opera del suo mentore: Stevenson e Conan Doyle, Jules Verne e Robert Burton, Kenneth Graham e Javier Cercas, Van Gogh e Gaudi. Di ognuno Manguel mette in luce quegli aspetti curiosi visibili solo all'occhio dell'investigatore che diffida delle apparenze, abituato a una rilettura che sovverte le verità date mostrando come, con il mutare dei contesti, si tratti sempre di verità provvisorie e convenzionali. prolifico artigiano di cui Gargoyle presenta La Via Oscura (ed. orig. 1983, trad. dall'inglese di Flora Stagliano, prefaz. di Danilo Arona, pp. 488, € 16,50, 2008), dove a emergere sono le mostruosità di un mondo "civile", l'America tra i cinquanta e i primi settanta, tra fondamentalismo religioso, razzismo e perversioni del concetto di purezza (spirituale ma anche fisica, igieni-stica). Leggendo La Via Oscura si pensa a King e a Lansdale, ma (come rileva Danilo Arona - sempre lui - nella bella prefazione) il testo "è stato scritto all'inizio degli anni '80, e fra i tanti ingredienti del piatto esprime una funzione sociale, di denuncia, dell'horror che ci arriva da tempi non sospetti". Se un viandante malefico, camaleontico e in apparenza extraumano torna in modo ossessivo nelle opere di McCammon, Mystery Walk costituisce idealmente una meditazione sulla "via oscura" di ciascuna vita e sul rispetto dell'alterità. Il che, con i tempi che corrono, suona abbastanza controcorrente. Un registro narrativo più alto - anche se da un autore qualitativamente più discontinuo - è poi offerto da una riuscita coppia di romanzi del versatile Dan Simmons sulla saga di Elm Haven, Illinois: due storie concatenate in origine apparse a distanza di dieci anni, e proposte da Gargoyle tra fine 2006 (ma è appena uscita la seconda edizione) e fine 2007. Il primo dei quali è L'estate della paura (ed. orig. 1991, trad. dall'inglese di Annarita Guarnieri, postfaz. di Riccardo D'Anna, pp. 636, € 17,50): e il fatto che una traduzione italiana precedente (1994) avesse stralciato le parti (considerate) inutili denuncia qualche limite della visione nostrana dell'horror. E, per contro, testimonia la ricchezza di un testo che non si esaurisce nella formula del brivido in quanto tale, e oggi riproposto finalmente integro. L'avventura di cinque ragazzi nell'estate del 1960 spalanca infatti un grande Bil-dungsroman: dove l'orrore dell'iniziazione - il "passaggio tremendo" che può costare la vita, e impedire il transito all'oltre degli adulti - non cancella la latitudine incantata di esperienze che in fondo conosciamo. Mentre il lettore attento coglie una fitta serie di rimandi a opere letterarie e cinematografiche (straordinaria la scena finale con la proiezione nella cittadina deserta di I vivi e i morti con Vincent Price), quasi a fornire a noi esiliati dal mondo mitologico dell'infanzia qualche possibilità alternativa di accesso ai misteri. Proprio in questa dimensione esistenziale il romanzo, in sé compiutissimo, può trovare una continuazione: anche se L'inverno della paura (ed. orig. 2001, trad. dall'inglese di Annarita Guarnieri, nota di Angelica Tintori) non costituisce tecnicamente tanto un seguito quanto piuttosto un preludio. Il ritorno sui luoghi dell'infanzia di uno degli ex ragazzi, ormai cresciuto e devastato dalla vita, ne vede precipitare il disfacimento, ma anche riavviare una fase formativa. Un tessuto ricchissimo di citazioni letterarie - categorie e immagini del mondo mentale del protagonista, professore di letteratura - spazia dal Beowulf a Henry James: e ad accompagnarlo, quasi in chiave di coro (come ben sottolinea Tintori nella nota finale), è la voce dell'amico morto che viveva in quel luogo, contrappunto ironico e scheggia d'identità, aiuto inavvertibile al protagonista e interprete per il lettore. Che nell'opera al nero celebrata dalla letteratura d'inquietudine riceve, come da ima simile voce, provocazioni sornione e un aiuto a riflettere. ■ franco.pezziniietin.it F. Pezzini è saggista e redattore giuridico