, riNDICF * ■■dei libri del mese L'opera narrativa di un critico e teorico della letteratura L'allegoria di una generazione intervista a Romano Luperini di Gilda Policastro E in libreria da qualche mese un suo romanzo breve, L'età estrema (Sellerio, 2008), la cui uscita è stata anticipata da una discussione nel suo blog sulla legittimità o meno oggi per un intellettuale, critico, professore universitario di proporsi al pubblico con un libro di finzione. Da cosa muoveva la sua autocritica? Quali le sue remore? Le remore sono dovute a ragioni generazionali, e quindi latamente politiche, per un verso; per un altro sono di tipo psicologico, e hanno a che fare con il problema del narcisismo. Tralasciando le seconde, che interessano di meno, sulle prime posso dire che, mentre il saggista ha ancora un mandato sociale (sia pure ormai sempre più ristretto), vivendo in un'istituzione all'interno della quale svolge un ruolo, chi invece non abbia giocato la propria vita su una scrittura letteraria, ma su un altro tipo di scrittura, ad esempio quella saggistica, come nel mio caso, non si trova facilmente legittimato a scrivere romanzi. L'unica giustificazione che mi sento di dare è di natura non privata ma pubblica: un certo discorso che vado facendo sui destini dell'Occidente e che ho sviluppato particolarmente nel mio ultimo libro di saggistica, Rincontro e il caso (Laterza, 2007), tralascia una serie di implicazioni di tipo psicologico, antropologico, emotivo, che sento il bisogno di esprimere, proprio per completare il quadro complessivo di crisi di cui intendo parlare. Quindi da un certo punto di vista IL età estrema è un po' il rovescio narrativo dc\\'Incontro e il caso: svolge cioè lo stesso discorso, ma lo svolge attraverso la rappresentazione narrativa di un caso individuale. E dal punto di vista della scrittura, qual è la differenza tra il romanziere e il critico? Dal punto di vista della scrittura è tutta un'altra cosa. Facendo una constatazione banale, una pagina dell'Età estrema mi costa il tempo di venti pagine dell'Incontro e il caso. Cioè per scrivere una pagina letteraria mi occorrono un'energia, un impegno di tempo, un'intensità molto maggiori che per sviluppare lo stesso discorso sul piano saggistico. Ciò può essere dovuto al fatto che sono un dilettante: non ho giocato la mia vita su questo aspetto, come fa un vero scrittore. Però credo anche che questo impegno, almeno dieci volte superiore, derivi dalla mia ricerca nella scrittura letteraria di una particolare intensità: tendo a cassare tutto ciò che è opaco, ciò che è trama e basta, in modo da comunicare il massimo di emotività, di intensità possibile. Questo è il suo secondo libro di narrativa. Quando uscì il primo, I salici sono piante acquatiche (Manni, 2002), ne rivendicava la differenza rispetto alle autobiografie scritte dai suoi colleghi sostanzialmente per esibire il cursus honorum, mentre lei sceglieva di raccontare la sua vita senza censure e cioè senza tacerne la dimensione privata. Vale anche per questo libro? L'aspetto autobiografico in questo caso è abbastanza limitato e si restringe all'occasione della scrittura: all'indomani dell'I 1 settembre ero negli Stati Uniti, dove ho vissuto la situazione di paura e di incertezza successiva all'attentato. Questo è il punto di partenza autobiografico. Poi la vicenda è però ambientata nel 2011, perciò l'elemento inventivo è molto superiore rispetto ai Salici, che era sostanzialmente un romanzo autobiografico. Certo, nemmeno lì mancavano elementi d'invenzione, ma sostanzialmente il libro rispettava il senso della mia vita. Così come in questo c'è qualcosa che mi riguarda: l'aspetto privato, la riflessione sulla vecchiaia, il declino individuale, il corpo, la fisicità da un lato; dall'altro le considerazioni politiche e polemiche sulla situazione planetaria, su quello che prima chiamavo "il destino dell'uomo occidentale". Tornando alla sua attività critica, uno dei suoi elementi distintivi è l'interpretazione allegorica. Vale anche per il suo romanzo? Diceva Borges che ogni romanzo moderno è sostanzialmente allegorico, perché vi si racconta una cosa per parlare d'altro. Anche in questo caso si racconta la storia di un professore che ha un incontro con una giovane e vive con lei una storia d'amore sostanzialmente per parlare d'altro, cioè del declino di ima civiltà, con un parallelo tra storia individuale e storia collettiva. Se si vuole, c'è l'allegoria di una generazione. L'editore l'ha infatti presentata come la storia dell'ultima generazione tipicamente novecentesca. Il protagonista ha creduto nella scommessa politica, nel Sessantotto, e giudica i fatti nell'ottica di chi un tempo era abituato a cambiarli. Poi vede che le nuove generazioni, invece, accettano le vicende senza più metterle in discussione. Nella rappresentazione di questi personaggi cèrtamente si può intravedere un elemento allegorico, ma non è sovrapposto. Devo dire, poi, che se penso a questo modo di ragionare, certo non è il modo della maggior parte dei giovani scrittori. Mi sembra che i narratori al di sotto dei cinquantanni tendano esclusivamente a parlare di se stessi, o del privato dei propri personaggi, come se non ci fosse uno sfondo storico, una verità sociale, pubblica. Penso che effettivamente sotto questo punto di vista quella dell'Età estrema sia una storia ancora novecentesca. In effetti parlando della generazione dei trentenni-quarantenni, si esprime spesso in termini negativi... In questo racconto o miniromanzo, in realtà ci sono due rappresentanti delle generazioni giovani, e io faccio una distinzione molto netta fra i due: l'uomo si è formato nel nulla degli anni ottanta, e quindi ha un giocoso relativismo o, se si vuole, l'ilare nichilismo, come l'ho chiamato qualche volta, del postmoderno. La donna, che poi nel racconto è la moglie di questo personaggio, avendo una quindicina di anni in meno, riflette una generazione diversa, che ha conosciuto la precarietà, che cerca di integrarsi nel mondo dell'università con fatica, e che è anche più politicizzata. Basti pensa- < re alle reazioni che i due hanno di fronte a un episodio sintomatico (la scomparsa, probabilmente a opera della Cia, di un ricercatore musulmano): lui accetta il fatto come normale, mentre l'indignazione e la reazione politica della donna stanno a significare proprio questa differenza tra le generazioni. In effetti penso che l'ultima generazione, quella che ha ora tra i venti e i trent'anni, sia più disperata, ed essendo più disperata abbia anche un atteggiamento tendenzialmente più combattivo. La rivista che dirige, "Allegoria", lancia nel suo ultimo numero un'inchiesta sul "ritorno alla realtà" nel cinema e nella letteratura. Come si concilia questo ritorno con l'allegoria? L'idea che l'allegorismo sia nemico del realismo è un'idea che sta alla base del libro di Croce sulla Commedia di Dante. Ma negli stessi anni Eliot sosteneva che la grandezza dell'allegorismo dantesco fosse dovuta agli elementi di realismo. Non c'è affatto opposizione o contrapposizione, tant'è vero che c'è chi ha parlato di "realismo allegorico". Sul piano teorico questo è perfettamente realizzato. Ma se si passa al piano della letteratura che viene praticata, non so quanto ci sia di intenzionalità allegorica nel "ritorno alla realtà" di oggi. Mi pare che ci sia in effetti una tendenza a riconfrontarsi con le contraddizioni materiali e questo lo giudico di per sé un fatto positivo: significa che uno dei pilastri culturali del postmodernismo, cioè l'idea dell'intertestualità assoluta e della metaletteratura, sia tramontata o comunque in crisi, e che stia nascendo una nuova generazione con il bisogno di riconfrontarsi con le contraddizioni materiali. Da qui, poi, a indicare in queste contraddizioni materiali un destino più generale e un significato più universale, ce ne corre: secondo me questo passo ulteriore non viene compiuto ancora. Però mi sembra interessante che ci siano queste tendenze. Beninteso, presentano anche dei pericoli: per esempio di ritornare a una realtà scontata, richiesta dall'editoria, dal mondo dell'industria culturale, che vuole delle storie semplici, dei fatti. È chiaro che questo rischio c'è, però, sul piano della storia della cultura del nostro paese, mi sembra importante che si sia segnata ima cesura con le ideologie del postmoderno, e quindi che stia nascendo una generazione nuova, che tende a porsi problemi nuovi. Esiste ancora un posto nella società di oggi per l'intellettuale? Secondo me è finita la stagione del grande intellettuale alla Sartre, la stagione aperta da Zola con l'Affaire Dreyfus, la stagione dell'intellettuale-legi-slatore, in cui l'intellettuale è il mediatore pubblico della verità: è una storia lunga questa, in fondo già aperta da Fichte, dal Discorso sul dotto, e poi avanti, in tutta la storia del Novecento, fino all'Affaire Moro di Sciascia o alle Lettere luterane di Pasolini. Ecco, questa figura, che è stata centrale nella nostra storia, ho l'impressione che sia finita, tramontata, non ha possibilità di esistere. In realtà il passaggio dall'intellettuale-legislatore all'intellet-tuale-interprete è qualcosa che si è realizzato, ma in apparati come le università, la scuola, marginali e marginalizzati. Quindi il destino di emarginazione sembra connaturato a coloro che possiamo chiamare i lavoratori della conoscenza, sempre più frustrati, precari, addetti a funzioni pratiche. Il problema è se questa nuova dislocazione sociale possa anche porre le condizioni per un nuovo modo dell'intellettuale di essere presente sulla scena, non più ovviamente da una posizione di centralità. L'intellettuale è sempre periferico, e però oggi, nel proprio essere periferico, può sviluppare un'azione che lo porti a interpretare il destino di tutti coloro che sono periferici, marginali, esclusi. È una questione che ha posto in modo molto rapido Said, cominciando a intuire questa condizione a partire probabilmente dall'esperienza personale. Se l'intellettuale impara a guardare il mondo da una posizione di esilio, può svolgere un'operazione estremamente utile, di contrabbando tra frontiere diverse, situazioni diverse. L'intellettuale è sempre più un traduttore, e di fronte all'invasione crescente dei popoli che muoiono di fame, che provengono dal Sud e dall'Est del mondo, tale funzione oggi è sempre più utile, a patto che la si svolga entro la nuova prospettiva, non più egemonica, non più protagonistica. ■ gilda. policastro!! alice. it G. Policastro è assegnista di ricerca in letteratura italiana contemporanea all'Università di Perugia e k a so k so so Q e tao GQ