, L,NDlCE 7 ■i dei libri del mese ' -a 7<< >','' * i rJL? e- U# ritratto di Cesare Pavese Avaro di sorrisi di Gian Carlo Ferretti Narratore, poeta, critico, traduttore, personalità centrale della letteratura del secondo Novecento, Cesare Pavese è anche un grande editore: e tra i vari aspetti della sua esperienza e produzione di cui si è diffusamente parlato nell'anniversario della nascita (9 settembre 1908), questo richiede ancora attenzione. Anche tenendo conto che manca in proposito una vera monografia critica. Di quella sua esperienza editoriale, balzano subito alla memoria l'esemplare Antologia Einaudi 1948, la teorizzazione della copertina figurativa come vero "saggio critico", certi bellissimi titoli (come i suoi Lavorare stanca, Paesi tuoi, Prima che il gallo canti, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Il mestiere di vivere) e i carteggi editoriali e verbali redazionali già editi o ancora inediti, nei quali si può seguire il suo straordinario, infaticabile, geniale lavoro su testi, collane, autori ecc. Pavese inizia la sua attività editoriale negli anni trenta, traducendo tra gli altri Melville, Anderson, Dos Passos, Steinbeck (e anche Mickey Mouse) per vari editori. Ma già da prima Pavese intesse una serie di rapporti che lo porteranno ad avere un ruolo fondamentale nella casa editrice di Giulio Einaudi fino alla morte, nell'agosto 1950. Dai banchi del liceo D'Azeglio di Torino, negli anni venti, alla rivista "La Cultura" (1934-35), si costituisce infatti il primo nucleo della struttura redazionale della casa editrice, con Leone Ginzburg, Massimo Mila, gli stessi Giulio Einaudi e Cesare Pavese e altri. Fondata nel 1933, all'inizio la casa editrice gestisce "La Riforma sociale", rivista di economia e finanza diretta da Luigi Einaudi, padre di Giulio, e si vale per alcune collane di studiosi a lui vicini. Ma anche nei decenni di autonomo e pieno sviluppo, editore e casa erediteranno dallo stesso autorevole economista liberale alcuni tratti inconfondibili: il rigore intellettuale, un'istanza democratica e il ruolo delle riviste, ima fisionomia saggistica. Un'istanza democratica, va detto, che già nel padre matura l'avversione per il regime fascista, e che nel figlio e nei suoi amici si manifesta ben presto come vera opposizione, fino all'arresto dell'intero gruppo e alla chiusura della "Cultura", con una lunga serie di autocensure, censure, sequestri editoriali e anche morti drammatiche nel corso degli anni trenta-quaranta. Certo, non mancherà qualche compromesso, anche se si tratterà di decisioni strumentali compiute all'indomani delle scarcerazioni per garantire la sopravvivenza della casa. Da parte di Pavese, peraltro, si viene già manifestando un atteggiamento politico contraddittorio, che arriverà a muoversi (per citare soltanto due esempi) tra posizioni addirittura opposte come il "taccuino fascista" del 1942-43 e l'iscrizione al Partito comunista nel dopoguerra, e che sarà un momento sempre più sofferto e irrisolto della sua esistenza. Pavese entra come redattore in casa Einaudi nel 1938, assumendo via via responsabilità intellettuali, professionali e direttive crescenti. Fondamentali per la elaborazione della politica editoriale della casa editrice, il "direttorio" composto nel 1941 da Leone Ginzburg, Giaime Pintor, Carlo Muscetta, oltre a Pavese, e soprattutto, dalla fine degli anni quaranta, il consiglio editoriale "del mercoledì", via via comprendente anche Felice Balbo e Massimo Mila, Franco Venturi e Norberto Bobbio, Elio Vittorini e Italo Calvino, Antonio Giolitti e Natalia Ginzburg e tanti altri (alcuni già da tempo collaboratori della casa editrice), insieme ai redattori interni e a Roberto Cerati: fino a costituire un vero e proprio "cervello collettivo", con un ruolo di progettazione, di ricerca, e anche di decisione. Dove emerge la figura di un editore che è insieme primus inter pares e conduttore determinato. Un'esperienza, insomma, davvero unica e irripetibile. Si viene così precisando l'identità einaudiana, ispirata nelle sue linee principali alla tradizione gobettiana e gramsciana e alla "cultura della crisi", con ulteriori grandi aperture, e realizzata in un attivo, molteplice e tuttavia unitario rapporto tra rigore e sperimentazione, scientificità e militanza, discussione e conflitto, in una feconda interazione tra varie discipline e generi, in una concezione non separata della letteratura, e in una politica d'auto- Un cavallo da stanga di Monica Laudonia Pavese faceva l'editore, lo faceva con polso e con una carica di diffidenza e di ritrosia difficili a spiegare, che erano commisurate all'uomo, probabilmente. Come faceva l'editore, be', questa è una storia ancora tutta da raccontare. In parte sta scomposta e mimetizzata tra le pagine del suo epistolario, curato nel 1966 da Lorenzo Mondo e da Italo Calvino. In parte, e soltanto in parte, è raccontata da questa nuova raccolta. Le lettere editoriali erano annunciate da tempo. Chi aspettava un libro di ampio respiro, capace di aprirsi più strade contemporaneamente (un po' come quel meraviglioso repertorio editoriale di Calvino, I libri degli altri), a una prima, veloce lettura rimane insoddisfatto. Chi sperava di trovare la voce di Pavese lettore, la voce autorevole del redattore che infila un consiglio dopo l'altro, che impone tagli, che riesce ad affilare pure i complimenti, rischia di restare assai deluso da questa scelta. Suggerimenti ai giovani scrittori, piccole scaramucce letterarie, pareri editoriali; niente di tutto questo è rintracciabile nelle lettere di Pavese; dei libri si parla alla svelta, con la fretta di chi è morso dal lavoro e vuole guadagnare tempo. Ma ci vuole poco a capire. Officina Einaudi (Lettere editoriali 1940-1950, a cura di Silvia Savioli, prefazione di Franco Contorbia, pp. 431, € 22, Einaudi, Torino 2008) non funziona così; questo libro ha un altro motore. La curatrice ha scelto di restringere il campo ai redattori e ai consulenti fissi della casa editrice; quasi una famiglia negli anni a ridosso della guerra. Ha perciò tagliato fuori tutti i collaboratori estemi, traduttori, curatori, consulenti. Scelta importante, che condiziona il carattere del libro. Officina Einaudi è un libro autistico, intemo alla casa editrice; non ci sono affacciate sul mondo, non ci sono cambi di marcia e di tono. Ed è un libro corale, malgrado la voce che sentiamo sia sempre quella di Pavese. Pochi gli interlocutori: Pintor, Einaudi, Bobbio, Muscetta, Mila, Alicata, Giolitti, Vittorini; le loro risposte sono integrate in nota, così che non poche volte il dialogo è restituito per intero. Ci troviamo di fronte a un sistema di comunicazione che può essere partecipato fino a un certo punto; tutte queste letterine scorciate sembrano nate per la posta pneumatica; veloce, sotterranea, destinata a pochi. I messaggi brevi, ispidi, che si incrociano con le risposte, che si innervano uno sull'altro, sono per buona parte messaggi interni, senza specificazioni, come biglietti che passano di mano in mano. "Caro Muscetta, Dickens è bello, ma la traduzione di Bamcca è infame. Dove hai scovato questo analfabeta? Se leggevi una sola pagina risparmiavi i soldi del pacco postale". "Caro Muscetta, sei un porco. Ho risposto a Manacorda come ho potuto, ma vorrei sapere perché devo farlo io che non c'entro". "Caro Muscetta, chi ha scovato questo bischero?". A Muscetta fin dall'inizio, Pavese rivolge continue strigliate, con tutti gli accenti comici che la sua voce riesce a inventarsi. A lui sono destinate le lettere più contratte, le più intolleranti, quelle più sbrigative; persino le sue famose scrollate di spalle stanno messe per iscritto; diventano, sulla carta, il refrain che apre e chiude ogni lettera; diventano una bandiera che sventola a ogni intoppo: "io non c'entro", "me ne infischio". La voce di Pavese viene spogliata di tutte le altre intonazioni, isolata chirurgicamente nel suo timbro "einaudiano". È caustica, beffarda, sfrontata; eppure qualche volta si lascia intaccare dalla tenerezza e si fa protettiva: quando scrive a Pintor, per esempio; nelle lettere a Vittorini invece suona neutra e distante, e in questa sua correttezza forzata pare inautentica. Anche l'affetto è costantemente appannato dal sarcasmo, sembra tutto un cachinno continuo. Officina Einaudi adotta la stessa veste editoriale dell'epistolario curato da Mondo e da Calvino nel '66; una pagina pulita che privilegia la lettera e affida alle note il recupero di tutte le informazioni necessarie. Buona parte di queste lettere era già inclusa nel vecchio epistolario; molte altre sono state recuperate attraverso spogli d'archivio o ripescate in pubblicazioni meno accessibili. Un grosso lavoro di recupero che si sposa, però, con una scelta assai poco fluida: le lettere documentano tutto il decennio degli anni quaranta, con qualche smagliatura lungo la strada e con parecchi vuoti. Resta da chiedersi perché un libro che dovrebbe raccontarci come Pavese faceva l'editore, ci racconti invece tutt'altro; ci racconti, sì, come Pavese stava nell'Einaudi di quegli anni, in mezzo ai suoi colleghi, ma nulla ci dica del suo lavoro. Niente davvero ci aiuta a capire perché Pavese sia stato "il prototipo dell'editore postmoderno". Sentendosi definire così, Pavese probabilmente avrebbe fatto una brutta faccia, poi avrebbe dato sfoggio della sua vena caustica. Del resto, secondo quanto ricorda Augusto Monti, quando gli si chiedeva del suo lavoro, pare che rispondesse: "Faccio il cavallo da stanga del biroccio di Einaudi". re e di collana caratterizzata da tensione creativa e conoscitiva insieme. Tutto nella prospettiva di una trasformazione della cultura e della società. In questo quadro, Pavese svolge un lavoro molto articolato e composito, comprendendo in sé tre ruoli ben distinti, che finiscono per fare di lui quasi un coeditore: direttore editoriale, voce nel coro "del mercoledì", direttore di collana, oltre che autore in proprio, naturalmente. Ma sono ruoli comprendenti a loro volta un'estesa somma di mansioni pratiche, che vanno dalla revisione di manoscritti alla correzione di bozze, dalla corrispondenza in inglese all'estesissima rete di rapporti intellettuali. Le collane di cui Pavese si occupa più direttamente sono i "Narratori stranieri tradotti", nata nel 1938 (con la prima edizione italiana del primo titolo della Recherche di Marcel Proust nella traduzione di Natalia Ginzburg del 1946), e due collane nate nel 1947, "I Millenni" (da Hemingway a Spoon River al Fiore del verso russo) e "I Coralli" (dove escono tra l'altro II sentiero dei nidi di ragno di Calvino, Sartre e Queneau). Ma il suo contributo più originale è certamente quello della "collana viola" di "Studi religiosi, etnologici e psicologici" (1948-55), che comprende autori e testi ricchi di implicazioni letterarie, come Vladimir Jakovleviè Propp, o legati alla personale ricerca di Pavese e in particolare alla poetica del mito, come Cari Gustav Jung, Lucien Lévy-Bruhl, James George Frazer, Karl Kerényi, Mircea Eliade. Una collana che rappresenta una versione particolarissima dell'identità einaudiana, attraverso il nesso tra rigore scientifico e orientamento controcorrente rispetto allo "storicismo imperversante" (tra gli intellettuali post-crociani e marxisti), come scrive Pavese, che la dirige insieme a Ernesto de Martino, e che proprio in disaccordo con lui sostiene la necessità di offrire libri "nudi e crudi" a lettori capaci di misurarsi con il virus irrazionalistico, senza prefazioni che debbano "vaccinarli" dal relativo pericolo. Una collana, in sostanza, che (tenendo anche conto della presenza in essa di due autori come il "controrivoluzionario" Eliade e il "reazionario" Kerényi in piena guerra fredda) basterebbe da sola a smentire le ricorrenti accuse revisioniste di dogmatismo ideologico e di dipendenza dal Pei, da parte di casa Einaudi: accuse basate su pochi casi non certo generalizzabili. Ma dietro la straordinaria capacità di lavoro di Pavese, dietro la sua puntigliosa operosità creativa e aziendale, dietro l'acuminata e spesso ironi-co-sarcastica intelligenza sottesa alle sue lettere editoriali e ai suoi interventi "del mercoledì", dietro le fotografie del suo volto indecifrabile e avaro di sorrisi, si nasconde quella tensione autodistruttiva che nel 1950 lo porta al gesto estremo. ■ gcferrettidtiscali.it G.C. Ferretti insegna letteratura italiana contemporanea all'Università di Parma e a io e ^ io io e co