L'INDICE ■■dei libri delmeseB da BERLINO Irene Lantappiè Al concetto linguistico di false friends si ispira il secondo libro di poesie dell'autrice berlinese Uljana Wolf, nata nel 1979 e già insignita di numerosi premi. La raccolta intitolata Falsche Freunde, pubblicata dalla casa editrice berlinese Kookbooks, è tutta giocata sulle parole di lingue diverse che non hanno lo stesso significato ma si presentano in forma simile dal punto di vista fonetico o ortografico. Nella poesia di Uljana Wolf l'affinità di aspetto o di suono dei false friends è il pretesto per far coesistere nello stesso significante due diversi significati, e dunque per istituire relazioni impreviste tra parole, contesti, lingue. Traduttrice di poesia americana e residente tra Berlino e New York, Uljana Wolf si muove sul confine che separa una lingua dall'altra. La prima sezione, Dichtionary, è un "dizionario tedesco-inglese di falsi amici, cognates [termini che condividono la stessa radice etimologica] sparsi e altri parenti". Nei suoi testi kind significa sia "bambino" sia "gentile", come rispettivamente in tedesco e in inglese; la parola kau è l'imperativo del verbo tedesco kauen, masticare, ma il contesto della poesia fa sì che alluda anche al significato del sostantivo omofono inglese cow. I serissimi giochi di Uljana Wolf non sono fine a se stessi, ma hanno una doppia valenza: qui la critica metalinguistica va a braccetto con la rinnovata fiducia nelle infinite possibilità creative del linguaggio. Attraverso questi corticircuiti tra parole si creano nuove interferenze e sovrapposizioni, nascono sintesi inedite che richiedono al lettore un ruolo attivo nei confronti del testo. Nella seconda sezione, Subsisters, Uljana Wolf amplia il campo d'azione e si confronta con il cinema. Ogni poesia compare in due varianti: da una parte il testo originale e dall'altra una versione con i sottotitoli. I sottotitoli però modificano radicalmente l'originale: per mezzo di essi le figure dei protagonisti, quasi sempre attori della Hollywood anni quaranta e cinquanta, vengono ricollocate in un altro contesto e perdono così il loro carattere di stereotipo. Nella terza sezione, Aliens, il tema del passaggio tra lingue è sviluppato descrivendo un attraversamento materiale e concreto, quello dell'Atlantico. La lista di malattie o stranezze che gli ispettori di Ellis Island individuano nei migranti europei giunti negli Stati Uniti all'inizio del XX secolo è lo spunto per rilevare le tracce del passaggio tra un continente e l'altro. Il libro di Uljana Wolf è dunque davvero un dicht-ionary. è un dizionario (die-tionary), una sorta di enciclopedia, ma al contempo è anche poesia (in tedesco Dicht-ung) e, infine, un luogo in cui la lingua diventa più spessa (in tedesco di-cht) e acquista profondità. da PARIGI Marco Liloni La letteratura non è certo uno dei temi che fanno l'attualità e la cronaca, in nessun paese. Eppure negli ultimi mesi, nel bene e nel male, se ne parla e non poco. Era successo con Camus, che il presidente Sarkozy voleva portare al Panthéon. Ora un altro immortale che riposa sulla collina Sainte-Geneviève (non si sa perché, ma i parigini la chiamano "montagna") è su tutte le pagine dei giornali. Stavolta tocca ad Alexandre Dumas. Il clamore è legato a un film uscito nelle sale da qualche settimana. L'autre Dumas - questo il titolo della pellicola - del regista Safy Nebbou ha suscitato un vespaio di reazioni e dibat- titi. Principalmente perché la parte di Dumas è stata affidata a Gérard Depar-dieu. Ora, non tutti sanno che lo scrittore, considerato uno dei più grandi autori francesi, era meticcio e alla sua epoca veniva considerato un "nero". Il creatore dei Tre moschettieri, del Conte di Montecristo e del fortunato personaggio della Maschera di ferro, presente nel romanzo Il visconte di Bragelonne, era figlio di un mulatto (venduto come schiavo), nato a sua volta da una madre nera e schiava. Lui stesso si definiva un "negro", "dai capelli crespi", e subì la discriminazione razziale dei velenosi salotti letterari e della società del tempo. Un razzismo a cui Dumas rispondeva con una certa ironia, come quando, entrando in un teatro, qualcuno pronunciò ad alta voce, affinché fossero udite da tutti, le parole: "Sapete, dicono che abbia parecchio sangue nero". Allora lo scrittore, voltandosi, replicò: "Ma certo signori. Ho sangue di nero: mio padre era un mulatto, mio nonno un negro, e il mio bisnonno una scimmia! Vedete bene che le nostre due famiglie hanno la stessa filiazione, ma in senso inverso". Insomma, nonostante l'abbronzatura e la parrucca, Dépardieu non ha certo lo stesso colore della pelle di Dumas. Regista e produzione affermano che si tratta di un'interpretazione, di un ruolo e non di un documentario. Senz'altro vero, rispondono in molti, se però fosse permesso ad attori di colore di interpretare ruoli da "bianchi". E fin qui soltanto una parte della polemica. Perché si deve aggiunge- re la tesi sostenuta dal film: ovvero che Dumas fosse, in parole povere, un impostore, vile sfruttatore del talento di un suo collaboratore (in gergo, il suo "negro"). Come tutti gli scrittori dell'epoca, anche Dumas aveva un aiutante che faceva, in parte o per intero, le ricerche storiche, la correzioni dei testi, l'integrazione e la rilettura dell'opera. Dumas aveva scelto Auguste Macquet, amico di Théophile Gautier, di Gérard de Nerval (con il quale aveva iniziato a fare il "negro"), indubbiamente dotato di un certo talento letterario. La tesi è rilanciata anche nel recente libro Alexandre Dumas, Auguste Maquet et associés (Bartillat editore) di Bernard Fillaire, ma non è certo nuova: nel 2003 fu messo in scena un testo teatrale di Cyril Gely ed Eric Rou-quette (Firmato Dumas) il quale, a sua volta, si rifaceva a un discutibile pamphlet del 1845 firmato da Eugène de Mire-court. A dar la voce alle proteste è Claude Ribbe, storico e biografo di Dumas, che su "Jeune Afrique" scrive: "Allo scrittore non si rimprovera più la sua ne-gritudine, ma la si nega trasmettendola a Maquet, un semplice collaboratore promosso al rango di eroe. Nello spirito del regista e dei produttori, è la negazione di questa negritudine a giustificare la scelta di Depardieu. Secondo loro il negro è Maquet. Lo schiavo è Maquet. Dumas è Maquet. Il figlio del generale nato schiavo ad Haiti non è altro che un impostore di cui si dubita che sia - al limite - capace di scrivere una sola riga". A vedere il film e a leggere quanto si va scrivendo in queste settimane, vien da porsi una domanda: se non v'è dubbio che si possa e si debba metter in luce il talento di Maquet, perché voler negare a tutti i costi il genio di Dumas? Figlio e nipote di schiavi, volerlo per forza dipingere come un "negriero" è davvero un po' troppo! da LONDRA Simona Corso In un mondo sempre più globalizzato, dove a Bombay si mangia il Maharaja Mac (con hamburger di agnello invece che di manzo), a Napoli si fa la sauna tailandese, in Melanesia si gioca a cricket e a Manhattan si vive in appartamenti "giapponesi", la nozione di cultural hy-bridity sembra ormai un dato acquisito. Al punto che, dopo aver letto il delizioso Cultural Hybridity di Peter Burke (Polity Press, 2009), ci si chiede se nel mondo della cultura - intesa in senso lato fino a comprendere atteggiamenti, mentalità, valori oltre che la loro espressione in artefatti, pratiche e rappresentazioni - esista ancora o sia mai esistita un'isola mai contaminata. La risposta è, ovviamente, no, ma il pregio del libretto non risiede tanto nella sua tesi di fondo (la cultura è sempre, ora più ora meno, ibrida), ma nella ricchezza degli esempi addotti (tutti corredati da ampie note bibliografiche) e nella disinvoltura, da vecchio maestro, con cui il suo autore riesce a sintetizzare e schematizzare un tema così sconfinato. Cultural hybridity è un nome nuovo per un concetto vecchio. Pur riconoscendo il contributo dato dai post-colonial studies al dibattito sull'ibridismo culturale (Edward Said, Homi Bhabbha, Stuart Hall, Paul Gilroy, Ien Ang), Burke non dimentica quegli studiosi - storici, antropologi, storici dell'arte - che già negli anni trenta e quaranta prestarono attenzione ai fenomeni di sincretismo culturale (gli studi di Gilberto Freyre sulle identità meticcie del popolo brasiliano; quelli di Melville Herskovits sul sincretismo religioso di Haiti; quelli di Arnold Toynbee sui "contatti tra civiltà"; quelli di Aby War-burg ed Ernst Gombrich sui modelli "migranti"; quelli di Arnaldo Momigliano sull'ambigua ellenizzazione nel mondo antico, eccetera). Sia gli storici che gli storici dell'arte, del resto, sanno da tempo che non si può studiare quasi nulla senza trattino: storia indo-saracena, arte ispano-moresca, e così via. La ricchezza degli esempi (da Bollywood alle sinagoghe con decorazioni islamiche di Toledo, dal Chinese Chippendale alla bossa nova, dal carnevale brasiliano al cricket indiano) è controbilanciata dall'accuratezza terminologica e dall'attenta disamina dei prò e contro di ogni categorizza-zione. Il saggio si divide in cinque parti, cinque punti di vista da cui studiare l'ibridismo culturale: gli oggetti che produce, la terminologia che lo descrive, le situazioni che lo creano, le risposte che suscita, i risultati che genera. Chiude il libro anche una previsione: se la temuta omogeneizzazione (o coca-colizzazione) del mondo non ha oggi possibilità di realizzarsi (o durare) più di quanto in passato non si siano realizzate, o siano durate, l'ellenizzazione o la romanizzazione delle terre conosciute, di contro l'isolamento delle culture è un ideale senza speranza, o una paura senza fondamento. L'ipotesi di Burke è l'emergere di nuove forme culturali, un ordine culturale globale che prima o poi si diversifica in oicotipi, o "versioni locali". Un mondo creolizzato, dove non mancherà né lo scambio né il conflitto, né l'arricchimento né la disperazione, ma dove i ghetti, come i confini nazionali, non potranno più arginare le infiltrazioni e le invasioni culturali.