L'INDICE ^■□el libri del mese|h e s so 0 k cu so so • r<> e £ tuo GQ La lezione non appresa di Carlo Dossi L'arte di scrivere male di Daniele Santero Prendiamo alcuni dei nostri romanzieri più à la page, chiudiamoli nei rispettivi studi con pc e libreria, ordiniamo loro di stendere un paio di pagine barocche, dissonanti, governate da una retorica artificiosa e stridente come quella, ad esempio, dell' anonimo dei Promessi sposi: un piccolo esercizio di stile, semplicemente un paio di pagine mal scritte. Che cosa accadrebbe? E poi: in quanti sarebbero all'altezza della prova, di questo del tutto ipotetico, fantasioso (e forse sleale) certame? Resistere alla pagina "ben scritta" e ossequiosa a precetti e licenze, uscire con estro e intelligenza dalla "rettorica" e dal bello stile tutto italiano senza rinunciare mai, nello stesso tempo, all'aureo magistero manzoniano è il progetto che Carlo Dossi riprende in ogni sua pagina, con una lucidità fermissima. Il Màrgine (con l'accento grave, come ogni parola non piana in Dossi) con cui si apre fedelmente l'ultima ristampa di quel perfido e delizioso romanzo a sketch che è La Desinenza in A (introduzione e note di Guido Lucchini, pp. XXVII-251, € 9,80, Garzanti, Milano 2009), prima satira misogina dell'Italia unita e "libro non certo per monacanda", è da questo punto di vista un vero e proprio manifesto. "Non vi ha scrittore più di mè impuro" e meno turbato dalla "corrotta italianità", ci dice il meno celebrato dei grandi lombardi, da Parini ad Arbasino. E poi, più radicalmente: chi scrive un romanzo secondo i' 'requisiti essenziali della forma" ("primo fra tutti l'intreccio che appassiona e rapisce") e in uno stile leggibile e corrente quanto "una rotaja inoliata" dà luogo a una piccola sciagura, contribuisce alla "perdizione" della stessa arte di scrivere. D'altra parte: il fatto stesso che Dossi non sia stato eletto a padre o modello dalle avanguardie novecentesche nonostante gli entusiasmi dell'irrequieto Lucini, primo curatore per Treves delle sue opere (1910-1927), dimostra quanto tutte le sue devianze stilistiche e le sue uscite dal codice del romanzo "ben fatto", tutto ciò che nelle Note azzurre egli stesso definisce, prima di Marinetti, un far "salti mortali sullo stesso posto", non risponda mai alla logica distruttiva e liberatoria delle avanguardie stesse. Permanendo all'ombra delle fondazioni inglesi del romanzo-saggio (Fielding, Lamb, Swift, Thackeray, Sterne) e di un Manzoni da subito riconosciuto nella sua "difficile facilità" ("Auguro agli Italiani ch'essi possano raggiungere un grado intellettuale da capir tutti e tutto Manzoni" leggiamo nelle Note azzurre), Dossi affida al romanzo e alla letteratura stessa un fine positivo rintracciabile tra le stonature e gli inciampi delle sue pagine "genialmente mal scritte" (Lucini). Distantissima dalla negligenza e dalla sfrenata assenza di fini avanguardista, l'uscita dalla piurezza della letteratura e da tutti i taciti "contratti formali" tra scrittore e lettore ("per la giustificazione dell'uno e la serenità dell'altro", scriveva Barthes) mira innanzitutto al bene del lettore stesso. A lui Dossi descrive un gruppo di collegiali alle prese con la geografia: "Vèdile, le quattro studiose, sotto quel pèrgolo ingraticciato, che attende la appena-seminàtavi ombra; vèdile, fuse in ùnico amplesso, vólti gli sguardi a un atlante, che una di loro, gentil morettina di trédici anni, si tien spalancato in grembo" e così via. I "viluppi", gli "intoppi nel periodare" e i "tranelli" che trattengono la presentazione di un piccolo quadro femminile, e che nel Màrgine Dossi riconosce a tutta la sua opera, rispondono alla stessa logica: obbligano "il lettore a procèder guardingo e a sostare di tempo in tempo", "gli attirano il cervello", lo invitano a "interpretare", lo fanno "pensare". E innanzitutto contengono una precisa idea sul fare letteratura: uno scrittore che "scrive bene" e che scrive per tutti è uno scrittore che pensa male, o poco. Fondata su un preventivo congedo alla "mezz'ora dell'ispirazione" (la "feroce emicrania" della Desinenza) e ai servizi della musa nel sorridente dettato delle Note azzurre ("Io invece mi contento del 'musino'. Parlo cioè del piccolo muso del mio Gniff, canino terrigno, che mi sta in grembo mentre scrivo, e mi scalda il basso ventre e con questo il sangue e le idee"), questa interpretazione disincantata, razionalistica e scettica della creazione let- teraria in quanto resa di una qualche "densità delle idee" è il quid che Dossi rintraccia nei suoi padri, da Sterne a Richter fino a Manzoni, e secondo il Màrgine una "letteraria virtù" replicabile attraverso le strategie più disparate. Scrittore "da tavolino e lucerna" secondo la definizione di Isella, curatore delle sue principali edizioni recenti e suo maggiore critico, Dossi si mette sulle tracce di questa particolare virtù muovendosi con passo disinvolto da più punti di partenza, lavorando su più materiali, sfruttando ogni pretesto. All'assenza della musa da pregare e da attendere sostituisce la presenza della biblioteca, dei libri degli altri, citati, ripresi, dissimulati in pagine fitte di rimandi e allusioni, a volte espressamente invocati, come nel caso del protagonista della sterniana Vita di Alberto Pisani e delle sue litanie ai "suoi favoriti (...) Sterne, Thackeray, Porta (...) E Porta, Thackeray, Sterne". Senza sosta Dossi riscrive gli altri e riscrive se stesso: gli spunti di quel gran "granaio di riserva" di idee che sono le Note azzurre (di cui l'edizione Isella del 1964 ha ricevuto un'unica desolata ristampa nel 1988) vengono sviluppati, ritagliati e riusati in altri libri, altri brani vengono scalzati dal loro contesto, magari dopo tempo, solo per servire a una migliore resa di quel "suono d'idèe" citato nel Màrgine. La recente edizione delle Goccie d'inchiostro ottimamente curata da Francesco Lioce (pp. 154, € 12, Salerno, Roma 2009) non solo ha il merito di restituire la piccola galleria di ritratti satirici alla sua versione definitiva, ma anche di illuminare il tipico procedere dossiano con uno sguardo ad alcuni di quei "dietro scena" che la scrittura "densa" di Dossi presuppone sempre, dietro al precetto di Esiodo accolto nelle Note: "Regola capitale nell'arte - half is better than the whole". Se questa costante tendenza alla densità rintracciabile anche nelle Goccie è ciò che per Dossi rende un autore moderno, l'ostinata elaborazione di una "letteratura d'idèe" è anche ciò che lo rende un po' più oscuro, un po' meno leggibile. Le stonature a cui lo scrittore lombardo vorrebbe dedicare un trattato (perché "anch'esse hanno importanza" e potrebbero "esser guidate a fin di bene"), gli inciampi dello stile, i secentismi, tutto il carico di incongruenza a cui egli affida le sue idee lo spingono fatalmente lontano dal grande pubblico, presupponendo qualcosa che sembra sempre meno disponibile, quei "non irosi e non disattenti lettori" che sappiano "lèggere con attenta lentezza" invocati nel Màrgine. Il fatto che la stessa grande critica si sia segnalata soprattutto per i suoi silenzi sulla figura di Dossi non ha ovviamente contribuito ad arruolare un numero maggiore di questi particolari lettori. Solo in parte Dossi è, come scriveva Manganelli nelle Laboriose inezie, "una delle divinità segrete della letteratura italiana": in merito al rapporto con i critici sembra tuttora più ragionevole parlare con Arbasino, per il quale Dossi è veramente una piccola "divinità segreta", di una lunga serie di "incontri mancati". Perché Praz, che sarebbe stato un critico potenzialmente congeniale, non ha studiato anche la Desinenza, le Goccie, i Ritratti umani e l'Alberto Pisani? E poi Gadda. Perchè riservare a Dossi solo la nota citazione della Cognizione, l'isolata definizione di "scrittore arzigogolato e barocco"? Di fatto, la netta scelta gad-diana di Manzoni avrebbe anche potuto non coincidere del tutto con l'ostinato silenzio su cui si interrogava lo stesso Arbasino in una pagina di Fratelli d'Italia (1993): "Non parla volentieri del Dossi, però. Mai l'ha citato, lo si è scoperto da soli, e poi ha sempre lasciato cadere ogni accenno". Nel complesso Arbasino ha perfettamente ragione: per vari motivi, tra cui quella secolare tendenza degli italiani a mostrarsi in letteratura "un popolo accigliato e muto, imbranato, incapace di dialogo se non astratto o afflitto", l'ironica e complessa lezione di Dossi non è mai davvero passata, eppure è lì, disponibile, a portata di mano. Dossi la elabora quando mette in sesto la sua difficile arte di scrivere male per poter racchiudere nella sua pagina^ densa il maggior numero possibile di "idèe". E un sapere i cui articoli avrebbero potuto liberare (e non l'hanno fatto) tanti romanzi venuti dopo da ciò che non può condurre alla riflessione né avviare alcuna interpretazione: pagine assolutamente leggibili e "ben scritte", attraenti virtuosismi linguistici, scaltriti idioletti e altre patine stilistiche che restano tali, veli sottili, fatui effetti di superficie. ■ santerodaniShotmail.com D. Santero è dottore di ricerca in italianistica, insegnante e critico letterario