N. 9 LMWCE 9 Bdei uqri oelmeseM di Mariapia Veladiano, Memorie mancate, e due brani tratti dalle opere segnalate: L'amore assente di Eduardo Savarese e La contorsionista ride di Antonio G. Bortoluzzi. L'amore assente di Eduardo Savarese Incipit Le notizie sull'accaduto del 12 luglio continuano a rimanere scarse. Oggi si commemora Sant'Anna, qualcuno dal tabaccaio le ha chiesto se anche la chiesa ortodossa festeggia allo stesso modo. Le conoscenze religiose di Agar sono vaghe, il sincero disinteresse che nutre deve nasconderlo con alzate di spalle ed occhi al cielo, da cui sembra trasparire una muta ed immemore saggezza. C'è stata solo una telefonata per avvertire i familiari che l'unità di pattugliamento non è ritornata. Hanno escluso un rapimento, ma non si sono pronunciati sulla possibilità di un attentato esplosivo. Da quando è giunta la notizia priva di informazioni, il villino si è fatto ancora più isolato, stanza dopo stanza, nell'ansia che arrivino i dettagli. Sofia non esce praticamente più, ha scelto il salotto, la stanza più ampia; quando Ciretta apre le persiane e fa passare un po' d'aria, la caccia via, senza voce, spingendola fuori a furia di gesti affannati, e rinserra le aperture. Sono giornate bianche, l'afa sbiadisce il cielo e le cose, la luce si impiglia quasi tra le persiane e le tende. Nel salotto si forma un'aria violacea quasi plumbea, Sofia ci giace su una poltrona, facendosi sempre più magra, fissa alle decine di foto che ha tirato fuori dall'ultimo cassetto della credenza, trascinando fuori l'odore di polvere gialla che pare una pasta ammuffita. Sono tutte foto dei suoi genitori, durante la guerra. Per un'italiana nata negli anni cinquanta di guerra ce n'è ima, lì i conflitti si sono fermati. Agar non capisce sua figlia, la vede già come una mezza morta, e di morti ce ne sono già abbastanza. Si è scelta una stanza piccola per dormire e, spesso, per mangiare. Si è fatta montare un computer, sa usare la stampante con le funzioni di fax e fotocopiatrice e "cammina" su internet, le sembra strano dire "navigare", e così Marcello, che le ha insegnato tutto, pure lui si è piegato a chiederle: "stai camminando su internet?". Su internet, da quando suo nipote è scomparso il 12 luglio, con l'aiuto del professore De Geronimo che insegna al liceo scientifico a Castellammare, ha individuato alcune cartine dell'Afghanistan. Su una pagina del sito delle Nazioni Unite, il professore è riuscito a scovarle una cartina geopolitica con la divisione in fasce di intervento delle forze militari multinazionali. Nella zona dove stanno gli italiani, ha sovrapposto una bandierina tricolore. Agar stessa ha stampato la cartina e, dopo la scomparsa, con un pennarello rosso ha cerchiato la città intorno alla quale si sono perse le tracce del nipote. Farah. Da quando Marcello è partito nella forza di pace, la nonna rimane sul suo filare di cartine con occhiate pensose ai rilievi che riproducono le montagne, scorgendo le insidie che, lo sa bene, le montagne di ogni paese da sempre nascondono. Gli occhi grigio - azzurri, allora, diventano fissi come un lago tra quelle montagne. Pensa a sé come Agar, col suo nome di ragazza, non più come yia yia e accende una sigaretta (fuma di nascosto e di rado), chiudendosi il seno grosso dentro lo scialletto multicolore dalle frange arancione, incrostate di polvere. Lo scialletto non lo lava quasi mai, Marcello da piccolo ci strusciava il viso e i capelli come un gatto Tonfante. Durante il primo anno di permanenza in missione, a Sofia premeva soltanto che suo figlio l'assicurasse su quando sarebbe ritornato. Agar spiava le telefonate e scuoteva la testa. Affacciata alla sua stanza, dopo aver mandato Ciretta a fare la spesa - è lei a decidere cosa si mangia - osserva il via vai nel cortile dabbasso, gli imballaggi di lampadari di suo genero, suo genero che impartisce ordini e non alza mai il capo verso il piano di sopra, non parla del figlio, e al telefono, quando si sentivano, si raccomandava solo di non intrupparsi in imprese troppo eroiche. Invece yia yia ha scritto al nipote lunghe lettere sconclusionate, nelle quali però chiedeva tutto, come fosse il clima, cosa mangiassero, se di giorno riuscissero a conoscere gli abitanti dei villaggi, com'era la gente afgana, se socievole o infida, come gli albanesi, oppure accogliente, come era stata lei e la sua famiglia con suo nonno, di non prendere freddo, di guardarsi le spalle dalle donne straniere che avrebbero voluto accalappiarlo. Mentre scriveva queste lettere, seppure le firmava yia yia, sorrideva un po', o si incupiva, enormemente. Ritornava Agar, e quella in Afghanistan costituiva soltanto l'ennesima guerra di ima serie indistinta tra i ricordi. ■ La contorsionista ride di Antonio G. Bortoluzzi I tre corsari Le magliette a maniche corte erano stese sul tavolo della cucina come i corpi dei tre corsari prima di essere impiccati nella Plaza de Granada a Maracaybo: il Corsaro Rosso, il Corsaro Verde e il Corsaro Nero. A dir la verità la terza maglietta era blu scuro e non nera. Mia madre tagliava i fili colorati che sporgevano dalle maniche, e sistemava i colletti: si allontanava e guardava meglio, chiudeva uno dei tre bottoni e passava con la mano aperta sul davanti. Era proprio come se stesse componendo i corpi dei tre corsari. - Vieni qua, provale — mi ha detto vedendomi impalato alla porta. - Di chi sono? - le ho chiesto mentre indossavo la rossa. - Me le ha portate Sonia, dalla fabbrica dove lavora. La maglietta era un po' lunga. Come la verde e la blu. - Queste ti vanno bene anche l'anno prossimo. - Le hai comprate? - Me le ha regalate Sonia perché sono difettate. -Ah. - Questa ha il collo un po' storto e questa la manica che tira in dentro, vedi? -No. - Ma indosso non ci si accorge. E sono cento per cento cotone — ha detto mia madre. Non ricordavo l'ultima volta che avevamo acquistato qualcosa da vestire per me. Le maglie, i maglioni, le braghe che portavo, anche quando sembravano nuove, era solo perché erano state portate poco da mio fratello o dai miei cugini. L'ultima cosa comprata apposta per me erano stati gli scarponcini marrone. Eravamo saliti a piedi su al negozio ed entrati nella penombra e in quell'odore forte e cattivo di scarpe nuove. Le scarpe erano dentro pile di scatole bianche tutte uguali. Prima di farmele provare la signora delle scarpe guardava il numero da lontano e poi metteva gli occhiali. Mia madre invece le chiedeva: Che nome hanno? Che voleva dire: quanto costano? Ogni volta che la signora delle scarpe diceva una cifra mia madre si stupiva, faceva Oeee, oppure diceva Maria Vergine, ma l'anno scorso non costavano così tanto. La signora delle scarpe diceva che era per via dell'inflazione. Quando il prezzo era alto ma le scarpe le piacevano, mia madre me le faceva indossare e mi chiedeva: come te le senti? E sempre difficile sentirsi, quando te lo chiedono. Io sentivo solo l'odore del cuoio, della gomma, della patina da scarpe. Sentivo che costavano troppo; sentivo che non avevo più voglia di iniziare la scuola: faceva ancora caldo e non potevo pensare che avrei lasciato i sandali per gli scarponcini. Però toccava decidere. Rimanevo lì dritto in piedi a farmi tastare la punta delle scarpe perché sentissero fin dove arrivava il ditone. Mi facevano camminare sul tappetino verde, un passo e mezzo avanti e altrettanto indietro, perché il tappeto finiva subito. Gli scarponcini nuovi per la scuola erano duri come il legno e avevano dei forellini sulla tomaia che parevano ricami. Però non mi facevano un male insopportabile e allora dicevo che andavano bene. Era quasi l'ora di Zor-ro, e con un po' di fortuna sarei riuscito a vederlo. Odiavo le scarpe nuove perché dovevo sempre pensare a quello che facevo con i piedi: non calciare sassi, non entrare nei fossi e soprattutto non salire sui muretti. Bastava sabre un solo muretto e le punte degli scarponcini erano segnate a vita: prima i graffi erano chiari e poi, alla prima patinatura, diventavano striature nere, profonde e verticali, sempre più nere a ogni passata di patina. Uno sbaglio sul muretto in un momento di distrazione, magari durante una scaramuccia con i federales, e uno aveva rovinato gli scarponcini per sempre. Almeno le magliette colorate erano tre e se ne sciupavo una ne rimanevano sempre due. - Peccato che vadano bene solo a te. Se almeno una era per Carlo... Ma non vedi com'è diventato? Ieri ha mangiato sette panini, sette - ha detto mia madre ripiegando la maglietta rossa e quella verde. Mio fratello Carlo era diventato grande come un uomo e mi dava certe strette al collo che vedevo blu. Stava studiando la teoria per fare gli esami della patente della macchina, e mangiava panini. Stava ore in bagno a lavarsi o non so che. Non gli vedevo quasi mai la faccia: o era chino a mangiare il panino, o sul libro dei quiz, oppure mi prendeva alle spalle e mi stringeva il collo. Una volta gli ho detto: Potresti andare a Flash, e lui mi ha risposto: Vaffanculo. Aveva ancora briciole di pane agli angoli della bocca. Anche mio fratello più piccolo, Robertino, metteva i miei vestiti ma io non lo prendevo mai per il collo, gli facevo solo vedere il panino masticato spalancando la bocca, oppure mi grattavo il culo e gli facevo annusare le dita e lui piangeva. Robertino era allergico a certe piante e piangeva per niente. - Tienila ormai, che l'altra è indecente - ha detto mia madre, guardando con la testa un po' inclinata la maglietta blu che avevo indosso. Sono uscito a farmi un giro in bicicletta. Al terzo scalino l'ho sentita dire: - Se la sbreghi non tornare a casa. .... (spazio) - Guarda cosa mi ha dato Sonia, stamattina. Ho guardato il pezzo di carta bianca spiegazzato che aveva in mano. Dentro potevano esserci semi di zucca, fagioli, bottoni. Invece quando l'ha aperto ho visto che c'erano tre pezzetti di stoffa. Erano di color verde chiaro e contornati di bianco. Avevano la forma di una piccola coccarda con sotto qualcosa, come delle stanghette incrociate. Ricordava il teschio dei pirati, ma il colore verde e bianco lo facevano subito dimenticare. - Sonia ha detto che dobbiamo cucire la marca sulla maglietta. - La che? - La marca. ■ sì * o o • h-à k ftn