N. 5 10 k o e • io e co Schermi horror di Franco Pezzini In parallelo con quanto avviene per la letteratura, anche il cinema di genere sta guadagnando attenzione, come testimoniano gli spazi apertigli in prestigiose rassegne: un dato che non si consuma nella presa d'atto del fenomeno in sé come rivelativo di amori e umori d'epoca, ma nella ricerca (e non certo acritica, come talora si accusa) di dimensioni poetiche e significati forti attraverso un pelago vastissimo di titoli. Titoli spesso sconosciuti e ancora oggi, nell'era di internet, di difficile reperibilità; titoli sfuggenti perché plurimi (i cosiddetti aka) o invece frantumati in una selva di versioni diverse, comprese quelle manomesse a posteriori per disinvolti giochi di distribuzione; titoli citati, ma in realtà di dubbia realizzazione o mai girati. Una bussola riconosciuta per queste rotte è in Italia la rivista "Nocturno", il cui manipolo di prodi sta ormai da anni mettendo ordine anche con splendide monografìe allegate ai singoli numeri: ma quasi in spirito di di-vertissement i fondatori Manlio Gomarasca e Davide Pillici propongono ora La piccola cineteca degli orrori. Tutti ifilm che i fratelli Lumière non avrebbero mai voluto vedere (pp. 271, € 24,50, Rizzoli, Milano 2009). Attraverso puntuali schede e un ricchissimo corredo di fotografie e locandine vengono presentati più di mille film "dalla B alla Z", come recita la quarta di copertina, con retroscena e chicche di ogni genere. Sicuramente un volume non per puritani, visto che l'ex-ploitation — come questo tipo di film viene classificato (da to exploit, "sfruttare") - è aperto alle fantasie più varie e bizzarre, ed eros e horror procedono spesso a braccetto: ma il taglio divertito non toglie nulla al rigore della panoramica. Se, del resto, nel corso degli ultimi decenni anche in Italia sono comparsi numerosi buoni testi sul cinema di genere, è più raro incontrare grandi opere compilative sulle tracce delle prime, pionieristiche di Danilo Arena e Teo Mora. Pur a distanza di qualche tempo dall'uscita, merita dunque rammentare lo splendido Dizionario dei film horror. 2400 titoli dall'Abbraccio del ragno a Zora la vampira di Rudy Salvagnini (pp. 816, € 16,90, Corte del Fontego, Venezia 2007): un volume monumentale con ricche schede sulle singole pellicole, e che dalle opere capitali e più note spazia fino alle produzioni minori e indipendenti. Il concetto di horror rappresentato è tra l'altro estremamente ampio, dall'accezione più tradizionale (gotico classico, filone demoniaco-apocalittico, spettri nipponici, ecc. e relative parodie) agli ibridi con fantascienza, poliziesco e thriller. Se non si può che augurare che il Dizionario venga progressivamente aggiornato, Salvagnini - sceneggiatore di fumetti e critico cinematografico, attualmente per "Segnocinema" - ha nel frattempo dato alle stampe anche un pregevole volume illustrato, Il cinema di Bob Dylan (pp. 320, € 16, Le Mani, Recco-Genova 2009). Ma, tornando al terrore, dalle compilazioni si passa alla monografie con Demoni e dei. Dio, il diavolo, la religione nel cinema horror americano (pp. 514, € 27, Lindau, Torino 2009) di Roberto Curri, altra firma eccellente di "Nocturno", colla- boratore del "Mereghetti", e già autore di saggi importanti sul cinema di genere. Si tratta, va detto, di uno dei saggi migliori mai apparsi in Italia sull'horror: ima disamina profonda, acuta e originalissima dei rapporti tra messa in scena della paura e sensibilità religiosa americana ("La religione è il sangue che irrora e nutre l'America"), con tutte le relative ricadute sociali e politiche; un grande studio di mitologia del cinema, sulla base di una ricchissima filmografia, ma anche di storia sociale statunitense. Dalle origini dell'horror a stelle e strisce, con mostri destinati a tranquillizzanti distruzioni finali, arriviamo così alla situazione post 11 settembre, in cui clamorose riletture teocon si alternano a opere di ben diversa sottigliezza e inquietudine. ■ Cambiamento di paradigma di Michele Sisto Fabio Andreazza, identificazione di un'arte. scrittori e cinema nel primo novecento italiano, pp. 208, € 17, Bulzoni, Roma 2009 Sono opere d'arte, i videogame? Oggi pochi risponderebbero di sì; i più troverebbero inopportuno perfino chiederselo, e nel migliore dei casi avanzerebbero riserve e distinguo. È probabile che un giorno leggeremo storie di questa ennesima arte nelle quali Pacman avrà il posto che nei volumi di Gian Piero Brunetta ha La sortie des ouvriers de l'usine Lumière, ma oggi il suo status è ancora incerto. Lo stesso accadeva al cinematografo all'inizio del XX secolo: a lungo, dopo il battesimo parigino del 1895, è considerato un mezzo di intrattenimento, volgare e asservito all'industria, e il suo posto è nelle fiere, accanto al benjaminiano Kaiserpanorama, al baraccone del tiro al bersaglio e al casotto dell'indovina. Perché il cinema venga "identificato" come arte saranno necessari - parallelamente alla febbrile attività intema al campo cinematografico in via di costituzione a opera di registi, cineasti, produttori, riviste specializzate, associazioni di cinefili, festival e premi - almeno tre decenni di trasfusioni di capitale simbolico dall'esterno, da campi dotati di più consolidata autonomia e legittimità, come quello teatrale, musicale o delle arti figurative, nonché dallo stato e dalle sue istituzioni. Il volume di Fabio Andreazza ricostruisce il molo che in questo processo hanno avuto gli scrittori, un gruppo sociale che all'inizio del Novecento detiene una sorta di monopolio sul discorso estetico. Di qui la particolare rilevanza delle loro prese di posizione, che fin dall'inizio si collocano tra i due estremi del favore disinvoltamente manifestato dal "taumaturgo" D'Annunzio e dell'aperta ostilità di Croce, il quale si degnerà di dir bene del cinema soltanto nel 1948, a giochi ormai fatti. Fino a tutti gli anni dieci, del resto, la sua diffidenza è largamente maggioritaria: gli entusiasti del cinema sono pochi giovani esponenti di avanguardie letterarie interessate a rompere con il passato (lo scalpitante Papini, i ce-rebristi Gina e Corra, Anton Giulio Bragaglia e soprattutto Marinetti e i futuristi), mentre personaggi influenti e tra loro diversissimi come Verga, Pirandello, Prezzolini, Gobetti e Gramsci sono unanimemente guardinghi. Le cose cambiano intomo al 1926, con l'affermarsi di una nuova generazione di letterati (che solo in parte coincide con una nuova generazione anagrafica) disponibile per formazione e per interessi specifici a investire nelle potenzialità artistiche del nuovo mezzo: i più noti sono senz'altro Massimo Bontempelli (che ne scrive su "900"), Giacomo Debenedetti (su "Solatia"), Luigi Pirandello, del quale è ricostruita la "lenta conversione" dalla contrarietà espressa in Si gira... all'entusiasmo per una possibile collaborazione con Murnau a un film tratto da Sei personaggi in cerca d'autore, o Emilio Cecchi, la cui nomina a direttore artistico della Cines nel 1932 segna il punto d'arrivo dell'indagine. In rapidi, densi paragrafi, in cui si fa un uso accorto e privo di gergalismi dello strumentario sociologico di Pierre Bourdieu, il volume ripercorre le successive tappe di questo mutamento di paradigma senza mai ridurre a formule schematiche quello è che un complesso, e tutt'altro che teleologico, concorso di attori e di fattori. Vi trovano dunque spazio numerose figure di letterati che, proprio per aver investito sulle incerte potenzialità della nuova arte, non hanno seguito la carriera tipicamente letteraria (quella che garantisce un posto nei manuali di storia della letteratura), svolgendo tuttavia un fondamentale molo di mediazione Ad esempio il fondatore della rivista "H Convegno", Enzo Ferrieri, che tra le molte novità importate dalla Francia e dalle altre capitali della cultura europea introduce in Italia il primo cineclub; o Guglielmo Alberti, il primo a riconoscere in Charles Chaplin un "autore" di statura pari a un letterato; o Antonello Gerbi, tra i più abili a mobilitare l'allora dominante estetica crociana al fine di "giustificare il cinema come arte". La storia della legittimazione del cinema come arte si intreccia così con quella dell'autonomizzazione del campo letterario, di cui il volume costituisce, seppure da una prospettiva laterale, una delle prime messe a fuoco. Con pochissime eccezioni, infatti (tra cui il saggio di Anna Boschetti La genesi delle poetiche e dei canoni. Esempi italiani (1945-1970) apparso in "Allegoria", 2007, n. 55, a cui l'autore opportunamente rinvia), questo tipo di indagine da noi è appena agli inizi, mentre in Francia e in Germania produce da almeno un decennio risultati tali da rendere pensabile una riscrittura della storia letteraria, finalmente svincolata dalle narrazioni nazionali e che ponga in primo piano le relazioni: tra scrittori, tra le arti, tra diversi paesi. Di quest'impresa, realizzabile solo a patto che una nuova generazione di studiosi vi investa risolutamente, Identificazione di un'arte potrebbe essere ricordato come uno dei primi passi. Moda In un'epoca di furibonde concentrazioni di mercato c'è qualcosa di eroico nella vitalità della piccola e piccolissima editoria, le cui prove circolano spesso per il semplice passaparola, superando gravissimi ostacoli e riservando talora affascinanti sorprese. Un esempio è rappresentato dal catalogo del piccolo, raffinato editore Enrico Casaccia (Co.re Editrice, Fossano), che meriterebbe menzione anche solo per aver scelto di riproporre nel disincantato 2010 un'opera come II rapimento di Proserpina di Clau-diano, con traduzione di Milo De Angelis; e che po- chi mesi prima, perseguendo ima scelta di bellezza anche esteriore dell'oggetto-libro, ha presentato in edizione illustrata Piume di sangue. 69 racconti noir di Anna Berrà (pp. 264, 28 ili. col., € 17, 2009). Giunta a improvvisa notorietà nel 2003 con il successo del divertito giallo-nero-erotico IL ultima ceretta per Garzanti, l'autrice offre in Piume una scelta "riveduta e scorretta" - così il risvolto di copertina -dei Corti da morire per più anni oggetto di rubrica sul supplemento settimanale "TorinoSette" della "Stampa": fulminanti storie di delitti esemplari e morti assortite in una giostra tutta torinese tra il 1888 dell'arrivo di Nietzsche (ma anche dei crimini dello Squartatore, in una ben diversa esperienza urbana) e il nuovo Millennio. La chiave del genere è giocata attraverso una scrittura elegante cui ben rispondono in controcanto le belle tavole di Andrea Calderini e Luca Gari-no. Berrà scende così in un Ade gianduiotto, offre sangue alle ombre e le induce a parlare: e facendo il verso a miti, suggestioni e modi di esprimersi nei singoli periodi e ambienti, richiama un'intera Spoon River di confidenze - meditabonde o maliziose, ribalde o soavemente atroci — alla deriva del tempo. A volte l'ombra evocata è l'assassino e a volte la vittima, altrove si tratta di suicidi; talora parlano i testimoni, straziati o perplessi. Il risultato sono frantumi di vite, rifrazioni sfuggenti come in cocci di specchio, quasi a echeggiare le voci spezzate ed elusive dei tavolini a tre gambe di certo spiritualismo tra Otto e Novecento: come del resto nel racconto Viraggio seppia, che ricorda la moda delle cartoline spiritistiche e pare una buona metafora per gli intenti dell'autrice. Ma a emergere non sono solo fantasmi di persone: ci sono fantasmi di mestieri, fantasmi di edifici o porzioni di quartieri scomparsi nella progressiva mutazione della città. E fantasma è in fondo la Torino narrata, di nebbie, sogni e desideri: una città vampira che si nutre di storie. Se in Piume di sangue la pluralità di racconti confluisce in un testo felicemente unitario, Sarà ieri di Silvia Treves per i tipi di un altro piccolo editore, CS Libri (prefaz. di Consolata Lanza, pp. 146, € 13,50, Torino 2009), è invece un romanzo breve, accompagnato anche in questo caso da un percorso visivo di qualità tramite le foto di Cettina Calabro. Treves, autrice di novelle e curatrice di antologie (merita rammentare Porte. Passaggi, varchi, barriere, dodicesimo volume della raccolta Fata Morgana, sempre CS Libri, pp. 185, € 13, 2009), muove nell'ambito di un fantastico impastato nel quotidiano attraverso moti interiori, evocando con stile controllatissimo tra clima di sottile inquietudine. L'acquisto da parte della traduttrice Lidia di uno spazio da attrezzare a ufficio la precipita in uno strano rapporto con gli oggetti lì accatastati in attesa della rimozione, e che decide di conservare, vinta dal tessuto di emozioni che scatenano in lei. Emozioni sul filo dell'ossessione, se non di vera possessione: per l'insoddisfatta protagonista, che ha imparato ad accantonare i sapori del proprio passato, e che vive (o sopravvive) in un'esistenza anestetizzata, il rapporto perturbante con le esistenze trasudate dagli oggetti reca straniami ricordi di vite che non ha vissuto. Sarebbe peccato svelare il finale, in realtà più problematico di quanto appaia a una lettura superficiale. Nell'ambito di un testo dove in fondo a inquietare, più che le presenze pulsanti attraverso gli oggetti, sono i vuoti di vita della protagonista, e che rammenta con verità ed eleganza il fantastico dell'interiorità. ■ (F.P.)