N. 5 12 Classici Troppo femminile di Carlo Lauro Alphonse Daudet IL PICCOLO VILLAGGIO Consuetudini coniugali ed. orig. 1895, a cura di Lilli Monfregola, pp. 270, € 14, Iacobelli, Pavona di Albano Laziale 2009 Nel sodalizio umano e artistico che lo unì per lunghi anni a Flaubert, Zola e Goncourt, il provenzale Alphonse Daudet si distingueva per un'indolenza ostentata verso le ambizioni della professione: nessuna aspirazione al seggio dell'Académie Francai-se, nessuna teorizzazione intorno ai propri romanzi, e meno carnets di appunti o sopralluoghi ambientali rispetto al classico ro-mancier naturaliste (definizione che respingeva per sé). Decisamente l'istinto, peraltro nutrito di classici, lo consigliava benissimo, visto che era l'unico a contendere a Zola il primato delle tirature (esemplari le centomila copie di Sapho). Aveva, tra l'altro, intrapreso due strade fertilissime su cui nessuno dei colleghi lo avrebbe seguito: quella del romanzo d'infanzia (Le Petit Chose, Jack, Soutien de famille) e quella farsesca della trilogia di Tartarino (Flaubert, letto il primo della serie, non esitò a parlare di capolavoro, raccomandandone la lettura a George Sand). Enorme risonanza toccò anche ai romanzi del ciclo Mceurs Parisiennes; e nel 1883 una critica del sempre attendibile Henry James rendeva omaggio all'"infallibile tocco poetico", alla "morbidezza", al "senso del bello" che Daudet riversava in ogni pagina (anche la più triste e penosa) con un talento naturale che evitava la "durezza", e talvolta Inaridita", di altri illustri contemporanei. Negli stessi anni, iniziavano i tentativi di discredito. L'arcigno Léon Bloy (per cui Daudet era un "ladro di gloria") sottolineava i tanti imprestiti di idee e soggetti dagli altri naturalisti e indicava in Jack una sorta di plagio (peraltro riuscito) del David Copperfield. Più concreta purtroppo l'accusa, sostenuta da Mirbeau e poi da Maurras, che le Lettres de mon Moulin (1869) - libro capitale per la fama di Daudet — fossero in parte opera di Paul Arène con appropriati interventi, non solo stilistici, di Julia Daudet, moglie e musa ispiratrice, la cui mano sarà riconoscibile anche in altri manoscritti (le rivelazioni di Jean-Jacques Lefrè-re, critico e grafologo, guastarono nel 1997 il centenario dello scrittore). Alcuni infortuni diplomatici di quei successi sono poi noti, ma vanno a merito di Daudet: L'Evangeliste (1882) spiacque agli ambienti protestanti e alla destra; L'immortel (1888) indignò l'Académie Fran^aise al gran completo e Les Rois en exil (1879) le frange di monarchici nostalgici; i provenzali non amarono riconoscersi nei fallimenti dei neo-parigini del Midi - Le Nabab (1877), Numa Roumestan (1881), Sapho (1885) — né i tarasconesi (quanto mai ingrati) nelle macchiette caricaturali di Tartarin. Si registrarono altri malumori quando in certi romanzi furono comunque riconoscibili, non nella luce migliore, personaggi come il due de Morny o Léon Gambetta. Entrato il naturalismo nel cono d'ombra del Novecento (un ridimensionamento che dai decadenti e ai surrealisti giungerà sino alle tesi del Degré zèro de l'écriture di Roland Barthes), fu Daudet a pagare all'inattualità uno dei prezzi più alti. I pregiudizi sugli imprestiti da terzi, la diffidenza ispirata da quelle altissime tirature popolari, il confronto con l'impegno zoliano, le posizioni conservatrici dell'autore (su cui in realtà si riverberavano quelle estreme del figlio Léon) aggravarono il giudizio su una narrativa che apparve comunque invecchiata, convenzionale, femminile (poco mancò che la si confondesse con quelle edulcorate di Feuil-let o di Ohnet). La stessa seducente leggerezza indicata dai due lunghi saggi di James e Zola fu quasi sempre percepita come superficialità (di ambientazione, di personaggi) e sentimentalismo borghese (qualche concessione toccava pur sempre alla freschezza delle opere provenzali: alle solari Lettres de mon Moulin come alla Camar-gue scura e magica del postumo Le trésor d'Arlatan). E storia recente l'ingresso di Daudet nella "Biblioteca della Plèiade", insieme a qualche inatteso contributo sulla modernità della sua scrittura impressionista, giocata efficacemente più sulla sovrapposizione di istanti diversi che sulla continuità della durata, con un abile impiego della pluralità dei punti di vista. Soprattutto nei più lunghi e ambiziosi romanzi si scopre anche la forza di Daudet (i solenni funerali del due de Mora, in Le Nabab, costruiti come un grande capitolo di Zola). L'ultimo anno (1897) riserva non soltanto impeccabili ispirazioni (a mezzo tra racconto lungo e romanzo breve) come La Fédor e il citato Trésor d'Arlatan, ma anche il compimento dell'autobiografico La doulou (pubblicato solo nel 1931), diario asciutto e intenso delle sofferenze causate da una sifilide semi-paralizzante contratta in anni di libertinage giovanile ed esplosa sinistramente nella maturità (destino già toccato a Jules de Goncourt e Flaubert, Baudelaire e Maupas-sant). Pur raro, è questo uno dei pochi testi di Daudet reperibili oggi in italiano (è edito da Lubrina), insieme alle Lettres de mon Moulin (Garzanti), ai tre "Tartarini" einaudiani tradotti da Aldo Palazzeschi (il vertice resta quello "sur les AJ-pes") e a un solo grande romanzo, pubblicato da e/o, Sapho (molto amato da Proust: il legame di Gaussin e Fanny ben somiglia per malintesi e sofferenze a quello di Swann e Odette). Tanto più stupisce che, con tante possibilità aperte, la scelta di un volenteroso editore (coadiuvato da una brava traduttrice, Lilli Monfregola) sia caduta su un romanzo minore, La Petite Paroisse (1895), non a caso non incluso nei tre volumi "Plèiade". Il cambio di titolo - Il piccolo villaggio - non salva l'opera dal suo vettore edificante e consolatorio, così poco consono al lucido pessimismo di Daudet. Vi si narra del matrimonio tra Richard Fé-nigan, proprietario terriero (siamo nella regione Seine et Oise), e una trovatella, Lydie, messo in crisi da un giovane aristocratico senza scrupoli (un avvenente Lovelace fin de siècle, con tanto di scellerata corrispondenza). Lydie, in fuga con quest'ultimo verso la Bretagna, e ormai incinta, verrà riportata al nido dalla suocera, un tempo a lei avversa per gelosia materna. Punto d'irradiazione di questo e di ogni altro gesto di conversione, pacificazione e perdono, sino al lieto fine, è la piccola parrocchia del villaggio edificata da un vedovo inconsolabile, il devoto Mérivet, e affidata a un sant'uomo, l'abate Cérès. v E vero che, stando a un passaggio di La doulou, Daudet si era proposto di riscattare le impertinenze anti-accademiche di LTmmortel con un nuovo romanzo "tendre et bon, indul-gent": ma troppa bontà non solo ha allontanato la sua vena da quel "grande soffio della vita moderna" che secondo Zola ne caratterizza il lascito, ma sembra avergli offuscato buona parte della finezza analitica. In luogo dell'immancabile sensazione di vissuto dei migliori romanzi, La Petite Paroisse procede su certi eterogenei espedienti ascrivibili al romanzo epistolare (le prolisse missive del seduttore) e soprattutto al feuilleton: c'è un tornante della vicenda che si tinge di "giallo" e spunterà persino un'agnizione (ne lasciamo le scoperte al lettore). I molti interrogativi sul carattere spurio del romanzo lasciano supporre, in una fase particolarmente acuta della semi-paralisi dello scrittore, un affidamento in altre mani (quelle di Mme Daudet), decisivo per la fisionomia dell'opera: l'ispirazione femminile, soprattutto, non poteva facilmente rinunciare al lieto fine. Immaginarsi, poi, se il disincantato Daudet credesse alle folgorazioni di una chiesetta campestre: renitente com'era -secondo un ricordo di Pierre Loti - a qualsiasi genuflessione, pur tra le angosce incalzanti dell'atroce doulou. ■ claunSlibero.it C. Lauro è dottore di ricerca in letterature comparate all'Università di Bari Capolavoro d'immobilità di Giorgio Kurschinski Joseph Roth LA MARCIA DI RADETZKY ed. orig. 1932, trad. dal tedesco di Sara Cortesia, pp. 336, € 6, Newton Compton, Roma 2010 Il più celebre romanzo di Joseph Roth, già riproposto nel 2009 da Barbès Editore nella traduzione di Alberto Schiavone, è ora disponibile nelle altrettanto efficaci traduzioni di Carlo Pischeri (Baldini Castoldi Dalai, 2010) e in quella di Sara Cortesia per la Newton Compton che, scaduti i diritti d'autore, la presenta nella collana dei tascabili "Gte", accanto a Fuga senza fine (1927), La cripta dei cappuccini (1938) e La leggenda del Santo bevitore (1939). Curatore di tutte e quattro le opere, il germanista Giorgio Manacorda, autore dei saggi introduttivi a ognuna di esse e di quello dedicato all'opera complessiva dell'autore galiziano. A sua volta, Giunti ne ripubblica, sempre in questi primi mesi del 2010, l'intramontabile prima traduzione italiana di Renato Poggioli del 1935 con un'introduzione di Marino Freschi. La marcia di Radetzky venne pubblicato originariamente nel 1932 come romanzo d'appendice sulla "Frankfurter Zeitung", cui Roth collaborava dal 1923 anche come Kulturpublizdst e inviato. Roth, nato nel 1894 nella Galizia polacca appartenente all'impero austro-ungarico, a pochi mesi dalla presa del potere di Hider, scrisse questo elegiaco canto funebre alla compagine sovranazio-nale che aveva politicamente avversato in gioventù ma che, nello spaesamento prenazista dell'epoca, gli sembrava essere stato l'ultimo baluardo alla barbarie impadronitasi dell'Europa. Un baluardo che però, nella propria incapacità di rinnovarsi, nel proprio immobilismo, aveva tutti i germi dell'autodistruzione. I rappresentanti delle tre generazioni dei Trotta, protagonisti del romanzo, sentono che la considerazione loro tributata per i meriti del primo di essi, l'eroe di Solferino, che aveva casualmente salvato la vita all'imperatore Francesco Giuseppe, non corrisponde alla percezione che hanno di sé, improntata al senso di inadeguatezza. Tutti cercano nella generazione precedente la forza che sento- VENTANNI IN CD-ROM L'Indice 1984-2004 Per acquistarlo: tel. 011.6689823 abbonamenti @ lindice.com no di non avere, inconsapevolmente posseduta solo dal padre dell'eroe di Solferino, semplice gendarme di campagna sloveno, la cui ancora intatta identità slava nulla aveva della futura percezione di imminente dissoluzione, dolorosamente presente all'ultimo dei discendenti, Cari Joseph, destinato a essere spazzato via dalla Grande guerra. La cifra del valore letterario di Joseph Roth è riconducibile alla sua capacità, scrisse Ladislao Mittner, di "trasformare il racconto in un'informazione molto precisa e concreta, (...) in un colloquio umanamente illuminatore ed umanamente commosso con il suo lettore". Come ha ricostruito Renate Lunzer, l'italianista viennese studiosa dei rapporti culturali tra l'Austria e l'Italia, fu Stefan Zweig (l'amico che lo aiutò anche economicamente negli anni del disperato esilio parigino, conclusosi con la morte da alcolizzato nel 1939) a proporre, attraverso il suo traduttore Enrico Rocca, Joseph Roth all'attenzione del mercato editoriale italiano nel 1930. Probabilmente anche per il clima culturale improntato a un'imbalsamata retorica risorgimentale, le opere di Roth, seppur tradotte, vennero però generalmente ignorate in Italia per vari decenni. Persino la grande germanista Lavinia Mazzuchetti, traduttrice e amica di Thomas Mann, sconsigliò alla Mondadori negli anni quaranta La cripta dei cappuccini, scrivendo: "Questi tipi di sloveni devoti all'Austria, la vita nell'esercito, tutto è terribilmente passato e trapassato". Fu solo a partire dall'inizio degli anni settanta che l'opera di Joseph Roth venne rivalutata grazie agli studi dedicatigli da Gaudio Magris che, specie in Lontano da dove. Joseph Roth e la tradizione ebraico-orientale del 1971, opera scritta non solo a tavolino, ma anche attraverso numerosi viaggi in quella parte d'Europa, allora oltre cortina, ne evidenziò il legame con l'universo ebraico dello shtetl, familiare agli autori ebrei di lingua tedesca delle zone di confine dell'impero, ma snobbato o poco conosciuto da parte di quelli viennesi come Stefan Zweig e Arthur Schnitzler. Nell'opera di Roth, accanto all'affascinante, perfetta rievocazione delle atmosfere asburgiche, troviamo l'espressione della simbiosi tra Au-striazitàt e Ostjudentum (ebraismo europeo-orientale), l'adesione leale alla dimensione sovrana-zionale imperialregia dei sudditi ebrei dell'impero, che li portava a menzionare Francesco Giuseppe nei loro libri di preghiere, affinché Dio vegliasse sulla salute del Landesvater, padre della patria, garante della loro legittimazione tra le altre componenti dell'impero, assai meno favorevoli alla sua conservazione. ■ gkur schinskiÉiyahoo. de G. Kurschinski è germanista e dottorando in itaiianistica all'Università di Varsavia