L'INDICE ■■dei libri del meseBB Il caso E inmeccanica: un'azienda di Stato condotta da manager competenti I dilemmi di una grande impresa di successo di Luciano Gallino 3 O JS o o K) • r<> C3 £ CQ Oltre 73.000 dipendenti nel mondo, tecnologie d'avanguardia, 15 miliardi di ricavi, utili con- sistenti pure ai tempi della crisi. Un gigante statu- nitense o tedesco? No, italiano. Uno dei due soli rimasti nel comparto manifatturiero. Il cui con- trollo fa capo tuttora allo stato, visto che il mini- stero dell'Economia detiene il 30 per cento del suo capitale azionario. Come un'impresa italiana possa essere grande, efficiente e nondimeno statale lo spiega Vera Zamagni in Finmeccanica. Competenze che vengono da lontano (pp. XI-385, € 28, il Muli- no, Bologna 2009). La Finmeccanica di oggi è un conglomerato in cui sono confluiti, nell'arco di sessant'anni, numerosi settori di imprese private e pubbliche (a suo tempo parti di Iri e Efim) che hanno segnato la storia dell'industria italiana. Qualcuna era nata più di centocinquant'anni fa, come Ansaldo (Genova 1853), altre un po' più tar- di, come Breda (Milano 1886), o Fiat Aviazione (Torino 1915). Ma nell'organigramma Finmecca- nica si ritrovano anche pezzi di Macchi e di Agu- sta, di San Giorgio e di Menarini, di Galileo e della Siai Marchetti, pegna migliaia di addetti - e da una concorrenza che per diverse ragioni, non solo economiche, è quanto mai aspra. Questi due successi difficilmente sarebbero stati conseguiti se i governi italiani che si sono succe- duti per quasi due terzi di secolo non avessero compiuto una scelta che non vollero, o furono in- capaci di compiere, in molti altri ambiti di quelle che furono le Partecipazioni statali. Nel caso Fin- meccanica i governi scelsero manager capaci e mo- tivati e li lasciarono lavorare. In altri settori del- l'industria pubblica, che vanno dalla chimica al- l'acciaio e ai trasporti, i governi in qualche caso non seppero trovare i dirigenti giusti. Ma più spes- so, in veste di ministri, sottosegretari o loro affilia- ti, imposero ai manager scelte dissennate in tema di localizzazioni di impianti, linee produttive, poli- tiche commerciali, quando non entrarono a piedi giunti nei consigli di amministrazione per imporre loro cosa dovevano fare - avendo di solito in vista mentre sono spante im- prese che tempo fa vi oc- cupavano un posto di primo piano, tipo Alfa Romeo. Zamagni ricostruisce con destrezza e gran co- pia di dati la complicata storia di due successi del- la società, e di una scelta dei governi italiani, che sono alla base delle eccel- lenti condizioni della Fin- meccanica attuale. Il pri- mo successo è stato di ca- rattere organizzativo. Le imprese che le sono state trasmesse dall'Iri o dal- l'Efim, o provenienti dal privato che voleva sba- razzarsene, producevano di tutto un po'; avevano bilanci in rosso; erano in genere troppo piccole per affrontare la concor- renza internazionale. An- no dopo anno il manage- ment di Finmeccanica si dimostrò abile e determi- nato anzitutto nel ridefi- nire la missione del grup- po, decidendo di concen- trarne le attività in soli tre Babele. Osservatorio sulla proliferazione semantica settori: aerospazio, ener- gia e trasporti. Le impre- se che apparivano estra- nee furono rapidamente cedute o chiuse. Quelle restanti furono risanate e aggregate in modo da far crescere produzione e ri- cavi. Allo scopo di accrescere le dimensioni dei principali settori del gruppo furono anche com- piute fusioni e acquisizioni in campo internaziona- le, di grandezza rara a vedersi per mano di una so- cietà italiana. Tra le più significative vi fu, nel 2004, l'acquisto in blocco dell'Agusta-Westland, che ha fatto di Finmeccanica uno dei leader mon- diali della costruzione di elicotteri. Il secondo successo, al quale l'autrice dedica quattro lunghi capitoli, è consistito nel saper for- mare, e mantenere nel tempo nonostante il passa- re delle generazioni, un solido gruppo di dirigenti in media giovani, dotato di competenze tecniche e manageriali fuori del comune nei rispettivi campi, e motivato oltre che da buoni stipendi dal deside- rio di affermare il gruppo e se stessi come "cam- pioni" in settori contraddistinti da tecnologie avanzatissime - al cui sviluppo Finmeccanica im- Governo, r. m. Il termine deriva dal latino gu- bernum, parola che ha inizialmente a che fare con il timone o la guida di una nave ed è consan- guinea al greco kybernàn, da cui scaturiscono la ci- bernetica e il comando elettronico. È noto che poi il significato è in parte mutato e ha assorbito il complesso degli organi pubblici. Vi è anzi una possibile differenza semantico-politica tra il signi- ficato "oggettivo" che allude all'insieme delle isti- tuzioni e quello "soggettivo" che contiene l'indi- rizzo programmatico, legato a decisione, delibera- zione e comando (secondo la trinità del potere suggerita da Machiavelli), di chi gestisce appunto il governo (sia esso costituito monarchicamente da uno solo, aristocraticamente dai pochi, censitaria- mente dai molti, democraticamente dai più). Sus- sistono anche i termini, sempre latini, regere e re- gimen, da cui deriva il tedesco Regierung, ma an- che l'italiano "reggimento", che non concerne so- lo un'unità militare, ma anche l'istituzionalizzazio- ne di un tragitto politico. E non va dimenticato il "regime", governo con caratteristiche specifiche, che non esclude a priori le democratiche, ma che introduce in sé il più delle volte quelle autoritarie, miranti a tecniche di controllo politico, sociale e culturale. Il timone però non scompare. "Vera- mente io sono stato legno sanza vela e sanza go- verno", così si esprime Dante, alludendo alla pena dell'esilio, in Convivio, I, 3, 5. Si trova ancora il termine, sempre braccato da un viluppo duale e insieme intrecciato, in Boccaccio, in Sarpi, in Bec- caria, in Tommaseo. Ma già Flaubert, in Madame Bovary, ironizza, avendo in mente le espressioni ti- piche dei rumorosi comizi rurali, sulla ripetuta af- finità comparativa tra l'arte del domare un mare in burrasca e l'arte di domare, con il buon governo e la sicurezza, i tempestosi conflitti insiti nell'uni- verso socialmente plurale della cittadinanza. E tra il 1966 e il 1976 ci si è riferiti, senza timore dello sfinimento verbale, a Mao Zedong, da parte dei suoi quasi sempre poco informati idolatri occiden- tali, come al "grande timoniere", definizione che disegna il capo del governo, del popolo, del parti- to comunista, dello stato, della rivoluzione cultu- rale. Il termine "governo", con il significato "moder- no", si impone comunque in italiano verso il 1190, in francese verso il 1205, in inglese - ma è già "the action of ruling" - nella prima metà del XVI seco- lo. E si fanno poi strada l'aggettivo "governativo", il sostantivo "governatore", la "governabilità" (in opposizione all'instabilità politica dei governanti), e the governance, dove intervengono, in accordo più o meno pubblico con i governi-stato, attori non-statuali, ma economico-finanziari, amministra- tivi, non-rappresentativi, non-elettivi (tra cui natu- ralmente i protagonisti del corporate governance, la Banca mondiale, il Fondo monetario internaziona- le, naturalmente l'Onu, l'Unione Europea e così via). Si è però sempre discusso di forme di governo nel pensiero politico, riplasmando senza sosta le grandi classificazioni di Platone e Aristotele: mo- narchia-tirannide, aristocrazia-oligarchia, demo- crazia rappresentativa-democrazia diretta-demo- crazia "populistica". Nessun capo di governo, no- nostante gli strilli del boss di Arcore, è eletto diret- tamente dal popolo. Il presidente degli Stati Uniti è eletto dai grandi elettori e può diventare tale an- che senza la maggioranza dei voti. Quello francese è un semipresidente e condivide il potere con un primo ministro eletto dal parlamento, tanto che vi sono stati presidenti in coabitazione con primi mi- nistri alternativi. Negli altri stati, come l'italiano, il capo di governo è eletto dalla maggioranza parla- mentare. Il timone, nei paesi senza Batista o Norie- ga, appartiene ai cittadini. Non a un piccolissimo Cesare. Bruno Bongiovanni turato, poiché tanto un visore elettronico quanto un elicottero possono avere, con qualche modifi- ca, sia impieghi militari che impieghi civili. Resta il fatto che i sistemi per automazione e difesa, in- sieme con gli elicotteri, originano il 59 per cento del fatturato del gruppo, come si evince (nelle dense appendici curate da Emanuele Felice) dal- la tabella di p. 290; e che l'organigramma del gruppo esibisce in primo piano aziende come Oto Melara (artiglierie navali e mezzi corazzati), wass (siluri), più la partecipazione, che si sa esse- re del 25 per cento, alla internazionale mbda (lea- der di sistemi missilistici). Qui la domanda è se nel corso del suo sviluppo Finmeccanica non si sia trovata dinanzi a biforcazioni di percorso al- ternative, ovvero se non avrebbe potuto scegliere di concentrarsi su altre produzioni parimenti hi- gh tech in luogo degli armamenti. Il secondo aspetto che a mio avviso meritava un approfondimento è quello dell'azionariato del gruppo. Oltre il 30 per cento delle azioni sono in mano al nostro Teso- ro, il che assicura un al- to grado di controllo sul gruppo. Però il 49 per cento sta nel portafoglio di investitori istituziona- li, e tre quarti di questi sono anglosassoni. Tra di essi, se non andiamo errati, vi sono anche dei fondi di grande peso, quali i Rotschild. Ciò si- gnifica che nel governo di Finmeccanica si ritro- vano degli attori ai cui desiderata in tema di li- nee di investimento o ambiti di profitto è piut- tosto arduo opporre un rifiuto. Ora, nessuno vive nel mondo dei sogni. Quin- di va ammesso, seppure a malincuore, che se un paese ha un esercito, do- vrà pur armarlo, e non si vede bene quale sia la differenza tra comprare armi all'estero o produr- le in casa. Se si parla di ridurre la produzione di uno stabilimento il qua- le, costruendo armamen- ti, occupa centinaia o migliaia di lavoratori, i scopi elettorali. Il perdurante successo globale di Finmeccanica attesta, sottolinea Zamagni nell'in- troduzione, "che le grandi aziende possono risul- tare sostenibili e competitive con qualunque tipo di proprietà, purché abbiano una conduzione ma- nageriale appropriata". Riconosciuto che il libro fornisce un contribu- to di prim'ordine per comprendere attraverso quali vie un gruppo industriale italiano sia arriva- to a collocarsi tra i primi al mondo nel suo cam- po, e apprezzatane la fitta documentazione, va detto che su due aspetti della vicenda Finmecca- nica l'autrice poteva forse spendere qualche pagi- na in più. Il primo attiene agli interrogativi che suscitano le particolari merci che la società pro- duce. Tutti sanno che il campo in cui Finmecca- nica risulta essere il sesto o il settimo gruppo mondiale è quello degli armamenti. Certo è diffi- cile stimare quale sia il loro peso effettivo sul fat- pnmi a preoccuparsi per i livelli d'occupazione sono i politici, di sinistra non meno che di destra, e i sindacati. Eappunto quello che è accaduto di recente ri- guardo al sito bresciano dell'Oto Melara. In so- stanza, se produrre armamenti genera occupazio- ne, buoni salari, lavoro specializzato, nonché pro- fitti che per almeno un terzo alimentano il soffe- rente bilancio dello stato, il realismo induce inevi- tabilmente a pensare che ha poco senso evitare di produrli. E pazienza se un fondo sovrano come quello della Norvegia (che trasforma utili petrolife- ri in pensioni) fa lo schizzinoso e annuncia di non voler più investire in Finmeccanica perché produ- ce sistemi d'arma. Ma proprio perché la realtà è du- ra e spigolosa, vai la pena di guardarla tutt'intorno. Esaminando i prò e i contro che derivano dall'ac- cettarla com'è. Anche quando si ricostruisce la sto- ria di una grande impresa di successo. ■ luciano.gallinodunito.it L. Gallino è professore emerito di sociologia all'Università di Torino