Come vedere il mondo alla rovescia L'ultimo eterosessuale sulla terra di Franco Pezzini Erede di antichi riti stagionali di sovversione, la cui celebrazione controllata garantiva la coesione sociale e magari cosmica, il topos del "mondo alla rovescia" torna talora a emergere con prepotenza nel linguaggio del romanzo, a ri- chiamare un generale e provocatorio ripensa- mento dei connotati della realtà. Certo, gli esiti possono essere molto diversi, e la cifra del grot- tesco può mostrare efficace acutezza critica o piuttosto il rifugio un po' facile nello sberleffo qualunquista, nel brontolio senescente. E d'altra parte il paradosso sembra talora farsi realtà, pre- cipitando nell'incubo di un mondo a gambe al- l'aria: basti pensare, per chi ravvisi nei valori co- stituzionali il fondamento della società, a certa corrente "normalità" di conati xenofobi, ronde all'insegna del sole uncinato (si preparano anche quelle) e sussiegose giustificazioni su una volontà popolare ferma in realtà agli istinti più bassi. Di fronte a tutto questo, comprendiamo come l'an- tico topos possa ancora sferzare: e ai suoi utilizzi migliori è interessante riportare un paio di re- centi proposte narrative. A partire - in ordine di uscita - da L'invasione degli ultragay. Una storia politicamente scorretta di Corrado Farina, per la giovane casa editrice Zero91 (pp. 286, € 14, Milano 2008). Un nome, quello di Farina, già noto ai lettori per altri godi- bilissimi romanzi, in particolare i gialli editi dalla torinese Fogola (Giallo antico, 1999; Dissolvenza incrociata, 2002; Il cielo sopra Torino, 2006); ma soprattutto ai cultori di cinema, perché almeno un paio delle sue prove registiche costituiscono veri e propri cult oggetto di odierna riscoperta an- che a livello di rassegne e distribuzione dvd, in Ita- lia e all'estero. E se Baba Yaga (1973) muove con eleganza nel mondo dei fumetti di Crepax, ...hanno cambiato faccia (1971) rappresenta un piccolo capolavoro di genere, nonché il primo film ad abbinare vampi- rismo e capitalismo nella figura dell'ingegner Gio- vanni Nosferatu, magna- te di una grande casa au- tomobilistica torinese (uno splendido Adolfo Celi). Il suo dominio sul- la società grazie agli stru- menti della tecnologia e della pubblicità sembra preludere con inquietan- te preveggenza alla visio- ne dell'Italia a noi con- temporanea. Con questi solidi pre- supposti, e forte di uno stile meditabondo quan- to ironico, Farina ha osato con L'invasione de- gli ultragay un'operazio- ne indubbiamente ri- schiosa. Io narrante è il frustrato scrittore Cor- radino Piersanti, che per strappare attenzione scrive un romanzo di fantascienza in cui gli omosessuali sono diven- tati genere dominante, e il protagonista è l'ultimo e perseguitato eteroses- suale rimasto sulla Terra (con tanto di citazioni, ovviamente, di Mathe- son e di Boulle): un mondo alla rovescia, ap- punto, con la storia sviluppata su due piani pa- ralleli a sequenze alternate, marcati graficamente in diversi tipi di caratteri a stampa. Da una parte scorrono i capitoli del romanzo di Piersanti, nel linguaggio avventuroso che ci si può aspettare da una vicenda pur tanto paradossale; dall'altra, evolve quella parallela personale e sociale dello scrittore, con la giostra delle reazioni che il ro- manzo scatena apparendo a puntate su una rivi- sta. Sit-in di protesta sotto le finestre, manifesta- zioni di sdegno o solidarietà di esponenti civili e politici - e fronti che prontamente si invertono non appena si sparge voce dell'appartenenza di Piersanti alla comunità gay. Con questa materia, e con il problema di come chiudere la parabola, Farina si muoveva dun- que su un terreno di estrema delicatezza: in un mondo intossicato da continue aggressioni contro gli omosessuali, il limite tra paradosso provocato- rio e volgarità poteva venire varcato con facilità o almeno risultare sfuggente, equivoco. L'autore rie- sce però a superare brillantemente la prova, gio- cando la carta del linguaggio di genere (e il più po- polare) in una conclusione insieme conciliatoria e graffiante. Dove al di là del sobrio inno al rispetto della persona e delle sue scelte anche sessuali, emerge la desolata constatazione dei meccanismi manipolatori di tutta una società. Al mondo alla rovescia richiama però indiretta- mente anche un secondo testo, apparso qualche Doppi diurni e notturni di Franco Marucci Charles Dickens, Il mistero di Edwin Drood, ed. orig. 1870, trad. dall'inglese di Marisa Sestito, pp. XIII- 335, € 18, Ut et, Torino 2009 Non c'è un'estetica dell'incompiuto di sicuro riferimento, ma si possono tentare alcuni impressionismi alla luce del Mistero di Edwin Drood di Dickens. L'incompiuto era un rischio consapevole dei narratori vittoriani schiavi del si- stema seriale, ed è statistico che molti abbiano la- sciato alla morte un romanzo non finito. Sorge però la tentazione di spiegarlo non come un de- precabile imprevisto del sistema di mercato, ma come una specie di benefico boomerang. In che senso, insomma, Edwin Drood cambia le carte in tavola del romanzo dickensiano? L'illusione che fosse improvvisamente un romanzo breve si dile- gua alla verifica del contratto editoriale. Resta il fatto che, per quanto poi la struttura potesse ap- pesantirsi, il moncone che leggiamo dà l'idea di un intreccio più snello, alleggerito di comparse e di personaggi minori. E la commedia è meno ubriacante del solito, le gag meno brillanti e più compassate. Non si dirà che cessa o avrebbe po- tuto cessare la multifocalità proverbiale, ma che i poli, in Dickens abissalmente separati, sono subi- to più vicini e le trame plurime si riducono. La variante che non si può equivocare riguarda però il trattamento induttivo dei personaggi e della fa- bula e il potenziamento del grottesco simbolico. Dickens è il canonico narratore onnisciente che qui sembra abbandonare il timone e si finge in piena balia della trama che ha varato. Chi apra il romanzo rimane sconcertato da scene offerte sen- za un esauriente situazionamento previo, e dalla recidiva mancanza di antefatti per ogni personag- gio introdotto. La stessa geografia si è velata, e Dickens, che si può sempre seguire come un an- tico Baedeker, è improvvisamente vago nella se- gnaletica. Che Dickens non sia un realista puro è un luogo comune; qui ha saputo creare un'isotopia della mortuarietà che non ha riscontri salvo Bleak Hou- se. Un sottoromanzo vittoriano è dell'antica catte- drale, ma, lontano dalla garrula o anche subdola schermaglia per il piccolo potere locale del ciclo di Trollope, Dickens rimesta nel gotico della città- cattedrale con annesso cimitero, una specie di pa- lude miasmica notturna e nebbiosa dai cui fumi spuntano creature larvali che compiono gesti e azioni largamente ipnotiche. Un concetto neo- shakespeariano della psiche è provato dall'affolla- ta, mimetizzata filigrana sotterranea degli echi. La divisione è tra gli sgominati dalla passione da un la- to, e chi cerca, dall'altro, di volere, ma intendendo dar libero corso alla propria volontà si trova mi- nacciato e con la strada sbarrata. Edwin Drood è un romanzo metafisico e agonico, scritto dalla pre- messa di un determinismo psichico inesorabile, e perciò anche di un lontano lascito calvinista, di una predestinazione - soprattutto al male - che si tenta di combattere in fondo sempre vanamente. La metafora ubiqua della fratturazione della personalità assume in Jasper un valore lettera- le e diagnostico. Un giallo, dunque, ma uno studio al tempo stesso della nevrosi del medio Ottocento, come tutti i romanzi dickensiani finali, popolati da abulici, disadattati, omicidi veri e potenziali, o ma- niaci sessuali soffocati che sono al tempo stesso, come Jasper, dei "doppi" diurni e notturni. E non era doppio Iago, di cui Jasper è in certi momenti un sosia? Dickens ha suddiviso ed estrovertito in Jasper, Drood e Neville le sue nevrosi ultime, le sue volubilità e le sue malinconie, persino le sue fantasie omicide. Marisa Sestito si confronta con precedenti tra- duttori di grido e appronta una versione creativa di cui si apprezzano le gustose cadenze regionali nostrane come equivalenti del vernacolo o dello sgrammaticato dickensiano, quali la colorita in- flessione napoletana per la tenutaria della fumeria d'oppio. Si avverte veramente dietro alla tradu- zione, come preesistente, un saggio critico smem- brato nelle note a piè di pagina, che rivelano la so- luzione sua personale del rebus, condivisa da mol- ti, che il colpevole dell'omicidio di Edwin Drood è John Jasper. mese dopo in libreria, e che conduce a sfondo e genere totalmente differenti. Chiuso ben prima dell'ultima tornata di notizie su attacchi di pirati a yacht o a navi commerciali, Tortuga di Valerio Evangelisti (pp. 330, € 16,50, Mondadori, Milano 2008) coniuga, come sempre nei romanzi di questo scrittore, il rigore della ricerca storica e l'inquietu- dine sul nostro presente. La narrativa sui pirati è ben radicata, si può immaginare, nell'esperienza infantile e adolescenziale del lettore medio adulto: e non solo attraverso i più noti romanzi di Salgari o gli scontri con Uncino del Peter Pan, ma in una vasta produzione di opere minori e pur significati- ve. Chi scrive rammenta per esempio la trilogia ot- tocentesca sul pirata Olonese del maestro di scuo- la americano F.A. Stone, edita per ragazzi da Mali- piero (1969-71): un'epopea che non aveva nulla del romanticismo di tanta vulgata sui predoni dei mari, ma li presentava pragmaticamente crudeli, ben poco esemplari, fascinosi solo sulla distanza. Forse oggi, con simili narrazioni agli allievi, il maestro Stone si guadagnerebbe un'ispezione mi- nisteriale: ma ho ripensato a quelle letture popo- lari nello sprofondare entro lo straordinario, tan- to più complesso affresco di Tortuga. Che mostra una società dei pirati quasi in negativo fotografi- co rispetto a quella marinara delle nazioni "civi- li": una strana democrazia che però - Evangelisti lo mette bene in chiaro - non si presta agli sdilin- quimenti sulla "società libera" spesi da certa in- genua critica recente. C'è anzi molto di sadiano nell'apprendistato in seno alla comunità del pro- tagonista Rogério de Campos, ex gesuita dai trascorsi ambigui: un cammino che lo vede af- fiancato, come Dante nei regni oltremondani, da diverse figure di in- terprete-mentore. Per l'esattezza due ed en- trambi medici, cioè gli intellettuali della filibu- sta: e se l'iniziazione av- viene al fianco dell'in- quietante De Lussan, che strappa a Rogério ogni illusione sulle pul- sioni umane, la fase suc- cessiva accanto all'intro- spettivo Exquemeling mette in luce uno spro- fondamento ormai avve- nuto. Come sotto due capitani, del resto, l'ex gesuita milita: prima il vitalistico Lorencillo, poi il cupo e carismatico ca- valiere De Grammont, cui Rogério contende un oscuro oggetto del desi- derio, una bella schiava ombra della sua nevrosi. In scena è la fine della fi- libusta, usata e poi getta- ta dai protettori europei al mutare degli assetti politici: ma di quel mon- do alternativo e nichili- stico all'insegna dello scatenamento degli istin- ti, l'Età Ludica moderna riscoprirà qualcosa. Ere- ditandone, è chiaro, non i De Grammont amman- tati di livida grandezza, ma le mediocri e furbette caricature, l'onda lunga dei Rogério. ■ franco.pezzinil@tin. it F. Pezzini è saggista e redattore giuridico