N. 11 Se il dolly diventa fancy e O K. >4J e/) di Giaime Alonge Tony Gilroy, sceneggiatore e regista di Michael Clayton (2007), negli extra del dvd del suo film, per dire che ha optato per uno stile piano, che tende all'essenza delle cose, afferma di non aver utilizzato "fancy crane shots", ovvero "dolly ricercati". Il dolly è una gru sulla quale si monta la macchina da presa, che così può sollevarsi da ter- ra. Si tratta di un movimento di macchina che "dà respiro" all'inquadratura: l'obiettivo si alza, il cam- po si allarga e il mondo si dispiega di fronte agli occhi degli spettatori. E una soluzione stilistica uti- lizzata spesso nei film storici, quando si vuole tra- smettere 0 senso del destino collettivo. Basti pen- sare alla scena della stazione di Atlanta piena di fe- riti in Via col vento (1939): Rossella si aggira tra i soldati che giacciono sulla nuda terra, in un coro di lamenti pietosi, mentre la macchina da presa si alza sempre più, allargando il quadro fino a com- prendere una bandiera sudista. Il vessillo lacero sventola impotente in primo piano, mentre sullo sfondo la folla dei disperati combattenti della Confederazione chiede inutilmente soccorso, a rappre- sentare appunto 0 crollo del vecchio Sud. Ma se il regista non ha molto da di- re, il dolly rischia di diventare fancy nel- l'accezione negativa che Gilroy dà al- l'aggettivo: un for- malismo, un orpel- lo inutile. Baarìa è pieno di dolly, sin dalla se- quenza di apertura, quando il piccolo Pietro si mette a correre per le stra- de della cittadina. La mia impressione è che questi movi- menti di macchina, così come la foto- grafia patinata, da pubblicità della Ba- rilla, e la colonna sonora di Morrico- ne, il quale, consapevolmente o meno, fa il verso alle proprie partiture più magniloquenti (C'era una volta in America, 1984; Mission, 1986), siano il se- gno di un film che si vuole epico, che tenta di co- struire un grande affresco storico, a imitazione del Gattopardo (1963) e di Novecento (1976), ma che invece produce, a fronte della ricchezza del budget (30 milioni di euro: non molti per i kolossal ameri- cani, ma tantissimi per il cinema italiano di oggi), un'opera di imbarazzante povertà espressiva. E l'origine di questa povertà risiede nella sce- neggiatura, che, nell'inseguire la coralità, si disperde in mille rivoli che producono unicamen- te un'infinità di sketch inerti sotto il profilo dram- maturgico. Si pensi ad esempio all'episodio del corteo funebre per i morti di Portella delle Gine- stre. Prima c'è una scenetta comica: il protagonista entra in una merceria e compra quattrocento bot- toni da lutto, da distribuire a tutti gli iscritti della locale federazione del Partito. Sembra la sequenza del Dittatore dello Stato libero di Bananas (1971) dove Woody Alien scende dalla sierra per cercare provviste per le bande di ribelli, entra in un bar e ordina mille tramezzini al formaggio. Poi dopo la gag viene il "momento serio": il campo lungo di una folla con le bandiere rosse listate a lutto. La ci- necamera indugia sulla composta tristezza dei mi- litanti del Pei e carrella di lato, a inquadrare — con la scelta più ovvia e banale — un signore che leg- ge un giornale la cui prima pagina riporta la noti- zia della strage compiuta dal bandito Giuliano. Ma si tratta appunto di un momento: sull'argomento non si dice più niente, tanto che uno spettatore che non conoscesse i fatti di Portella delle Gine- stre non capirebbe nulla. Tutto il film è costruito in questo modo: attorno alla storia agrodolce di Peppino Torrenuova e della sua famiglia, si apro- no continui "a parte", con personaggi che recitano qualche battuta e poi scompaiono senza lasciare traccia, sino all'estremo del cammeo muto di Mo- nica Bellucci, la quale si limita a farsi palpeggiare su un ponteggio da un muratore con il cappello di carta, in una scena che, più che l'influenza del grande cinema italiano del passato, citato da Tor- natore a ogni piè sospinto, denuncia un debito ver- so l'immaginario dei fumetti porno degli anni set- tanta. Oppure si veda la sequenza dedicata ai mo- ti contro il governo Tambroni. È mattina e due uo- mini vanno al lavoro: il protagonista, dirigente del Pei, e il suo dirimpettaio carabiniere. Le rispettive mogli li accompagnano preoccupate fin sulla stra- da: si studiano, si salutano e rientrano in casa. Nel corso della giornata arrivano notizie frammentarie degli scontri di piazza scoppiati in diverse città ita- liane e la moglie del carabiniere va da quella del militante comunista a sentire la radio, perché la sua è rotta. Parreb- be l'inizio di un rapporto, di una conoscenza che for- se può superare gli steccati ideologici. Ci aspettiamo che la moglie del cara- biniere (e forse il carabiniere stesso) ritorni, che questo incontro abbia un seguito, o che ma- gari non ce l'abbia, che il film ci dica che le barriere poli- tiche sono insor- montabili, e invece non ci dice niente, né in un senso né nell'altro, e la mo- glie del carabiniere, il carabiniere e la casa in cui abitano sprofondano nel fuori campo. Ma anche i personaggi importanti, quelli che accompagnano l'eroe per tutto lo sviluppo della vi- cenda, finiscono per essere irrisolti. E il caso del fratello di Peppino, il quale a un certo punto decide di sui- cidarsi e va in farmacia a chiedere una "medicina per morire". Perché vuole farla finita? Non si sa. Nulla ha preparato questo evento, e nulla ci viene detto dopo. Il farmacista gli dà una bevanda inno- cua e la cosa si chiude con una risata. E allora la fi- gura che funziona meglio è quella che più di tutte è sganciata dal plot: il matto del paese-borsaro ne- ro, interpretato da Fiorello, che per tutto il film sta sull'angolo di una strada a ripetere ossessivamente la stessa battuta. Un racconto corale, per produrre appunto rac- conto e non apparizioni fuggevoli e vuote, deve costruire dei personaggi a tutto tondo che, in bre- ve tempo (la difficoltà sta proprio qui), interagi- scono tra loro e con lo sfondo storico-sociale. E il difetto di fondo dell'impianto di Baarìa è ancora più evidente per il fatto che molti dei ruoli secon- dari sono affidati ad attori noti, che ci si aspette- rebbe avessero un peso reale nell'economia della vicenda. È il modello dell'a// star cast, un modello tipico del kolossal hollywodiano, in particolare del cinema bellico, basti pensare alla Sottile linea rossa (1998), un modello che, di nuovo, funziona se hai qualcosa di significativo da mettere in boc- ca agli attori. giaime.alonge@unito.it G. Alonge insegna storia del cinema all'Università di Torino Se la storia deve piacere di Tiziana Magone In concomitanza con l'uscita del film, Sellerio pubblica la sceneggiatura di Baarìa scritta da Giuseppe Tornatore (pp. 288, € 13) e ne affida l'introduzione a Paolo Mieli che, fin dalla prima ri- ga, rivela tutto il suo entusiasmo: "Baarìa è un atto d'amore e di poesia". In quattro paginette strari- panti elogi, ci spiega che oltre ad aver tanto amato il film ne ha anche, e soprattutto, apprezzato il ca- rattere di racconto paradigmatico ("La Sicilia sì ma anche la piccola provincia e l'Italia tutta che si fondono in un'unica dimensione") e storico ("Baarìa è un omaggio poetico al nostro passato, che non stende veli sull'ipocrisia, sul male, sugli orrori."). E dunque soprattutto lo storico, lo stori- co politico, che apprezza le 189 scene del diziona- rio filmico che Tornatore ha costruito. Forse perché, come scrive, c'è l'antifascismo "dello sberleffo": due scene comiche in cui un at- tore in un teatro canta Un'ora sola ti vorrei guar- dando il ritratto del duce; e un venditore di sal- sicce che ripete "salsicce di porco" seguendo il podestà nella strada centrale del paese. Entrambi vengono arrestati tra le risate generali. Burloni malvestiti e uomini in divisa con le facce un po' più severe: una questione di senso dell'umorismo. O forse perché Peppino Torrenuova, comunista riformista (cioè uno "che vuole cambiare il mon- do per mezzo del buon senso") tornato da un viaggio in Unione Sovietica riferisce all'amico e compagno di partito di aver visto "cose terribili". Poco credibile, anzi per nulla credibile, ma un po' di critica e autocritica in odore di '56 non po- teva mancare. E neppure un po' di compiacimen- to per un'altrettanto improbabile manifestazione sessantottesca con slogan francesi e ragazze con il basco, a Bagheria. Così un paio di scene per la guerra, due per l'occupazione delle terre, un paio per la mafia (un'ammazzatina e una manciata di nomi ricordati a un giornalista), Portella delle Gi- nestre in un corteo di bandiere rosse e bottoni neri a lutto, echi radiofonici dei moti di Genova contro Tambroni, qualche ingenuo broglietto elettorale di piccolo cabotaggio, un assessore al- l'urbanistica corrotto. Non è tanto importante quante scene vengano dedicate ai singoli temi, è banalizzante il modo in cui i temi vengono ridotti a pensierini e liquidati. Il modello di narrazione storica cui Tornatore sem- bra ispirarsi, non sono tanto i romanzieri dell'Ot- tocento, ma piuttosto Snoopy romanziere: "I coni- glietti. Storia di gioia e di dolore - 'Ah ah ah', rise- ro i coniglietti. - 'Ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah' - 'Con la gioia siamo a posto!'". E anche quel fair play storico-politico che permea il film, e che per Mieli è da tempo un vero e proprio "program- ma storiografico" (vedi Bruno Bongiovanni, Mieli- smi e nuovismi: l'uso mediatico della storia, "L'In- dice", 2001, n. 9), è un'idea di storia preconfezio- nata in cui torti e ragioni sono distribuiti a priori in modo bilanciato, per essere accettati e condivi- si. Caselle da riempire, o lemmi cinematografici da inanellare, con buon senso ed equilibrio, fino a co- struire un quadro narrativo che possa piacere a tutti e che consenta un bagno collettivo di auto- compiacimento: in fondo siamo un bel paese, Ba- gheria-Sicilia-Italia, no? L'omaggio poetico di Tornatore al nostro pas- sato, conclude Mieli, "è costruito in maniera tale da far emergere tra le righe e da farci riconosce- re i valori che sono andati smarriti e che ci pia- cerebbe ritrovare nel nostro futuro". Dunque questa idea di storia non è solo un'innocua e bea- ta autocelebrazione, vuole trasmettere "valori smarriti", ha uno scopo educativo, pedagogico. La divulgazione storica fatta con altri mezzi (ci- nema e giornalismo) in nome di una nuova peda- gogia, se ha i toni astiosi di Pansa crea più facil- mente degli anticorpi, mentre se è annegata nei toni pastello di Tornatore e nella retorica senti- mentale di Mieli è ugualmente finta, ma non su- scita reazioni, si deposita più facilmente e diven- ta senso comune. ■